Index   Back Top Print


logo

 

Incertezze sul  futuro dell’Unione europea dopo il  voto

Il Regno Unito

sceglie l’uscita

 

di Giuseppe Fiorentino

Frexit, Nexit, Swexit: a poche ore dalla diffusione dei dati ufficiali del referendum per la permanenza del Regno Unito nell’Ue, che ha visto prevalere seppur di poco lo schieramento euroscettico, già ci si interroga su quali Paesi potrebbero indire la stessa consultazione. Sarà la Francia, come ha promesso Marine Le Pen in caso di vittoria nelle presidenziali del prossimo anno? Saranno i Paesi Bassi, che già hanno bocciato la Costituzione europea? O forse sarà la Svezia, da sempre legata a Londra in un forte asse politico-commerciale? Solo il tempo svelerà gli effetti reali del referendum britannico su scala continentale. Ma di certo l’analisi del voto offre alcuni spunti di riflessione.

Prima di tutto va sottolineata la spaccatura generazionale dell’elettorato britannico. Secondo i risultati disaggregati, i tre quarti  dei giovani fra i 18 e i 24 anni ha votato contro la Brexit, mentre ben il 61 per cento delle persone con più di sessantacinque anni  ha votato per uscire dall’Ue. Ma il risultato forse più interessante è quello proveniente dal cuore di Londra e per l’esattezza dal distretto della City. Nel centro nevralgico della finanza britannica i Remainers    si sono affermati con oltre il 75 per cento dei voti.

Se da un lato, quindi, il voto giovanile segnala che l’Unione, almeno a livello ideale, potrebbe ancora avere un futuro, i dati provenienti dalla City, mostrano quanto la finanza temesse l’uscita della Gran Bretagna. E in effetti le borse mondiali hanno reagito con pesanti passivi, la sterlina si è fortemente deprezzata rispetto al dollaro, e gli spread tra titoli di Stato sono saliti vorticosamente nel giro di pochi minuti. Tanta preoccupazione da parte del mondo finanziario potrebbe peraltro essere considerata come una dimostrazione della distanza accumulata dalle istituzioni europee rispetto ai semplici elettori, che con la City hanno davvero ben poco a che fare. Se si vuole dare sostanza alla speranza dei giovani che ancora credono nell’Ue, Bruxelles deve quindi guardare un po’ meno alla City e un po’ di più a località come Sunderland, città industriale sulla costa nord-orientale  dell’Inghilterra, dove i Leavers   hanno ottenuto oltre il 61 per cento dei voti.

È questa l’indicazione più chiara che emerge dal referendum d’oltre Manica. Spetta ora ai singoli Governi e a Bruxelles saperla cogliere, partendo da una  certezza: l’Unione europea come è ora strutturata ha davvero il fiato corto. Soprattutto perché ha perso credibilità agli occhi di ampi strati  della cittadinanza, che vedono nelle  istituzioni comunitarie  un centro di burocrati occupati a definire la percentuale di cacao del cioccolato invece di sostenere le famiglie in preda alla crisi. Se davvero si vuole sottrarre l’Unione europea a un destino che molti vogliono già segnato, bisogna cominciare a ripensare  le sue stesse fondamenta, perlomeno quelle attuali. L’Ue  con regole dettate da pochi e applicate a realtà tra loro molto diverse rischia di franare su se stessa. Rischia di essere fratturata dalle spinte populiste che si nutrono del malcontento popolare nei confronti di Bruxelles e che certamente faranno sentire il loro peso nelle elezioni previste  il prossimo anno in Francia, Germania e Paesi Bassi. Solo una maggiore integrazione  può rappresentare una risposta a questa situazione. Con politiche economiche e sociali autenticamente comunitarie che richiederebbero la rinuncia ad alcuni “pezzi” di sovranità. Soprattutto da parte dei più forti. Da parte cioè di coloro che finora hanno dettato le regole, fallimentari, dell’Unione.

(© L'Osservatore Romano 25 giugno 2016)