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I popoli della fame interpellano quelli dell’opulenza

 

Distanza drammatica

di Gualtiero Bassetti

 

C’è una drammatica distanza tra quei Paesi, soprattutto del mondo occidentale, dove assistiamo a una continua proliferazione dei diritti individuali, talvolta confusi con desideri e nuovi bisogni, e quelle nazioni, soprattutto dell’Asia e dell’Africa, dove invece è assente anche il più basilare diritto alla vita: quello di avere del pane per poter vivere.

Poco più di un mese fa, ho compiuto una visita in Malawi. Da circa trent’anni, infatti, la diocesi di Perugia ha sviluppato un rapporto di solidarietà con la diocesi di Zomba che ha portato alla costruzione di due ospedali, di dispensari sanitari, cinque asili infantili e un politecnico. Il Malawi è uno dei Paesi più poveri del mondo, dove il dieci per cento della popolazione è sieropositiva e dove, lo scorso aprile, nel silenzio dell’opinione pubblica mondiale, è stato dichiarato lo stato di catastrofe naturale. Da più di un anno una terribile siccità, che colpisce anche le nazioni confinanti — Mozambico, Zimbabwe, Zambia — sta attanagliando la vita di quei Paesi. In attesa che arrivino gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite, la vita di molte persone è in pericolo e le popolazioni che vivono nei territori interni del Malawi rischiano di morire di fame. Non si tratta di una metafora o di un gioco di parole. È la drammatica realtà: morire di fame.

«I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza» scrisse Paolo vi nella Populorum progressio. A distanza di quasi cinquant’anni quell’appello vale ancora, ci interroga profondamente. Oggi circa ottocento milioni di persone, in tutto il mondo, continuano a patire per la fame.

Nell’omelia del Corpus Domini, Papa Francesco ha ricordato «i santi e le sante che hanno “spezzato” se stessi, la propria vita, per “dare da mangiare” ai fratelli». Ecco aiutare queste popolazioni che stanno morendo di fame, «offrire i pochi pani e pesci che abbiamo; ricevere il pane spezzato dalle mani di Gesù e distribuirlo a tutti» è una via per la santità. Questo ci insegna, per esempio, una santa della nostra epoca che ho potuto conoscere personalmente: madre Teresa di Calcutta.

Nel 1979, la fondatrice delle missionarie della carità, parlando in occasione del conferimento del premio Nobel per la pace, disse davanti a una platea silente e attonita: «Non so se abbiate mai visto la fame. Io l’ho vista molto spesso». E poi raccontò un’esperienza toccante in cui si era trovata ad aiutare, donando un po’ di riso, una famiglia hindu e una musulmana. La fame, come ci insegna madre Teresa, non ha colore, razza e religione. Può colpire chiunque.

Io appartengo alla generazione di italiani che dopo la fine della seconda guerra mondiale ha letteralmente “fatto la fame”. E ho un ricordo nitido di cosa significava non avere cibo. Non possiamo e non dobbiamo dimenticarlo. L’indifferenza e il silenzio dei media è, infatti, uno degli aspetti peggiori di questa piaga. «La peggior miseria non è la fame o la lebbra — diceva sempre madre Teresa — ma la sensazione di essere indesiderabile, rifiutato, abbandonato da tutti». Non ci si può dimenticare di quelle persone che Giovanni Paolo ii chiamava gli «sconfitti della vita» e di quelle vittime innocenti della «cultura dello scarto», come ripete oggi il Pontefice.

In questo anno giubilare dobbiamo sentirci maggiormente partecipi dei bisogni di queste persone che, per vivere, anzi, per sopravvivere, contano sull’aiuto fondamentale di tutti coloro che praticano le opere di misericordia. Lo sanno bene le decine e decine di volontari che ogni anno si recano a Zomba e che, sperimentando l’importanza e l’efficacia della solidarietà umana, ritornano a casa con una gerarchia di valori e priorità assolutamente diversa da quella con cui erano partiti.

I desideri che si trasformano in diritti nella società dei consumi sono dunque drammaticamente distanti dal significato profondo della vita che si può cogliere in queste missioni. Sulla mia scrivania è arrivato un messaggio che sintetizza questa situazione: «C’è chi ha tutto e piange per una cosa che non è riuscito a ottenere. E c’è chi non ha nulla, ma sorride e ringrazia ogni giorno per la cosa più preziosa che ha: la vita».

(© L'Osservatore Romano 28 maggio 2016)