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Un giardino dei giusti a Tunisi

Le scelte

che  salvano il  mondo

di Anna Foa

Come non definire “giusto” il ragazzo musulmano che a Dacca è stato massacrato dai terroristi perché si era rifiutato di abbandonare le sue amiche senza velo, anche se aveva saputo recitare il Corano tanto da essere lasciato libero di andarsene? Finché ci saranno dei giusti, il mondo stesso non sarà cancellato. Per questo anche Faraaz Hussein avrà il suo albero di giusto nella cerimonia che il 15 luglio inaugurerà a Tunisi — all’interno dell’ambasciata d’Italia, su iniziativa dell’associazione Gariwo, alla presenza del suo presidente Gabriele Nissim, del premio Nobel per la pace Abdessatar Ben Moussa e dell’ambasciatore Raimondo De Cardona — il primo giardino dei Giusti in un Paese arabo.

Si tratta di un’iniziativa importante, soprattutto in questo momento in cui il terrorismo degli islamisti si esaspera sempre più man mano che crescono le sconfitte sul fronte militare. È un’iniziativa che apre un solco, nel mondo musulmano, fra coloro che vogliono vivere in pace con i non musulmani e gli estremisti sostenitori della guerra contro gli infedeli, dei massacri, del califfato. Non si tratta solo di chiamare tutti i musulmani alla dissociazione dai terroristi. È qualcosa di più: lo stabilire una linea di confine che non passa tra l’islam e il resto del mondo ma tra assassini e vittime, tra chi si schiera dalla parte delle vittime, anche a costo della vita, e chi la vita la spreca facendosi esplodere tra vecchi e bambini. È il riconoscimento delle responsabilità di ciascuno, non la guerra di civiltà.

Il ruolo dei giusti, quello della solidarietà, quello del gesto generoso di bontà, non è un elemento marginale della guerra. Salvare è significativo come uccidere, forse di più. La storia degli atti di solidarietà, dei salvataggi, della resistenza al male, è parte essenziale della storia del male stesso, dei genocidi, delle violenze contro i civili. Senza i giusti non potremmo raccontare nemmeno la storia degli ingiusti. Senza i giusti, Dio non salverà Sodoma e Gomorra. Nessuna salvezza senza misericordia.

Eppure, la storia dei giusti comincia molto tardi a essere ricordata. Prima è come sommersa nel disastro del mondo. Poi, lentamente, le vicende emergono, chi si è salvato ricorda chi lo ha aiutato a sopravvivere. Ed è inizialmente dentro la memoria della Shoah che si costruisce quella dei giusti, che tanto ne fanno parte. Negli ultimi anni però il discorso dei giusti si è esteso, ha lasciato il campo della sola Shoah, spinto anche dalle vicende terribili che l’hanno seguita, in Cambogia, Bosnia, Rwanda, ora in Siria.

Con le iniziative di Gariwo, si è dato vita alla giornata europea dei Giusti, giusti di tutte le violenze, di tutti i genocidi. I giardini dei Giusti hanno preso a fiorire nelle città del mondo, a Erevan, Varsavia, Milano, Roma e in molte altre città italiane.

E ora ne nascerà uno a Tunisi, il primo appunto in area musulmana. E non è un caso che a essere scelta sia stata la Tunisia, che ha intrapreso la strada di riforme sostanziali, per tentare, non senza insuccessi ma anche con notevoli progressi, la strada di battere l’islamismo attraverso la crescita della democrazia.

Il 15 luglio saranno così celebrati, insieme, giusti musulmani di diverse guerre, di diverse violenze. Da Khaled Abdul Wahab, imprenditore di Tunisi, che durante l’occupazione nazista nel 1942 nasconde e salva molti ebrei, su cui scrive Robert Satloff nel libro Tra i Giusti. Storie perdute dell’Olocausto nei Paesi arabi, a Mohamed Bouazizi, che nel 2010 si dà fuoco davanti all’ufficio del governatore dando il via alla Rivoluzione dei gelsomini e alle primavere del mondo arabo, a Khaled al-Asaad, l’archeologo siriano ottantenne di Palmira, assassinato dal sedicente Stato islamico, a Mohamed ben Abdesslem, la guida che ha portato in salvo molti turisti italiani al museo del Bardo durante l’attacco terroristico, senza mai avere avuto nessun ringraziamento dall’Italia, a Faraz Hussein, il ragazzo di Dacca. Un filo che lega i massacri del terrorismo al genocidio nazista attraverso i gesti dei salvatori invece che attraverso quelli degli assassini.

Se il recupero del filo della solidarietà può essere una delle vie per togliere spazio al terrorismo e alla sua cultura della morte, va ancora ricordata, anche se non è fra le persone onorate a Tunisi, un’altra delle vittime bengalesi di Dacca, anche lei musulmana, Ishrat Akhond. Di lei sappiamo che, imprenditrice tessile, era impegnata contro il lavoro dei bambini. E che ha rifiutato di recitare il Corano, che da musulmana certamente conosceva, schierandosi così dalla parte dei giusti, e non degli ingiusti, rifiutando la logica di distinguere tra fedeli e infedeli, battendo con il suo sacrificio la cultura della morte.

 

(© L'Osservatore Romano 15 luglio 2016)