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Introduzione

 

1. Il Buon Pastore, Cristo Gesù (cfr. Gv 10, 11.14), ha conferito ai Vescovi, successori degli apostoli, e in special modo al Vescovo di Roma la missione di ammaestrare tutte le nazioni e di predicare il Vangelo ad ogni creatura perché fosse istituita la Chiesa, Popolo di Dio, e a tale scopo l'ufficio dei pastori di questo suo popolo fosse realmente un servizio; e tale servizio «nella Sacra Scrittura è chiamato significativamente "diaconia", cioè ministero» (Lumen Gentium, 24).

Questa diaconia tende soprattutto al fine che, nell'intero organismo della Chiesa, la comunione si instauri sempre di più, abbia vigore e continui a produrre i suoi mirabili frutti. Infatti, come ha ampiamente insegnato il Concilio Vaticano II, il mistero della Chiesa si manifesta nelle molteplici espressioni di questa comunione: infatti lo Spirito «guida la Chiesa verso tutta intera la verità (cfr. Gv 16, 13), la unifica nella comunione e nel servizio, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici . . . continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo» (Lumen Gentium, 4). Di conseguenza, come afferma lo stesso Concilio, «sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integralmente la sua organizzazione e tutti i mezzi di salute in essa istituiti, e nel suo corpo visibile sono congiunti con Cristo - che la dirige mediante il sommo Pontefice e i Vescovi - dai vincoli della professione della fede, dei sacramenti, del regime ecclesiastico e della comunione» (Lumen Gentium, 14).

Non soltanto i documenti del Concilio Vaticano II, e specialmente la costituzione dogmatica sulla Chiesa, hanno spiegato in modo completo tale nozione di comunione, ma vi hanno dedicato la loro attenzione anche i padri del Sinodo dei Vescovi, riuniti in assemblea generale nel 1985 e nel 1987. In questa definizione della Chiesa confluiscono sia il mistero della Chiesa (Lumen Gentium, capitolo I), sia le componenti del Popolo messianico di Dio (Lumen Gentium, capitolo II), sia la struttura gerarchica della Chiesa stessa (Lumen Gentium, capitolo III). Per dare una definizione sintetica di tali realtà, usando le stesse parole della menzionata costituzione, «la Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (Lumen Gentium, 1). E' questo il motivo per cui tale sacra comunione fiorisce in tutta la Chiesa, «la quale vive e agisce - come bene ha scritto il mio predecessore Paolo VI - nelle diverse comunità cristiane, cioè nelle Chiese particolari, disperse in tutto il mondo» (Pauli VI «Vicariae Potestatis», AAS 69 [1977], 6; cfr. Lumen Gentium, 15).

2. In base alla comunione, che in un certo senso tiene insieme tutta la Chiesa, si spiega e realizza anche la struttura gerarchica della Chiesa, dotata dal Signore di natura collegiale e insieme primaziale, quand'egli «costituì gli apostoli a modo di collegio o ceto stabile, a capo del quale mise Pietro, scelto di mezzo a loro» (Lumen Gentium, 19). Qui si tratta della speciale partecipazione dei pastori della Chiesa al triplice ufficio di Cristo, cioè del Magistero, della santificazione e del governo: gli apostoli insieme con Pietro - i Vescovi insieme col Vescovo di Roma. Per adoperare nuovamente le parole del Concilio Vaticano II, «i Vescovi dunque assunsero il ministero della comunità con i loro collaboratori sacerdoti e diaconi, presiedendo in luogo di Dio al gregge, di cui sono pastori, quali maestri della dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo. Come quindi permane l'ufficio dal Signore concesso singolarmente a Pietro, il primo degli apostoli, e da trasmettersi ai suoi successori, così permane l'ufficio degli apostoli di pascere la Chiesa, da esercitarsi in perpetuo dal sacro ordine dei Vescovi» (Lumen Gentium, 20). Così avviene che «questo collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e l'universalità del Popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l'unità del gregge di Cristo» (Lumen Gentium, 22).

Il potere e l'autorità dei Vescovi hanno il carattere di diaconia, secondo il modello di Cristo stesso, il quale «non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 45). Occorre perciò intendere ed esercitare il potere nella Chiesa secondo le categorie del servire, di modo che l'autorità abbia la pastoralità come carattere principale.

Ciò riguarda ogni Vescovo nella sua Chiesa locale; ma tanto più riguarda il Vescovo di Roma nel servizio petrino in favore della Chiesa universale: infatti la Chiesa di Roma presiede «all'assemblea universale della carità» (S. Ignatii Antiocheni «Epist. ad Romanos», inscriptio: «Patres Apostolici», Tubingae 1901, I, 252), e quindi serve alla carità. Di qui l'antica denominazione di «servo dei servi di Dio», con cui viene chiamato per definizione il successore di Pietro.

Per tali motivi, il Pontefice romano si è sempre dato cura anche dei problemi delle Chiese particolari, a lui deferiti dai Vescovi oppure conosciuti in qualche altro modo, affinché, dopo di averne presa una più completa conoscenza, potesse confermare nella fede i fratelli (cfr. Lc 22, 32) in virtù del suo ufficio di Vicario di Cristo e di pastore di tutta la Chiesa. Era infatti convinto che la reciproca comunione tra i Vescovi del mondo intero ed il Vescovo di Roma, nei vincoli di unità, di carità e di pace, fosse di grandissimo vantaggio per l'unità della fede e della disciplina da promuovere e mantenere in tutta la Chiesa (cfr. Lumen Gentium, 22.23.25).

3. Alla luce di questi principi si intende come la diaconia propria di Pietro e dei suoi successori abbia necessariamente un riferimento alla diaconia degli altri apostoli e dei loro successori, la cui unica finalità è quella di edificare la Chiesa.

Questa necessaria relazione del ministero petrino con l'ufficio ed il ministero degli altri apostoli fin dall'antichità richiese, e deve richiedere, l'esistenza di un certo qual segno, non solo simbolico ma reale. I miei predecessori, vivamente colpiti dalla gravità delle loro fatiche apostoliche, ne ebbero la chiara e viva percezione; ad esempio, ne danno testimonianza le parole di Innocenzo III, indirizzate nel 1198 ai Vescovi e ai prelati della Gallia nell'inviare loro un suo legato: «Benché la pienezza della potestà ecclesiale, a noi conferita dal Signore, ci abbia reso debitori di tutti i fedeli di Cristo non possiamo tuttavia aggravare più del dovuto lo stato e l'ordine della condizione umana... E poiché la legge della condizione umana non permette, né noi possiamo portare di nostra propria persona il peso di tutte le sollecitudini, siamo talvolta costretti a compiere per mezzo di nostri fratelli, membra del nostro corpo, quelle cose che adempiremmo ben più volentieri personalmente, se lo permettesse l'utilità della Chiesa» («Die Register Innocenz' III», I, Graz-Köin 1964, pp. 515ss).

Di qui si vedono e si comprendono sia la natura di quell'istituto, del quale i successori di Pietro si sono serviti nell'esercizio della propria missione per il bene della Chiesa universale, sia l'attività con cui esso ha dovuto realizzare i compiti affidatigli: voglio dire la Curia romana, che è all'opera fin da tempi remoti per aiutare il ministero petrino.

Infatti, al fine di ottenere che la fruttuosa comunione, di cui ho parlato, avesse sempre maggiore stabilità e progredisse con risultati sempre più soddisfacenti, la Curia romana è sorta per un solo fine: rendere sempre più efficace l'esercizio dell'ufficio universale di pastore della Chiesa, che lo stesso Cristo ha affidato a Pietro ed ai suoi successori, e che di volta in volta è cresciuto a dimensioni sempre più vaste. Effettivamente, il mio predecessore Sisto V così riconosceva nella costituzione apostolica «Immensa Aeterni Dei»: «Il romano Pontefice, che Cristo Signore ha costituito capo visibile del suo corpo, la Chiesa, ed ha voluto che portasse il peso della sollecitudine di tutte le Chiese, chiama a sé ed assume molti collaboratori in una così immensa responsabilità... affinché compartendo con loro (i Cardinali), e con le altre autorità della Curia romana la mole ingente delle preoccupazioni e delle incombenze. Egli, che regge il timone di una potestà così grande, con l'aiuto della grazia divina, non debba soccombervi» (Xysti V «Immensa Aeterni Dei», prooemium, § 1).

4. In realtà - per ricordare ormai qualche elemento storico - i romani Pontefici, già fin dai tempi più antichi utilizzarono per il loro servizio, diretto al bene della Chiesa universale, sia persone singole che istituzioni, scelte dalla Chiesa di Roma, definita da san Gregorio Magno la Chiesa del beato apostolo Pietro (Reg. XIII, 42, II, p. 405, 12).

In un primo tempo si avvalsero dell'opera di presbiteri o di diaconi, appartenenti a quella stessa Chiesa, sia come Legati, sia come membri di diverse missioni, sia come rappresentanti del Papa nei Concilii ecumenici.

Qualora però si dovessero trattare affari di particolare importanza, i romani Pontefici chiesero l'aiuto di Sinodi o di Concilii romani, ai quali venivano chiamati Vescovi che esercitavano il loro ufficio nella provincia ecclesiastica di Roma; in quei Sinodi o Concilii non soltanto si discutevano questioni attinenti la dottrina o il Magistero, ma si seguiva una procedura simile a quella dei tribunali, e vi si giudicavano le cause dei Vescovi, deferite al romano Pontefice.

Fin da quando, tuttavia, i Cardinali cominciarono a prendere uno speciale rilievo nella Chiesa di Roma, particolarmente nell'elezione del Papa, ad essi riservata a partire dal 1059, i romani Pontefici si servirono sempre più di quella loro collaborazione; e così il compito del Sinodo romano o del Concilio perse gradualmente di importanza, fino a cessare del tutto.

Avvenne quindi che, specialmente dopo il secolo XIII, il sommo Pontefice trattasse tutte le questioni della Chiesa insieme con i Cardinali, riuniti in Concistori. In tal modo, a strumenti non permanenti, quali i Concilii o i Sinodi romani, ne succedette uno permanente, che doveva essere sempre a disposizione del Papa.

Il mio predecessore Sisto V, con la già citata costituzione apostolica «Immensa Aeterni Dei», del 22 gennaio 1538 - che fu l'anno 1537 dall'incarnazione di nostro Signore Gesù Cristo - diede alla Curia romana la sua formale configurazione, istituendo un insieme di 15 dicasteri: l'intento era quello di surrogare l'unico collegio cardinalizio con vari «collegi» composti da alcuni Cardinali, la cui autorità era limitata ad un determinato campo e ad un preciso argomento; in tal modo i sommi Pontefici potevano avvalersi moltissimo dell'aiuto di tali consigli collegiali. Di conseguenza il compito originario e l'importanza specifica del concistoro diminuirono grandemente.

Col volgere dei secoli, e col mutare delle concrete situazioni storiche, furono introdotte alcune modificazioni e innovazioni, soprattutto con l'istituzione, nel secolo XIX, di commissioni cardinalizie che dovevano offrire la loro collaborazione al Papa oltre a quella prestata dai dicasteri della Curia romana. Infine, per volontà di san Pio X, mio predecessore, il 29 giugno 1908 fu promulgata la costituzione apostolica «Sapienti Consilio», nella quale, anche nella prospettiva di unificare le leggi ecclesiastiche nel Codice di Diritto Canonico, egli scriveva: «E' sembrato sommamente opportuno cominciare dalla Curia romana, affinché essa, ordinata in forma opportuna e comprensibile a tutti, possa prestare più facilmente la propria opera e dare più completo aiuto al romano Pontefice e alla Chiesa» (cfr. S. Pii X «Sapienti Consilio»: AAS 1 [1909] 8). Gli effetti di quella riforma furono principalmente questi: la Sacra Romana Rota, soppressa nel 1870, fu ristabilita per le cause giudiziarie, di modo che le congregazioni, perdendo la loro competenza in tale campo, diventassero organi unicamente amministrativi. Fu inoltre stabilito il principio che le congregazioni godessero del proprio inalienabile diritto, cioè che ciascuna materia dovesse essere trattata da un dicastero competente, e non contemporaneamente da diversi.

Questa riforma di Pio X fu successivamente sancita e completata nel Codice di Diritto Canonico, promulgato da Benedetto XV nel 1917; e rimase praticamente immutata fino al 1967, non molto dopo la conclusione del Concilio Vaticano II, nel quale la Chiesa ha indagato più profondamente il suo proprio mistero e si è delineata più vividamente la propria missione.

5. Questa accresciuta conoscenza di se stessa da parte della Chiesa doveva spontaneamente comportare un aggiornamento nella Curia romana, consentaneo alla nostra epoca. In effetti, i Padri del Concilio riconobbero che essa aveva finora fornito un prezioso aiuto al romano Pontefice ed ai pastori della Chiesa, ed al tempo stesso espressero il desiderio che fosse dato ai dicasteri di Curia un nuovo ordinamento, più adatto alle necessità dei tempi, delle regioni e dei riti (cfr. Christus Dominus, 9). Rispondendo ai voti del Concilio, Paolo VI portò alacremente a termine il riordinamento della Curia, con la pubblicazione della costituzione apostolica «Regimini Ecclesiae Universae», il 15 agosto 1967.

In realtà, mediante tale costituzione, il mio predecessore determinò con maggiore accuratezza la struttura, la competenza e la prassi dei dicasteri esistenti, e ne costituì dei nuovi, le cui mansioni fossero la promozione, nella Chiesa, delle iniziative pastorali particolari, continuando gli altri dicasteri a svolgere i loro compiti di giurisdizione e di governo: risultò in tal modo che la composizione della Curia rifletteva molto chiaramente la multiforme immagine della Chiesa universale. Tra l'altro, chiamò a far parte della Curia stessa i Vescovi diocesani, e provvide al coordinamento interno dei dicasteri per mezzo di riunioni periodiche dei loro Cardinali capi dicastero, allo scopo di esaminare i problemi comuni con consultazioni reciproche. Introdusse la «Sectio altera» nel Tribunale della Segnatura apostolica per una più conveniente tutela dei diritti essenziali dei fedeli.

Paolo VI sapeva bene, tuttavia, che la riforma di istituzioni tanto antiche esigeva di essere studiata con maggior cura; e quindi ordinò che, trascorsi cinque anni dalla promulgazione della costituzione, il nuovo ordinamento di tutto l'insieme fosse esaminato più a fondo, e che contemporaneamente si verificasse sia se si accordava realmente con i postulati del Concilio Vaticano II, sia se rispondeva alle esigenze del popolo cristiano e della società civile, oltre a dare alla Curia una conformazione ancora migliore, se fosse stato necessario. A tale incombenza fu destinata una speciale commissione di prelati, sotto la presidenza di un Cardinale, che svolse attivamente il proprio compito fino alla morte di quel Pontefice.

6. Chiamato dall'inscrutabile disegno della Provvidenza all'ufficio di pastore della Chiesa universale, fin dall'inizio del Pontificato è stato mio impegno non soltanto chiedere l'avviso dei dicasteri su di una questione tanto importante, ma consultare anche l'intero collegio dei Cardinali. Questi si dedicarono a tale studio durante due Concistori generali, e presentarono i loro pareri circa la via e il metodo da seguire nell'ordinamento della Curia romana. Era necessario interrogare per primi i Cardinali in un tema di così grande rilievo: essi infatti sono uniti da un vincolo strettissimo e specialissimo col romano Pontefice, che essi «assistono... sia agendo collegialmente quando sono convocati insieme per trattare le questioni di maggiore importanza, sia come singoli, cioè nei diversi uffici ricoperti prestandogli la loro opera nella cura soprattutto quotidiana della Chiesa universale» («Codex Iuris Canonici», canone 349).

Un'ampia consultazione fu ancora compiuta, com'era giusto, presso i dicasteri della Curia romana. Il risultato di questa generale consultazione fu quello «Schema della legge particolare sulla Curia romana», alla cui preparazione lavorò per due anni una commissione di prelati sotto la presidenza di un Cardinale; lo schema fu ancora sottoposto all'esame dei singoli Cardinali, dei Patriarchi delle Chiese Orientali, delle conferenze episcopali per il tramite dei rispettivi presidenti, e dei dicasteri della Curia, e discusso nella plenaria dei Cardinali del 1985. Quanto alle conferenze episcopali, era necessario prendere una conoscenza veramente universale delle necessità delle Chiese locali e delle attese e dei desideri che, in questo campo, si rivolgono alla Curia romana; l'occasione diretta di una tale consultazione fu opportunamente offerta dal Sinodo straordinario dei Vescovi del 1985, già sopra ricordato.

Finalmente una commissione cardinalizia, appositamente istituita a questo fine, dopo aver tenuto conto delle osservazioni e dei suggerimenti emersi dalle precedenti consultazioni, e sentito anche il parere di alcuni privati, ha preparato una legge particolare per la Curia romana, che rispondesse convenientemente al nuovo Codice di Diritto Canonico.

Ed è questa legge particolare che ora promulgo mediante la presente costituzione, al termine del IV centenario della già ricordata costituzione apostolica «Immensa Aeterni Dei», di Sisto V, nell'80· anniversario della «Sapienti Consilio» di san Pio X, e nel 20· dell'entrata in vigore della «Regimini Ecclesiae Universae» di Paolo VI, con la quale questa è strettamente collegata, poiché entrambe, nella loro identità di ispirazione e di intenti, sono in un certo senso un frutto del Concilio Vaticano II.

7. Questi intenti e tale ispirazione, che ben si accordano col Vaticano II, stabiliscono ed esprimono l'attività della rinnovata Curia romana, come il Concilio afferma con queste parole: «Nell'esercizio della sua suprema, piena ed immediata potestà sopra tutta la Chiesa, il romano Pontefice si avvale dei dicasteri della Curia romana, che perciò adempiono il loro compito nel nome e nell'autorità di lui, a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori» (Christus Dominus, 9).

Di conseguenza è evidente che il compito della Curia romana, sebbene non faccia parte della costituzione essenziale, voluta da Dio, della Chiesa, ha tuttavia un carattere veramente ecclesiale, poiché trae dal pastore della Chiesa universale la propria esistenza e competenza. In effetti, essa in tanto vive e opera, in quanto è in relazione col ministero petrino e su di esso si fonda. Poiché tuttavia il ministero di Pietro, come «servo dei servi di Dio», viene esercitato nei confronti sia della Chiesa universale sia del Collegio dei Vescovi della Chiesa universale, anche la Curia romana, che serve il successore di Pietro, appartiene al servizio della Chiesa universale e dei Vescovi.

Da tutto ciò risulta chiaramente che la caratteristica principale di tutti e di ciascun dicastero della Curia romana è quella ministeriale, come afferrano le parole già citate dal decreto Christus Dominus, e soprattutto quella espressione: «Il romano Pontefice si avvale dei dicasteri della Curia romana» (Christus Dominus, 9). Si indica così in un modo evidente l'indole strumentale della Curia, descritta in un certo senso come uno strumento nelle mani del Papa, talché essa non ha alcuna autorità nè alcun potere all'infuori di quelli che riceve dal supremo pastore. E difatti lo stesso Paolo VI, ancora nel 1963, due anni prima della promulgazione del decreto Christus Dominus, definiva la Curia romana «uno strumento di immediata adesione e di perfetta obbedienza», del quale il sommo Pontefice si avvale per l'adempimento della propria missione universale: questa nozione è stata recepita in vari passi della costituzione «Regimini Ecclesiae Universae».

Tale caratteristica ministeriale o strumentale sembra definire molto appropriatamente la natura e l'attività di un'istituzione così benemerita e veneranda, che unicamente consistono entrambe nell'offrire al Papa un aiuto tanto più valido ed efficace, quanto più si sforza di essere più conforme e fedele alla di lui volontà.

8. Oltre a questa indole ministeriale, il Concilio Vaticano II ha posto ulteriormente in luce il carattere diciamo così vicario della Curia, per il fatto che essa, come già detto, non agisce per proprio diritto né per propria iniziativa: infatti esercita la potestà ricevuta dal Papa a motivo di quel rapporto essenziale e originario che ha con lui; e la caratteristica propria di questa potestà è di collegare sempre il proprio impegno di lavoro con la volontà di colui, dal quale prende origine.

La sua ragion d'essere è quella di esprimere e di manifestare la fedele interpretazione e consonanza, anzi l'identità con quella volontà medesima, per il bene delle Chiese ed il servizio dei Vescovi. La Curia romana trova in questa caratteristica la sua forza e la sua efficacia, ma al tempo stesso anche i limiti delle sue prerogative e un codice di comportamento.

La pienezza di questa potestà risiede nel capo, cioè nella persona del Vicario di Cristo, il quale l'attribuisce ai dicasteri di Curia secondo la competenza e l'ambito di ciascuno. Ma poiché il ministero petrino del Papa, come già detto, per sua natura fa riferimento al ministero personale dei Vescovi, sia come membri del collegio suoi fratelli nell'episcopato, anche la diaconia della Curia, della quale egli si avvale nell'esercizio del suo ministero personale, farà necessariamente riferimento al ministero personale dei Vescovi, sia come membri del collegio episcopale, sia come pastori delle Chiese particolari.

Per tale ragione, non solo è impensabile che la Curia romana ostacoli oppure condizioni, a mo' di diaframma, i rapporti e contatti personali tra i Vescovi ed il romano Pontefice, ma, invece, essa stessa è, e dev'essere sempre maggiormente, ministra di comunione e di partecipazione alle sollecitudini ecclesiali.

9. In ragione pertanto della sua diaconia, collegata col ministero petrino, si deve concludere che la Curia romana da una parte è strettissimamente congiunta con i Vescovi di tutto il mondo, e che, dall'altra, gli stessi pastori e le loro Chiese sono i primi e principali beneficiari della sua opera. E di questo è prova anche la composizione della Curia stessa.

Infatti la Curia romana è composta, si può dire, da tutti i Cardinali, che per definizione appartengono alla Chiesa di Roma (cfr. Pauli VI «Vicariae Potestatis»: AAS 69 [1977] 6), coadiuvano il sommo Pontefice nel governo della Chiesa universale, e sono tutti convocati ai Concistori sia ordinari che straordinari, quando è richiesta la trattazione di questioni particolarmente gravi (cfr. «Codex Iuris Canonici», canone 353); ne deriva che essi, per la maggior conoscenza che hanno delle necessità di tutto il Popolo di Dio, continuano in tal modo ad occuparsi del bene della Chiesa universale.

Si aggiunga che i responsabili dei singoli dicasteri hanno per lo più il carattere ed il carisma episcopale, appartenendo all'unico Collegio dei Vescovi, e sono pertanto spronati verso quella stessa sollecitudine per tutta la Chiesa, che unisce strettamente tutti i Vescovi, in comunione gerarchica col loro capo, il Pontefice romano.

Inoltre, sono chiamati a far parte dei dicasteri, come membri, alcuni Vescovi diocesani, «perché possano più compiutamente presentare al sommo Pontefice la mentalità, i desideri e le necessità di tutte le Chiese» (Christus Dominus, 10): e così avviene che l'affetto collegiale, esistente tra i Vescovi ed il loro capo, viene concretamente attuato mediante la Curia romana, ed esteso all'intero Corpo mistico, «che è pure il corpo delle Chiese» ( Lumen Gentium, 23).

Un tale affetto collegiale è pure alimentato tra i vari dicasteri. In effetti, tutti i Cardinali capi dicastero, o i loro rappresentanti, si incontrano periodicamente quando vi sono da trattare questioni particolari, allo scopo di venir messi al corrente, con reciproca informazione, dei problemi più importanti, e di recare un mutuo apporto alla loro soluzione, assicurando in tal modo l'unità di azione e di riflessione nella Curia romana.

Oltre ai Vescovi, sono necessari all'attività dei dicasteri moltissimi altri collaboratori, i quali servono e si rendono utili al ministero petrino con il proprio lavoro, non di rado nascosto, non semplice e non facile.

Infatti sono chiamati in Curia sacerdoti diocesani di ogni parte del mondo, strettamente quindi uniti ai Vescovi in ragione del sacerdozio ministeriale, di cui partecipano; religiosi, in grandissima parte sacerdoti, e religiose, che in modi diversi conformano la propria vita ai consigli evangelici, per accrescere il bene della Chiesa e dare una singolare testimonianza davanti al mondo; e poi laici, uomini e donne, che esercitano il proprio apostolato in virtù del Battesimo e della Confermazione. Questa fusione di energie fa sì che tutte le componenti della Chiesa, strettamente unite al ministero del sommo Pontefice, gli offrano sempre più efficacemente il proprio aiuto nella prosecuzione dell'opera pastorale della Curia romana. Ne risulta pure che questo servizio congiunto di tutte le rappresentanze della Chiesa non trova nessun equivalente nella società civile, e che quindi il loro lavoro dev'essere prestato in spirito di servizio, seguendo e imitando la diaconia di Cristo stesso.

10. E' pertanto chiaro che il servizio della Curia romana, sia considerato in se stesso, sia per il suo rapporto con i Vescovi della Chiesa universale, sia per i fini a cui tende e il concorde senso di carità a cui deve ispirarsi, si distingue per una certa nota di collegialità, anche se la Curia non si può paragonare ad alcun tipo di collegio; questa caratteristica la abilita al servizio del Collegio dei Vescovi e la provvede dei mezzi a ciò idonei. Ancor più: è anche l'espressione della sollecitudine dei Vescovi verso la Chiesa universale, in quanto essi condividono questa sollecitudine «con Pietro e subordinatamente a Pietro».

Tutto ciò acquista il massimo rilievo ed un significato simbolico quando i Vescovi, come già sopra ho detto, sono chiamati a collaborare rispettivamente nei vari dicasteri. Inoltre ogni singolo Vescovo mantiene l'imprescrittibile diritto e dovere di avere accesso presso il successore di Pietro, soprattutto mediante le visite «alle soglie degli apostoli».

Queste visite, per i principi ecclesiologici e pastorali sopra esposti, acquistano un significato specifico e del tutto particolare. Infatti offrono in primo luogo al Papa un'opportunità di primaria importanza, e costituiscono come il centro del suo supremo ministero: in quei momenti, infatti, il pastore della Chiesa universale si incontra e dialoga con i pastori delle Chiese locali, i quali vengono da lui per «vedere Pietro» (cfr. Gal 1, 18), per trattare con lui, personalmente e in forma privata, i problemi delle proprie diocesi, e partecipare insieme con lui alla preoccupazione per tutte le Chiese (cfr. 2 Cor 11, 28). Per tali motivi, nelle visite «ad limina» si favoriscono in modo straordinario la unità e la comunione all'interno della Chiesa.

Esse poi offrono ai Vescovi la possibilità di trattare e di approfondire con frequenza e facilità insieme con i componenti dicasteri di Curia sia gli studi riguardanti la dottrina e l'attività pastorale, sia le iniziative di apostolato, sia le difficoltà che ostacolano la loro missione di comunicare agli uomini la salvezza eterna.

11. Poiché dunque l'attività della Curia romana, unita al ministero petrino, e fondata su di esso, si dedica al bene della Chiesa universale e, al tempo stesso, delle Chiese particolari, essa è chiamata prima di ogni cosa a quel ministero di unità, che è in special modo affidato al romano Pontefice, in quanto è stato costituito da Dio fondamento perpetuo e visibile della Chiesa. Perciò l'unità nella Chiesa è un tesoro prezioso, che dev'essere conservato, difeso, protetto, promosso e continuamente realizzato con la zelante collaborazione di tutti e specialmente di coloro che a loro volta sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari (cfr. Lumen Gentium, 23).

La collaborazione che la Curia romana presta al santo Padre è dunque fondata su questo servizio all'unità: unità anzitutto di fede, che si sostiene e si costituisce sul sacro deposito, di cui il successore di Pietro è il primo custode e difensore, e per il quale ha ricevuto il supremo compito di confermare i fratelli; unità, poi, di disciplina, poiché si tratta della disciplina generale della Chiesa, che consiste in un complesso di norme e di comportamenti morali, costituisce la struttura fondamentale della Chiesa, e assicura i mezzi di salvezza e la loro retta distribuzione, unitamente all'ordinata strutturazione del Popolo di Dio.

Il governo della Chiesa universale difende da sempre questa unità dalla diversità dei vari modi di essere e di agire, che scaturiscono dalle differenze di persone e di culture, senza peraltro che essa ne patisca danno nell'immensa molteplicità di quei doni, che lo Spirito Santo largamente distribuisce; e tale unità si arricchisce continuamente, purché non nascano tentativi isolazionistici e centrifughi di mutua separazione, facendo sì, invece, che tutti gli elementi confluiscano nella più profonda struttura dell'unica Chiesa. Il mio predecessore Giovanni Paolo I aveva ricordato molto opportunamente questo principio, quando, parlando ai Cardinali, ebbe a dire che gli organismi della Curia romana «offrono al Vicario di Cristo la possibilità concreta di svolgere il servizio apostolico di cui egli è debitore a tutta la Chiesa, ed assicurano in tal modo l'organico articolarsi delle legittime autonomie, pur nell'indispensabile rispetto di quella essenziale unità di disciplina, oltre che di fede, per la quale Cristo pregò nell'immediata vigilia della sua passione» (Ioannis Pauli I «Allocutio ad Patrum Cardinalium Collegium», die 30 aug. 1978: Insegnamenti di Giovanni Paolo I, p. 25).

Da queste premesse scaturisce il principio che il ministero di unità rispetta le consuetudini legittime della Chiesa universale, le usanze dei popoli e la potestà che per diritto divino spetta ai pastori delle Chiese particolari. Ma è chiaro che il romano Pontefice non può omettere di intervenire ogni qualvolta gravi motivi lo richiedano per la tutela dell'unità nella fede, nella carità o nella disciplina.

12. Siccome, dunque, il compito della Curia romana è ecclesiale, esso postula la cooperazione dell'intera Chiesa, alla quale è totalmente orientato. Effettivamente, nessuno, nella Chiesa, è separato dagli altri, anzi ciascuno forma con tutti gli altri un unico e medesimo corpo.

E tale cooperazione si effettua per mezzo di quella comunione, di cui ho parlato fin dall'inizio, comunione di vita, di amore e di verità, per la cui formazione il Popolo messianico è stato voluto da Cristo Signore, e viene da lui assunto come strumento di redenzione e inviato nel mondo intero come luce nel mondo e sale della terra (cfr. Lumen Gentium, 9). Pertanto, come la Curia romana ha il dovere di stare in comunione con tutte le Chiese, così è necessario che i pastori delle Chiese particolari, da essi rette «come vicari e legati di Cristo» (cfr. Lumen Gentium, 27), cerchino in ogni modo di stare in comunione con la Curia romana, per sentirsi sempre più strettamente uniti al successore di Pietro mediante queste relazioni, improntate a reciproca fiducia.

Questa mutua comunicazione tra il centro e, per così dire, la periferia della Chiesa, non ingrandisce l'autorità di nessuno, ma promuove al massimo l'intercomunione di tutti a guisa di un corpo vivo che consta di tutte le membra e opera con la loro interazione. Questo fatto fu felicemente espresso da Paolo VI: «Risulta evidente che al movimento centripeto verso il cuore della Chiesa debba corrispondere un altro movimento centrifugo, giungendo in certo modo a tutte e singole le Chiese, a tutti e singoli i pastori ed i fedeli, di modo che venga espresso e manifestato quel tesoro di verità, di grazia e di unità, del quale Cristo Signore e redentore ci ha costituiti partecipi, custodi e dispensatori» (Pauli VI «Sollicitudo Omnium Ecclesiarum», die 24 iun. 1969: AAS 61 [1969] 475).

Tutto questo ha lo scopo di offrire più efficacemente al Popolo di Dio il ministero della salvezza: quel ministero, cioè, che prima di ogni cosa richiede il reciproco aiuto tra i pastori delle Chiese particolari e il pastore della Chiesa universale, cosicché tutti, congiungendo le loro forze, si adoperino per adempiere la legge della salvezza delle anime.

E nient'altro intesero i sommi Pontefici se non provvedere in modo sempre più proficuo alla salvezza delle anime, quando istituirono la Curia romana e la adattarono a nuove situazioni createsi nella Chiesa e nel mondo, come dimostra la storia. Ben a ragione, quindi, Paolo VI delineava la Curia come «un cenacolo permanente», totalmente consacrato alla Chiesa (cfr. Pauli VI «Allocutio ad eos qui sacris Exercitationibus in Palatio Apostolico interfuerunt», die 17 mar. 1973: Insegnamenti di Paolo VI, XI [1973] 257). Io stesso ho sottolineato che la vocazione di quanti in essa collaborano ha come unica direttiva e norma il premuroso servizio della e alla Chiesa (cfr. «Allocutio ad Curiam Romanam», 1, die 28 iun. 1986: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IX, 1 [1986] 1954). E nella presente e nuova legge sulla Curia romana ho voluto che si stabilisse che tutte le questioni siano trattate dai dicasteri «sempre in forme e con criteri pastorali, con l'attenzione rivolta sia alla giustizia e al bene della Chiesa, sia soprattutto alla salvezza delle anime» («Pastor Bonus», articolo 15: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XI, 2 [1988] 2364).

13. Ormai sul punto di promulgare questa costituzione apostolica per la nuova fisionomia della Curia romana, vorrei riassumere i principi e gli intenti ispiratori.

Ho voluto anzitutto che l'immagine della Curia corrispondesse alle esigenze del nostro tempo, tenuto conto dei cambiamenti operati dopo la «Regimini Ecclesiae Universae» sia dal mio predecessore Paolo VI sia da parte mia.

Secondariamente, è stato mio dovere far sì che il rinnovamento delle leggi, introdotto dal nuovo Codice di Diritto Canonico, o che sta per essere effettuato mediante la revisione del Codice di Diritto Canonico Orientale, avesse in un certo senso il suo compimento e la sua definitiva attuazione.

Inoltre, ho avuto l'intenzione che gli antichi dicasteri o organismi della Curia romana fossero resi ancor più idonei al conseguimento delle finalità per le quali furono istituiti, vale a dire alla loro partecipazione ai compiti di governo, giurisdizionali ed esecutivi; a tal fine gli ambiti operativi di questi dicasteri sono stati distribuiti con maggiore logicità e più chiaramente precisati.

Tenendo poi davanti agli occhi l'esperienza di questi anni e le necessità presentate dalle sempre nuove esigenze della società ecclesiale, ho riconsiderato la figura giuridica e l'attività di quegli organismi, giustamente chiamati «post-conciliari», perché eventualmente se ne cambiasse la conformazione e l'ordine. E la mia intenzione è stata di rendere sempre più utile e fruttuoso il loro compito di promuovere nella Chiesa particolari attività pastorali nonché lo studio di quei problemi, che, a ritmo crescente, interpellano la sollecitudine dei pastori ed esigono decisioni tempestive e sicure.

Infine, si sono volute nuove e permanenti iniziative, per l'affiatamento della mutua collaborazione tra i dicasteri, con l'intenzione che esse contribuiscano ad instaurare un modo di agire contraddistinto da un intrinseco carattere di unità.

In una parola, la mia preoccupazione è stata quella di andare risolutamente avanti affinché la conformazione e l'attività della Curia corrispondano sempre di più alla ecclesiologia del Concilio Vaticano II, siano sempre più chiaramente idonee al conseguimento dei fini pastorali della conformazione della Curia, e vengano incontro in forma sempre più concreta alle necessità della società ecclesiale e civile.

Ho infatti la persuasione che l'attività della Curia romana possa contribuire non poco a far sì che la Chiesa, nell'approssimarsi del terzo millennio dopo Cristo, rimanga fedele al mistero della sua nascita (cfr. Dominum et Vivificantem, 66), poiché lo Spirito Santo fa ringiovanire con la forza del Vangelo (cfr. Lumen Gentium, 4).

14. Avendo attentamente approfondito tutte queste riflessioni, con l'aiuto di esperti, e sostenuto dai saggi consigli e dall'affetto collegiale dei Cardinali e dei Vescovi, dopo aver premurosamente considerato la natura e la missione della Curia romana, ho dato ordine di redigere la presente costituzione; nutro la speranza che questa istituzione veneranda, e necessaria al governo della Chiesa universale, risponda a quel nuovo impulso pastorale, dal quale tutti i fedeli, i laici, i presbiteri e soprattutto i Vescovi, si sentono mossi, specie dopo il Vaticano II, ad ascoltare sempre più a fondo ed a seguire ciò che lo Spirito dice alle Chiese (cfr. Ap 2, 7).

Come infatti tutti i pastori della Chiesa, e tra di essi in modo particolare il Vescovo di Roma, si ritengono «servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (1 Cor 4, 1), sono e desiderano di essere soprattutto strumenti sensibili dell'opera dell'eterno Padre per continuare nel mondo l'opera della salvezza, così pure la Curia romana, in tutti i cerchi specializzati della sua attività responsabile, desidera di essere imbevuta dello stesso Spirito e del suo stesso afflato: lo Spirito del Figlio dell'uomo, del Cristo unigenito del Padre, il quale «è venuto . . . a salvare ciò che era perduto» (Mt 18, 11), e il cui unico, universale desiderio è incessantemente che gli uomini «abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10).

Pertanto, con l'aiuto della grazia divina e con la protezione della beatissima Vergine Maria, madre della Chiesa, stabilisco e decreto le seguenti norme relative alla Curia romana.



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