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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI COMPONENTI DEL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA
PER L'INAUGURAZIONE DELL'ANNO GIUDIZIARIO 

Venerdì, 29 gennaio 1993

 

Monsignor Decano,
Reverendissimi Uditori,
Officiali ed Avvocati tutti della Rota Romana!

1. A tutti il mio saluto deferente e cordiale. Ringrazio Monsignor Decano per le nobili espressioni che mi ha rivolto a nome del Collegio dei Prelati Uditori e di tutto il Tribunale della Rota Romana e mi felicito con lui per il generoso servizio svolto in tanti anni di dedizione assidua e fedele.

Quanto mai gradito mi è, all'inizio di ogni anno giudiziario, l'incontro con coloro che lodevolmente prestano la loro opera presso questo Tribunale Apostolico. Grande, infatti, come ha sottolineato Monsignor Decano, è il legame tra questa Cattedra di Pietro e il grave officio, al medesimo affidato, di giudicare in nome e per l'autorità del Romano Pontefice.

Ben volentieri approfitto, come già i miei Venerati Predecessori, di questa occasione per proporre, di anno in anno, alla vostra attenzione e, attraverso voi, a tutti coloro che nella Chiesa lavorano nello specifico ambito dell'amministrazione della giustizia, quanto la sollecitudine Apostolica mi suggerisce.

2. Mentre risuonano ancora gli echi del recente incontro di preghiera svoltosi ad Assisi con la partecipazione di numerosi fratelli delle Chiese e Comunità cristiane d'Europa, come pure di altri credenti sinceramente impegnati a servizio della pace, non posso non sottolineare che frutto precipuo anche del vostro lavoro deve essere sempre il rafforzamento e il ristabilimento della pace nella società ecclesiale.

E ciò non solo perché, come insegna il Dottore Angelico sulla scia di S. Agostino, «omnia appetunt pacem», anzi «necesse est quod omne appetens appetat pacem, inquantum scilicet omne appetens appetit tranquille et sine impedimento pervenire ad id quod appetit, in quo consistit ratio pacis, quam Augustinus definit tranquillitatem ordinis»,[1] ma perché diritto, giustizia e pace si richiamano, si integrano e si completano a vicenda.

Scriveva in proposito l'insigne giurista Francesco Carnelutti: «diritto e giustizia non sono la medesima cosa: corre tra loro il rapporto da mezzo a fine; diritto è il mezzo, giustizia il fine... Ma cos'è questo fine? Gli uomini hanno soprattutto bisogno di vivere in pace. La giustizia è la condizione della pace... Gli uomini raggiungono questo stato d'animo quando c'è ordine in loro e intorno a loro. La giustizia è conformità all'ordine dell'universo. Il diritto è giusto quando serve realmente a mettere ordine nella società».[2]

3. Bastano queste riflessioni per scongiurare qualsiasi cedimento a inopportune forme di spirito antigiuridico. Il diritto nella Chiesa, come del resto negli Stati, è garanzia di pace e strumento per la conservazione dell'unità, anche se non in senso immobilistico: l'attività legislativa e l'opera giurisprudenziale servono infatti per assicurare il doveroso aggiornamento e per consentire una risposta unitaria al mutare delle circostanze ed all'evolvere delle situazioni.

Con tale intento - che trascende l'aspetto esterno della Chiesa per raggiungere la dimensione più intima della sua vita soprannaturale - vengono emanate le leggi canoniche: così, in particolare, sono stati promulgati, per la Chiesa latina, il Codice Piano Benedettino, nel 1917, e poi quello del 1983, preparato con diuturna e laboriosa opera di studio, a cui han posto mano gli Episcopati del mondo intero, le Università Cattoliche, i Dicasteri della Curia Romana e numerosi maestri del diritto canonico. In tale prospettiva ho pure avuto la gioia di promulgare da ultimo, nel 1990, il Codex canonum Ecclesiarum Orientalium.

Riuscirebbe vanificata, tuttavia, la suprema finalità di tale sforzo legislativo, non soltanto se i canoni non fossero osservati - «canonicae leges suapte natura observantiam exigunt», ho scritto nella Costituzione promulgativa del Codice latino -, ma anche e con non meno gravi conseguenze, se l'interpretazione, e quindi l'applicazione di essi fossero lasciate all'arbitrio dei singoli o di coloro ai quali è affidato il compito di farli osservare.

4. Che talora, per quelle imperfezioni che sono connaturate alle opere umane, il testo della legge possa dare e di fatto dia adito, particolarmente nei primi tempi di vigore di un Codice, a problemi ermeneutici, non è cosa di cui ci si debba meravigliare. Lo stesso Legislatore ha previsto questa eventualità ed ha conseguentemente stabilito precise norme di interpretazione, fino a prospettarsi situazioni configuranti «Legis lacunas»[3] e ad indicare gli appropriati criteri per supplirvi.

Al fine di evitare arbitrarie interpretazioni del testo codiciale, seguendo analoghe disposizioni dei miei Predecessori, fin dal 2 gennaio 1984, col Motu Proprio Recognito Iuris Canonici Codice, ho istituito la Pontificia Commissione per l'interpretazione autentica del Codice, che poi, con la Costituzione Apostolica Pastor bonus, ho trasformato nel Pontificio Consiglio per l'interpretazione dei testi legislativi, ampliandone la competenza.

È tuttavia indubbio che ben più spesso occorrono situazioni in cui l'interpretazione e l'applicazione della Legge canonica sono affidate a coloro ai quali incombe nella Chiesa la potestà sia esecutiva che giudiziaria. In tale contesto dell'ordinamento ecclesiale si colloca l'ufficio affidato ai Tribunali,[4] e in modo particolare e con finalità specifica alla Rota Romana, in quanto questa «unitati iurisprudentiae consulit et, per proprias sententias, tribunalibus inferioribus auxilio est».[5]

5. In proposito, non sembra inopportuno richiamare qui alcuni principi ermeneutici, trascurati i quali, la stessa Legge canonica si dissolve e cessa di essere tale, con pericolosi effetti per la vita della Chiesa, per il bene delle anime, in specie per la intangibilità dei sacramenti da Cristo istituiti.

Se le leggi ecclesiastiche debbono essere intese, innanzi tutto, «secundum propriam verborum significationem in textu et contextu consideratam», ne consegue che sarebbe del tutto arbitrario, anzi apertamente illegittimo e gravemente colposo, attribuire alle parole usate dal Legislatore non il loro «proprio» significato, ma quello suggerito da discipline diverse da quella canonica.

Non si può inoltre ipotizzare nella interpretazione del vigente Codice, una frattura col passato, quasi che nel 1983 vi sia stato un salto in una realtà totalmente nuova. Il Legislatore infatti positivamente riconosce e senza ambiguità afferma la continuità della tradizione canonica, particolarmente ove i suoi canoni fanno riferimento al vecchio diritto.[6]

Certo, non poche novità sono state introdotte nel vigente Codice. Altro, però, è costatare che innovazioni sono state fatte circa non pochi istituti canonici, altro pretendere di attribuire significati inconsueti al linguaggio usato nella formulazione dei canoni. In verità, costante cura dell'interprete e di colui che applica la Legge canonica deve essere di intendere le parole usate dal Legislatore secondo il significato ad esse per lunga tradizione attribuito nell'ordinamento giuridico della Chiesa dalla consolidata dottrina e dalla giurisprudenza. Ciascun termine poi deve essere considerato nel testo e nel contesto della norma, in una visione della legislazione canonica che ne consenta una valutazione unitaria.

6. Da questi principi, consacrati del resto, come si è visto, dalla stessa norma positiva, non deve distogliere, specificamente in materia matrimoniale, l'intento di una non meglio precisata «umanizzazione» della Legge canonica. Con tale argomento, infatti, si intende non di rado avallare una sua eccessiva relativizzazione, quasi si imponessero, per salvaguardare asserite esigenze umane, una interpretazione e una applicazione della stessa che finiscono per snaturarne le caratteristiche.

Il confronto fra la maestà della Legge canonica e coloro ai quali essa è diretta non è certamente da omettere o sottovalutare, come ho ricordato nell'Allocuzione dell'anno scorso: ciò tuttavia comporta l'esigenza di conoscere correttamente la normativa della Chiesa, pur senza dimenticare, alla luce di una corretta antropologia cristiana, la realtà «uomo», a cui quella è destinata. Piegare la Legge canonica al capriccio o all'inventiva interpretativa, in nome di un «principio umanitario» ambiguo ed indefinito, significherebbe mortificare, prima ancora della norma, la stessa dignità dell'uomo.

7. Così - per proporre qualche esempio - sarebbe grave ferita inferta alla stabilità del matrimonio e quindi alla sacralità di esso, se il fatto simulatorio non fosse sempre concretizzato da parte dell'asserito simulante in un «actus positivus voluntatis»;[7] o se il cosiddetto «error iuris» circa una proprietà essenziale del matrimonio o la dignità sacramentale del medesimo non assurgesse a tale intensità da condizionare l'atto di volontà, determinando così la nullità del consenso.[8]

Ma anche in materia dell'«error facti», specificatamente ove si tratta di «error in persona»,[9] ai termini usati dal Legislatore non è consentito attribuire un significato estraneo alla tradizione canonistica; come pure l'«error in qualitate personae» soltanto allora può inficiare il consenso quando una qualità, né frivola né banale, «directe et principaliter intendatur»,[10] cioè, come efficacemente ha affermato la giurisprudenza rotale, «quando qualitas prae persona intendatur».

Ecco quanto volevo oggi richiamare alla vostra attenzione, carissimi Uditori, Officiali ed Avvocati della Rota Romana, nella certezza della costante fedeltà di codesto Tribunale alle esigenze di serietà e di approfondimento autentico della Legge canonica, nello specifico ambito ad esso proprio.

Nel porgervi il mio cordiale augurio di un sereno e proficuo lavoro, imparto a tutti voi, quale segno di sincera stima ed auspicio della costante assistenza divina, la propiziatrice Benedizione Apostolica.


[1] San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 29, a. 2.

[2] F. Carnelutti, Come nasce il diritto, ERI, Torino 1954, pp. 53s.

[3] Can. 19.

[4] Cf. can. 16, § 3.

[5] Giovanni Paolo II, Cost. ap. Pastor bonus, 28 giugno 1988, art. 126: AAS 80 (1988), p. 892.

[6] Cf. can. 6, § 2.

[7] Cf. can. 1101, § 2.

[8] Cf. can. 1099.

[9] Cf. can. 1097, § 1.

[10] Cf. can. 1097, § 2.

 

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