Index   Back Top Print

[ IT ]

.

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 19 novembre 1975

 

L’estrema importanza assunta oggi dalle relazioni umane e dai  modi di considerarle e di instaurarle ci obbliga a ripetere la nostra riflessione sulla carità verso il prossimo, ben sapendo che la carità, cioè l’amore soprannaturale di Dio per noi, quale ci è stato rivelato da Cristo e comunicato con l’effusione dello Spirito Santo, rappresenta il valore centrale della nostra religione, o, come si suol dire oggi, dell’economia della salvezza; e che questo amore (agape) (Cfr. C. Spicq, OP., Agape, 3 voll., Gabalda, 1959) deve effondersi non solo nello sforzo amoroso di risalire, come possibile, ma con tutta la nostra energia, verso la sua sorgente (ricordate il grande e primo precetto: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, . . . eccetera) (Matth. 22, 37), ma deve altresì, e quasi nello stesso sforzo, dilatarsi verso il prossimo: « amerai il tuo prossimo come te stesso » (Ibid. 39).

Da questa fondamentale concezione teologico-morale sgorga il cristianesimo. Il quale, com’è in grande parte all’origine della socialità civile, sembra talora esserne sopraffatto dall’ansia e dalla potenza d’una forma più efficace, impetuosa e rivoluzionaria, con cui oggi è promossa la socialità moderna: forma indipendente, anzi polemica nei riguardi della socialità scaturita dal Vangelo. Cristo sarebbe superato da Marx. La convivenza umana ideale, si afferma a nostro malgrado, non può essere il risultato della carità, ma della lotta, della violenza, e della sopraffazione d’una classe sopra l’altra: questa sarebbe la mèta auspicabile. Superfluo che ora noi diciamo di più, quando il quadro storico contemporaneo ci offre, con evidenza perfino eccessiva, gli elementi di giudizio che sono in questione. Avremmo facili argomenti da addurre nella discussione in difesa del Vangelo, invitando a riflettere come il sistema contrapposto a quello da noi professato, perché cristiano, perché veramente umano, suppone una violazione di principio alla vera socialità, la quale dev’essere umana per tutti e rispettosa delle prerogative profonde dell’uomo, la sua dignità, la sua libertà, la sua eguaglianza; mentre invece suppone l’odio e la lotta sistematica; suppone l’egoismo collettivo quale rimedio all’egoismo personale o di categoria; e sembra ignorare la complementarietà delle libere funzioni sociali e ripudiare come formula normale della socialità la ordinata partecipazione ai processi sia economici che culturali e politici, e rifiuta in fondo la solidale collaborazione ad un comune e giusto benessere, prescindendo perciò gradualmente dai coefficienti spirituali, di cui deve pur vivere una comunità libera e ordinata, mentre sono sostituiti da una rigida normativa pubblica, tendenzialmente impersonale e conservatrice.

Ma stiamo adesso al nostro tema, cioè quello della carità, visto nella sua applicazione alla convivenza collettiva. Potremmo, e dovremmo studiare la carità nella sua prima e personale espressione, cioè in quella complessa psicologia, che noi chiamiamo « il cuore »: se il cuore non è pervaso di questo amore superiore, ch’è la carità, come la nostra vita ne potrà dare testimonianza esteriore, concreta e sociale? Questa carità deve avere la sua radice nella vita interiore, nella mentalità, nell’esercizio arduo e soave del sentimento dell’amore del prossimo insegnatoci da Cristo, se deve trovare motivo ragionevole ed energia sufficiente per esplicarsi nell’operosità comunitaria. E nel semplice tentativo di sperimentare se il nostro cuore sia abile e pronto ad « amare il prossimo », scopriremo quanto sia logico, quanto sia necessario che l’amore verso il prossimo trovi il suo fondamento, la sua sorgente, la sua suprema ragion d’essere nell’amore di Dio: di Dio a noi, e di noi a Dio. Chi priva l’amore sociale della sua motivazione religiosa, evangelica, espone l’amore sociale a facile stanchezza, a rinascente opportunismo ed egoismo, quando non sia a degenerazione violenta e passionale. È questo il nostro primo fondamento: la religione, che ci unisce a Dio, rende possibile, urgente, perseverante e fecondo l’amore verso gli uomini, che in molti, moltissimi casi sembrano immeritevoli di tale amore,se questo non è alimentato dall’amore di Dio.

Poi noi domanderemo a noi stessi se questo binomio dell’amore cristiano sia stato, e sia ora operante nella nostra condotta sociale. Dovremo probabilmente rimproverarci di aver peccato, noi tutti, d’egoismo, di indifferenza, di pigrizia, di inettitudine timida e conservatrice. E qualunque sia la risposta dovuta alla nostra coscienza a tale proposito, dovremo concludere con una semplice ma grave raccomandazione: dobbiamo amare di più. Sì, di più. Perché tale è il comandamento costituzionale del cristianesimo, lo sappiamo; e non dobbiamo dimenticare che la casistica del giudizio finale circa la nostra sorte eterna verterà principalmente sulla carità del prossimo (ricordate? « Io, dice il Cristo, Io avevo fame, Io avevo sete... [Matth. 25, 31 ss.]).

E poi perché tale è l’esigenza dei nostri tempi: essi esigono un dinamismo nel bene, nella giustizia, nella carità personalmente e collettivamente esercitata: l’Anno Santo ce lo ricorda e con i carismi della sua religiosità ci stimola, anzi ci abilita a questo rinnovamento cristiano della carità sociale! Conforti memoria e propositi la nostra Benedizione Apostolica.

 



Copyright © Dicastero per la Comunicazione - Libreria Editrice Vaticana