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Il voto britannico e lo scacchiere internazionale

Oltre Brexit

di Luca M. Possati

È ancora presto per valutare fino in fondo la vera portata storica di un evento tanto complesso quanto il voto britannico dello scorso 23 giugno. Nessuno — nemmeno i più fieri sostenitori del Leave — sa che cosa attende ora l’Europa e il Regno Unito. Una cosa, tuttavia, è certa: il referendum ha dato una scossa, innescando un processo di analisi e di revisione dell’identità europea e del suo ruolo nell’attuale assetto geopolitico mondiale. 

Ci sono due domande chiave che vanno esaminate. La prima è quella posta, sulle pagine del «New York Times», da Amanda Taub: «Does the European Union have a democracy deficit?» (l’Unione europea ha un deficit di democrazia?). Il punto è che, a un’attenta analisi, l’Europa sembra soffrire di un male esattamente inverso a quello evocato da Taub, ovvero una sorta di “eccesso” di democrazia: troppi meccanismi e procedure, troppa burocrazia hanno finito per deformare la vocazione autentica dell'Unione, allontanandola dai cittadini. Il voto britannico impone quindi una sfida: se vuole sopravvivere, l’Unione europea deve trovare o inventare una nuova forma di democrazia adatta alla sua particolare struttura, alla sua fisionomia e alla sua storia. Questo richiederebbe anzitutto una presa di coscienza generale che porti al più presto a una radicale revisione dell’assetto dell’Unione. E tale revisione dovrebbe iniziare da un serio piano di azione sulla gestione dell’immigrazione: è questo il vero banco di prova per un modello alternativo di Unione fondato sull’integrazione e la condivisione, attento anche alle frange sociali più deboli, come le campagne e le periferie che in Gran Bretagna hanno votato in massa per il Leave. Se questo accadesse, il voto per la Brexit avrebbe significato qualcosa. E il temuto effetto domino di europeisti ed euroscettici — la rottura di Irlanda del Nord e Scozia, e l’anno prossimo si vota nei Paesi Bassi dove gli estremisti euroscettici di Geert Wilders hanno buone possibilità — potrebbe essere evitato.
La seconda domanda chiave riguarda invece il rapporto con gli Stati Uniti. Non è un mistero che Washington abbia sempre usato lo storico “rapporto speciale” con i britannici per avere una voce negli affari interni europei. Affari non solo politici, ma soprattutto economici. Ora, con l’uscita del Regno Unito dall’Unione, il quadro diventa molto più fluido: è prevedibile che Paesi come la Germania e la Francia adotteranno politiche più autonome su molti fronti. Nell’immediato i negoziati sul trattato di libero scambio tra le due sponde dell’Atlantico subiranno un necessario rallentamento. Washington potrebbe scegliere di imboccare la strada di un accordo più snello e vantaggioso soltanto con Londra. Nel lungo periodo, invece, la prospettiva è quella di un indebolimento del coinvolgimento europeo nei principali scenari di guerra e nella lotta al terrorismo globale. Un’Unione in crisi non potrebbe giocare il ruolo di mediazione che in questi ultimi anni ha giocato su molti fronti, in primis l’accordo di Vienna sul dossier nucleare iraniano.

(© L'Osservatore Romano 3 luglio 2016)