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Un seminario a Roma

Contro

la violenza sessuale

di Lucetta Scaraffia

La riunione si è svolta a porte chiuse, in un luogo appartato di Roma, perché molte delle religiose e dei religiosi coinvolti rischierebbero la vita, se si sapesse cosa fanno. E comunque si è capito che la rischiano ugualmente. È infatti molto pericoloso cercare di difendere le donne in paesi dove domina incontrastata la guerra civile, che comporta una violenza continua e inesorabile: un cappuccino congolese ha parlato di trecento donne violentate al giorno solo nella sua regione. È una realtà terribile, di cui non si parla molto, oppure vi si accenna solo per dire «è sempre stato così». E ancor meno si parla di chi cerca di porre rimedio a questa tragedia.

È stata la baronessa Anelay of St Johns, ministro e rappresentante speciale del premier britannico per la prevenzione della violenza sessuale nei conflitti, a volere questo incontro, organizzato dall’ambasciatore di Gran Bretagna presso la Santa Sede con l’aiuto del Pontificio consiglio della giustizia e della pace. La baronessa ha affermato che solo riunendo gli sforzi si può ottenere qualche risultato tangibile, e che è necessario non solo assistere le vittime e aiutarle, ma lavorare per trasformare il contesto culturale in cui vivono, dove le violenze sono rimosse e nascoste, e le donne indotte al silenzio.

E soprattutto è necessario combattere contro l’impunità che quasi sempre protegge i violentatori, mai puniti per i loro crimini. Questa impunità, ovviamente, non fa che favorire il reiterarsi della violenza. Per questo il ministro britannico ha messo a punto un protocollo — firmato da 140 paesi — che contiene dettagliate istruzioni per avviare le indagini, per proteggere i testimoni e le donne che accettano di parlare, per aiutare avvocati e giudici ad affrontare un problema al quale non sono stati preparati. In molti dei paesi più a rischio la diffusione del protocollo è stata accompagnata da corsi speciali per avvocati e giudici, in modo da metterli in grado di trattare un tema per loro nuovo, e per individuare e neutralizzare i giudici corrotti. La punizione dei colpevoli dà alle donne la forza di parlare, di rivelare la violenza subita, e le aiuta a non sentirsi colpevoli di quanto accaduto.

In sostanza, si tratta di un complesso lavoro di trasformazione culturale, per far capire a tutti, soprattutto alle donne, una realtà innegabile: esse sono persone degne di rispetto e, anche se sono state oggetto di violenza, hanno diritto di partecipare alla vita comunitaria, di vivere nel loro paese e con le loro famiglie. È un lavoro culturale che inoltre serve a fronteggiare il perenne conflitto in modo più attivo: con le continue violenze le bande di predoni infatti tengono in stato di soggezione intere popolazioni.

Il protocollo riguarda solo i casi di violenza legati ai conflitti, ma sappiamo che non ci sono solo questi. Se infatti le donne ritrovano la fiducia in se stesse, se imparano a parlare e a denunciare, riusciranno a porre fine anche agli abusi commessi all’interno delle istituzioni stesse, di tutte le istituzioni.

La narrazione di tante coraggiose esperienze, di tante vite eroiche sconosciute, ha offerto un’immagine della Chiesa diversa da quella che siamo abituati a vedere: una Chiesa disposta a tutto pur di difendere i più deboli, una Chiesa capace di cambiare il mondo. È a questa Chiesa che la baronessa Anelay ha chiesto collaborazione. E l’ha ottenuta.

(© L'Osservatore Romano 24 maggio 2016)