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A Lesbo dove il Papa incontrerà i profughi

La collina dei salvagente

di Silvina Pérez

Bianco e azzurro sono i colori delle rose che giovedì sera Papa Francesco ha deposto sull’altare della Salus populi Romani, nella basilica di Santa Maria Maggiore, dove si è recato per affidare il viaggio di domani, sabato, tra i profughi accampati sull’isola di Lesbo. Bianco e azzurro sono i colori della bandiera greca, i colori del mare, delle onde spumeggianti che si infrangono sulle coste. Ma sono altri i colori che in questi giorni giungono dall’Egeo. Gli isolani lo chiamano lo “tsunami arancione”: sono gli oltre 40.000 metri cubi di giubbotti di salvataggio accumulati sulla spiaggia, divenuti il simbolo di un esodo senza sosta. E che danno la misura di quella che è stata definita la peggiore crisi umanitaria in Europa dalla seconda guerra mondiale. 

Siamo a  ridosso del piccolo borgo di Molyvos, un luogo nel nord dell’isola di Lesbo, estremo confine d’Europa. Ad appena dieci chilometri c’è la Turchia, da cui ogni notte uomini, donne e bambini partono nella speranza di raggiungere la Grecia e dimenticare la guerra o  la povertà. Qui si trova la collina artificiale, un immenso cumulo arancione fatto di giacche salvagente usate dai rifugiati e dai migranti per attraversare il mare Egeo. L’equivalente di quattro campi di calcio pieni di scarti di plastica, nylon e spugna che le autorità locali non sanno dove smaltire.  

Nel silenzio affiorano  dolore, speranza, pietà.  Ci sono giubbotti di tutte le taglie, anche piccoli piccoli. Ognuno porta con sé la storia di una vita, molti conservano indelebili i segni di una lotta impari per la sopravvivenza tra gommoni sgonfi carichi di persone e il braccio di mare che separa la Turchia dalla Grecia: acque nere e agitate d’inverno, piatte e color smeraldo d’estate.

Con le sue mille pagine fatte di paura e disumanità, il racconto dei rifugiati di Lesbo è uno choc continuo. Anche perché i giubbotti arancioni disseminati sull’isola spesso non hanno aiutato chi li indossava. Sono difettosi, assorbono l’acqua, non tengono a galla e impediscono di nuotare. E invece di salvare facilitano l’annegamento di chi li indossa. Prodotti in fabbriche clandestine turche, vengono venduti a prezzi più bassi, circa 10 dollari contro i 30 di un giubbotto vero e portano marchi contraffatti. Sono un’ulteriore trappola, l’ennesima ignobile speculazione dei trafficanti di esseri umani. 

Dai controlli effettuati dalle autorità greche risulta che ogni cento giubbotti salvagente solo uno è conforme alle norme. È un dato sconvolgente. Dall’inizio dell’anno sono morte qui 442 persone, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni; infatti, nell’ultimo anno sono transitati ben 876.000 migranti da tutta la Grecia, di cui oltre 510.000 nella sola Lesbo. «Siamo abituati al dolore quotidiano, ma organizzare il funerale di un neonato di appena due mesi perso in mare da una giovane coppia di genitori in fuga è stato straziante. Il suo corpicino è scivolato via dal salvagente in pochi secondi. Questo tratto di mare Egeo è la nuova frontiera del dolore». A parlare è Maritina Koraki, coordinatrice degli aiuti umanitari di Caritas Hellas (Caritas Grecia) nell’isola. Grazie al sostegno economico della Caritas Svizzera i volontari hanno potuto prendere in gestione una struttura di prima accoglienza e assistenza per i profughi dove vengono ospitati a rotazione e per pochi giorni bambini, disabili, donne sole con figli, anziani. 

«La collina dei salvagenti è l’immagine simbolo di una vergogna europea. Tra poche ore Papa Francesco sarà qui e per noi questo è un viaggio che abbraccia tutta la Grecia lasciata da sola a fronteggiare l’emergenza rifugiati. Francesco pone una domanda a ciascuno di noi su come essere e rimanere umani»  conclude Maritina Koraki. Dall’inizio di dicembre a oggi Caritas Hellas ha accolto più di cinquemila persone e tuttora ne sostiene, anche con la distribuzione di sacchi a pelo, indumenti, prodotti per l’igiene e per i bambini, oltre tremila. 

«C’è tensione in giro, il clima è cambiato», dice Letizia Zamboni, volontaria della Caritas veneta: «Fino ad ora la Grecia è stato un Paese di transito non di rimpatri». Secondo la Caritas Internationalis,  sull’isola «il principale campo per rifugiati e immigrati è ora un “centro chiuso”, il che significa che i rifugiati e gli immigrati non sono autorizzati ad andarsene».  Anche se il flusso si è ridotto notevolmente, il 13 aprile sono ancora sbarcate 45 persone in uno  di quei piccoli gommoni con cui in migliaia continuano a partire ogni giorno dalle coste turche alla volta dell’Europa.

(© L'Osservatore Romano 16 aprile 2016)