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Alla vigilia del voto per la Casa Bianca

Fine

di una campagna furiosa

di Giuseppe Fiorentino

Alla fine è tutto rientrato: all’immediata vigilia del voto per la Casa Bianca, il Federal Bureau of Investigation (Fbi) ha fatto sapere che il nuovo filone delle indagini sulle email di Hillary Clinton non costituisce materia per un’incriminazione della candidata democratica. L’annuncio del direttore dell’Fbi, James Comey (repubblicano ma nominato da Obama), che il 28 ottobre aveva comunicato con una lettera al Congresso la riapertura del caso, ha tuttavia creato ulteriore incertezza in un elettorato già molto disorientato. Una situazione che ha anche provocato grandi oscillazioni nei mercati, grazie alle quali qualche potente fondo di investimento avrà visto gonfiarsi il proprio portafogli.

Ma l’annuncio di nuove indagini su Hillary Clinton ha ulteriormente invelenito una campagna elettorale che anche senza l’iniziativa dell’Fbi sarebbe passata alla storia per la sua asprezza. Nessuno tra i politologi più accreditati ricorda una corsa alla presidenza statunitense in cui uno dei candidati abbia minacciato, come ha fatto Donald Trump, di intraprendere iniziative legali a carico del suo concorrente, in caso di vittoria, o di non riconoscere l’esito del voto, in caso di sconfitta. Anche per questo Donald Trump è stato da molti definito come un candidato irrituale, roboante come le sue proposte — tra le quali la costruzione di un muro al confine con il Messico per arginare l’immigrazione e un’inedita alleanza con la Russia di Putin — e criticabile per alcuni suoi atteggiamenti sessisti o canzonatori verso i portatori di disabilità.

Ma forse è proprio questo suo essere decisamente al di fuori dei canoni del politicamente corretto a rendere il candidato repubblicano attraente per quella parte dell’elettorato contraria all’establishment politico, che sarebbe rappresentato da Hillary Clinton, ex first lady ed ex segretario di Stato. C’è una parte degli Stati Uniti arrabbiata con la classe dirigente per gli effetti di una globalizzazione che ha impoverito zone industriali un tempo floride e che per questo ascolta con piacere i proclami protezionistici di Trump. È in larga misura quella stessa parte del Paese che teme l’invadenza dello Stato e che è pronta a difendere diritti considerati inalienabili, come il libero possesso delle armi da fuoco.

Su questa fetta di America, Hillary Clinton, accreditata dagli ultimi sondaggi di due o tre punti di vantaggio, non può davvero sperare di fare presa, nemmeno pubblicando i dati sulle presunte evasioni fiscali milionarie di Trump. La candidata democratica raccoglierà invece buona parte del voto femminile, ispanico e in generale di tutti quei settori della popolazione che si sono sentiti minacciati od offesi dalla retorica del magnate newyorkese. E probabilmente riceverà il consenso di una parte della classe media che potrebbe beneficiare di una politica fiscale incentrata sull’aumento delle imposte per i più ricchi.

Resta poi il capitolo della politica estera, settore in cui il presidente degli Stati Uniti gode di maggiore autonomia rispetto alle questioni interne, soprattutto se, come potrebbe accadere anche questa volta, una parte del Congresso viene controllata dal partito avverso a quello dell’inquilino della Casa Bianca. Se, come accennato, Trump ha fatto della sua simpatia per Putin un cavallo di battaglia, Clinton può vantare un’esperienza fuori dal comune. L’«Economist», nel suo ultimo editoriale prima del voto, sottolinea come la candidata democratica abbia in misura diversa contribuito al dialogo con Cuba, all’accordo sul nucleare iraniano e all’intesa con la Cina per limitare il surriscaldamento globale. Traguardi che certo non esauriscono gli scenari di possibile intervento statunitense. Ma comunque traguardi importanti, dai quali una nuova presidenza potrebbe ripartire.

(© L'Osservatore Romano 7-8 novembre 2016)