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CHIROGRAFO
ANCORCHÉ ANTICHISSIMO
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO VI

 

Al Reverendissimo Cardinale Carlo Rezzonico, camerlengo. 

1. Ancorché antichissimo, certo ed incontestabile sia il dominio della santa Sede Apostolica e Nostro sulla città e sul distretto di Avignone, così come sull’intero territorio del Contado Venesino; per garantire i Nostri diritti, subito dopo la sconsiderata ed ingrata sollevazione dei Nostri sudditi cittadini di Avignone contro la Nostra legittima sovranità, per mezzo del reverendissimo cardinale De Zelada, Nostro segretario di Stato, abbiamo reclamato, informando di tale enorme attentato tutti i Principi cattolici; in seguito, con i Nostri chirografi del 2 agosto e del 15 novembre 1790, abbiamo accettato ed approvato tanto le proteste fatte dal Nostro vice legato in quella città e provincia, monsignor Casoni, e dall’abate Pieracchi, rettore di Carpentras, quanto le altre due proteste presentate, a tutela dei Nostri diritti, contro l’infame ribellione di quei Nostri sudditi, da monsignor Giovanni Barbieri, procuratore generale del Fisco e della Nostra Camera apostolica. Nonostante tutto ciò, abbiamo udito, con gran sorpresa ed amarezza dell’animo Nostro, che, in data 14 settembre del corrente anno 1791, l’Assemblea nazionale di Francia ha pubblicato un preteso decreto con il quale, contro la ragione delle genti e contro ogni principio di giustizia, il Contado Venesino, la città di Avignone ed il suo distretto vengono dichiarati uniti alla Francia. Visto ciò, monsignor Giacomo Borsari, commissario generale della Nostra Camera apostolica, ha ritenuto suo dovere sottoporci una solenne protesta in cui venivano ribaditi i diritti della Santa Sede apostolica e Nostri sopra quegli Stati; lo scopo era che noi approvassimo tale testo, ne ordinassimo la pubblicazione a perpetua memoria e la conservazione dell’originale e delle istanze allegate nell’archivio camerale. La protesta afferma quanto segue.

2. «In tutta l’Europa non esiste alcun dominio, Venerabile Padre, basato su titoli più validi e legittimi di quelli su cui è fondata la sovranità della santa Sede apostolica sul contado Venesino e sulla città di Avignone: sovranità garantita dal riconoscimento da parte di tutta Europa e dal possesso ininterrotto durante cinque secoli. Pareva che questo fosse sufficiente a garantire da qualunque tentativo straniero d’usurpazione, anche durante gli ultimi rivolgimenti accaduti nel regno di Francia. La cosiddetta Assemblea nazionale di Francia aveva fin dal principio assicurato ed annunciato in tutte le corti di non aspirare assolutamente a nuove conquiste, né all’aggressione degli altrui domini. Quando per la prima volta, nel novembre 1789, i sediziosi ed i ribelli presentarono il piano d’invasione di Avignone e del contado Venesino, l’Assemblea lo rifiutò fra la generale derisione. Ma gli autori dell’indegno complotto non per questo si sgomentarono. La ribellione ed alcuni assassinii mantennero viva l’attenzione su quegl’infelici territori e una lunga serie di terribili delitti costituì la base su cui i ribelli di Avignone ed i loro istigatori di Parigi costruirono un nuovo progetto d’invasione. Nel giro di circa 18 mesi, per ben quattro volte fu discussa l’incorporazione di quelle province pontificie, affrontando il tema da angolazioni diverse: impugnando la solidità dei titoli di possesso della santa Sede: presentando la spontanea dedizione dei sediziosi; considerando quei territori come parte integrante della Francia. Per molto tempo prevalsero il buon senso e l’equità e la giustizia trionfò sulla malignità e sul livore. Il 4 maggio 1791, venne presentato all’Assemblea nazionale il seguente quesito: «Avignone ed il contado Venesino sono o non sono parte integrante della Francia?». Con una maggioranza di oltre cento voti risultò che non lo erano. Successivamente, il 14 maggio dello stesso anno, con nuove argomentazioni capziose venne riproposta la medesima discussione; la stessa Assemblea nazionale, a gran maggioranza di voti, sostenne solennemente che l’istanza della Municipalità e degli abitanti di Avignone per la riunione alla Francia non doveva essere accolta; che pertanto quella città non sarebbe stata unificata alla Francia. La tesi avanzata a tal fine dalle delegazioni che chiamano «Comitati» venne rigettata. Mentre questi giudici discutevano i diritti della santa Sede e per quanto incompetenti tuttavia rendevano omaggio alla giustezza della sua causa, non tacque la voce della Santità Vostra, a difesa dei legittimi domini della Santa Chiesa. Vostra Santità tentò dapprima con le maniere più paterne e più dolci di reprimere l’audacia dei facinorosi di Avignone, fintanto che il fanatismo, la sedizione, le ruberie e gli omicidii costrinsero il vice legato monsignor Casoni ad abbandonare quell’infelice città. Il giorno stesso della sua espulsione, il 12 giugno 1790, egli avanzò vigorose proteste per tutelare i diritti della santa Sede e le ribadì da Carpentras il 5 luglio dello stesso anno. Analoga solenne protesta fu reiterata in Roma dal Procuratore generale del Fisco e della Camera apostolica, che il 31 luglio dello stesso anno la umiliò al trono di Vostra Santità, perché si compiacesse di ammetterla. Così in effetti accadde con speciale chirografo datato al 2 agosto dello stesso anno e presentato in originale all’archivio segreto della stessa Camera apostolica. A quel punto Vostra Santità volle render noto a tutte le corti d’Europa, tramite una memoria distribuita a tutti i rappresentanti del corpo diplomatico estero, sia la perfidia degli Avignonesi sia la propria determinazione a non dimettere il possesso ed il dominio su quegli Stati, nella certezza che ogni sovrano avrebbe adottato l’atteggiamento che corrisponde alla gravità della situazione, nella causa comune di tutti i sovrani. Tale atto fu seguito da un’ulteriore protesta contro i ribelli avignonesi presentata dal Procuratore generale del Fisco in data 13 novembre 1790 ed ammessa con chirografo di Vostra Santità il 15 dello stesso mese: proprio quando Vostra Santità, per eccesso di paterna clemenza, rendeva noto il generale perdono per quei sudditi traviati, ed essi ebbero il coraggio di rendersene ulteriormente immeritevoli con il disprezzo e con i più vili insulti.

3. In questo stato di cose, in cui da una parte il sovrano legittimo reclamava di fronte a tutta l’Europa i propri legittimi domini e rivendicava i proprii diritti contro i ribelli; dall’altra l’Assemblea nazionale aveva reso ufficiale e pubblica la giusta disapprovazione del progetto d’invasione, sembrava che non ci fosse più nulla da sospettare o da temere da parte del dispotismo e della violenza. Gli Avignonesi però moltiplicarono i delitti e gli assassinii e questo bastò a far rinascere il piano d’occupazione già tante volte rifiutato. Con il pretesto di riportare la quiete in quelle province, l’Assemblea nazionale – violando palesemente i diritti del sovrano territoriale – osò inviare ad Avignone la milizia francese, che invece di calmare la rivolta moltiplicò ed aggravò i disordini, propagando la guerra civile e la devastazione anche nel contado. Dopo questi atti di violenza, travestiti col nome di mediazione di pace, la mina architettata dai sediziosi arrivò infine a scoppiare: il giorno 14 dello scorso mese di settembre comparve un nuovo, inaspettato decreto dell’Assemblea nazionale, in cui si dichiarava che «In virtù dei diritti della Francia sugli stati riuniti d’Avignone e del contado Venesino; in conformità del voto liberamente e solennemente espresso dalla maggioranza delle comunità e dei cittadini di questi due paesi per essere incorporati alla Francia, i citati due stati riuniti d’Avignone e del Contado sono da questo momento parte integrante della Francia». Accumulando errori su errori e malizia su malizia, il decreto precisa inoltre che il re debba aprire la trattativa con la corte di Roma, per discutere le indennità ed i compensi che legittimamente le competano. Questo decreto, beatissimo Padre, che offende i diritti di tutte le genti e dev’essere considerato in tutt’Europa come un pessimo esempio non si fonda su alcun principio di ragione o di giustizia. Esso si basa sui pretesi diritti della Francia e sull’asserito libero consenso solenne dei ribelli. Ma la santità dei trattati, la religione dei contratti, la veneranda autorità di un possesso durato cinque secoli escludono ogni preteso diritto della Francia su queste province.

Il trattato di Parigi del 1228 fece acquisire alla santa Sede il contado Venesino; non molto tempo dopo, i rappresentanti del Papa, scortati dagli stessi rappresentanti del Re, ricevettero il giuramento di fedeltà di quei sudditi. La città di Avignone, che era in Provenza quando la Provenza non apparteneva ancora alla Francia, fu a sua volta acquisita alla santa Sede con legittimo contratto di compravendita del 1348. Gli imperatori, il cui alto dominio riconosceva quasi tutta quella provincia, confermarono l’acquisizione, e tutti gli abitanti di Avignone prestarono a loro volta – solennemente e liberamente – il giuramento di fedeltà. Luigi XI, che acquisì la Provenza alla Francia, non osò toccare la sovranità del Papa su Avignone e – da Luigi XI in poi – altri tredici Re di Francia non hanno mai posto in dubbio la sovranità della santa Sede su quelle province. I trattati che di volta in volta sono intercorsi tra le corti di Roma e di Francia, per vicende che riguardavano quegli Stati (ragioni di confini, di sale, di tabacco e di tele indiane) testimoniano la conoscenza ed il possesso della sovranità. Le due occupazioni temporanee attuate, nel 1662 e nel 1688, da Luigi XIV e l’altra, voluta nel 1768 da Luigi XV, non furono mai motivate per rivendicare questi Stati alla corona di Francia, che non poteva vantare alcun diritto; esse furono semplici rappresaglie, sfociate in una sollecita restituzione e nella ricollocazione dei sovrani Pontefici nel possesso precedente, senza alcuna riserva e senza alcuna eccezione. In questo modo, in definitiva, ciò confermava anzi il legittimo ed antico possesso che la santa Sede deteneva.

L’Assemblea nazionale non poteva avere alcuna base nel formulare pretesi diritti della Francia per spogliare dei suoi Stati il legittimo sovrano; né tanto meno poteva individuarla nel preteso consenso di quelle popolazioni ribelli. Sarebbe un pessimo esempio lasciar credere ai sudditi che sia lecito cambiar padrone a proprio piacimento; men che meno lo poteva essere agli Avignonesi e ai cittadini del Contado, che fin da quel primo legittimo contratto avevano giurato fedeltà alla santa Sede; che più volte avevano implorato ed ottenuto da Gregorio XI. Nicola V, Calisto III e Paolo II di non essere mai sottratti alla soggezione ed all’ubbidienza della santa Sede. Per di più, sul finire di novembre 1789, udendo la prima proposta avanzata all’Assemblea nazionale per invadere tali province, tutta la città di Avignone (in data 10 dicembre dello stesso anno) e tutti gli abitanti del Contado (il giorno 25 dello stesso novembre) ribadirono solennemente di voler rimanere sotto il dominio dei sovrani Pontefici; inoltre, di fronte alla ribellione ed allo spergiuro di quegli sciagurati, Vostra Santità affermò con forza di fronte a tutta Europa di non acconsentire assolutamente alla rinuncia del possesso e del dominio su quelle province. L’infedeltà ed i falsi giuramenti hanno segnato quel voto che l’Assemblea chiama libero e solenne. L’iniquo voto con cui la città di Avignone si è voluta unire alla Francia è stato espresso da un popolo oppresso dai faziosi, spaventato dagli assassinii e dalle ruberie, indotto a manifestare i propri sentimenti di fronte ai patiboli; circondato non più dai propri concittadini ma da bande di vagabondi, stranieri, sgherri e sicarii. Il capriccio e l’iniquità d’un migliaio di cittadini – o forse di malandrini, stranieri, fanciulli o scellerati, che speravano di sfuggire al patibolo commettendo un ulteriore delitto – sono stati fatti passare come il consenso d’una città intera, composta di trentamila abitanti. Né più libero è stato il voto di alcuni cittadini del Contado, che è stato fatto passare come il volere dell’intera provincia. Quattro assedi alla città di Carpentras, le stragi di Cavaglione, l’incendio di Sarrians, i saccheggi dell’Isola e di Serignan, le incursioni delle bande armate in tutta la parte meridionale del Contado, la masnada di scellerati nota col nome di esercito di Valchiusa, hanno estorto un consenso basato sul terrore e sulla disperazione; contemporaneamente, gli emigranti avignonesi e le comunità del forese più libere dall’oppressione dei ribelli – e che costituiscono la maggior parte della popolazione di quel territorio – si sono sentiti travisati e gareggiano nel tributare alla Santità Vostra gli omaggi della più costante fedeltà ed obbedienza.

Stando così le cose, beatissimo Padre, io sottoscritto commissario generale della Camera apostolica, in quanto difensore legittimo dei diritti della Sede apostolica e della sua Camera, protesto solennemente e dichiaro ingiusto, temerario ed offensivo dei diritti e della legittima sovranità della santa Sede il decreto dell’Assemblea nazionale pubblicato il 14 settembre 1791, col quale si definiscono incorporati alla Francia gli Stati riuniti d’Avignone e del contado Venesino; perciò tale decreto deve considerarsi senza conseguenze e di nessun valore, così come già espresso anche nelle proteste avanzate da monsignor Casoni, vice-legato di Avignone, nella stessa città d’Avignone il 5 giugno 1790 e ripetute a Carpentras il 12 luglio dello stesso anno. Ciò si collega anche alle altre proteste fatte dal procuratore generale del Fisco il 31 dello stesso mese di luglio e ripetute il 13 del novembre seguente, ammesse ed inserite nei due chirografi segnati da Vostra Santità il 2 agosto ed il 10 novembre dello stesso anno 1790.

Io protesto solennemente e dichiaro che – nonostante tale decreto e nonostante qualunque altro atto di violenza o di usurpazione che l’Assemblea nazionale abbia perpetrato o intenda perpetrare nelle province d’Avignone e del contado Venesino – non è stato recato alcun pregiudizio ai diritti ed al legittimo possesso della santa Sede in quegli Stati, e si deve sempre tenere presente l’intenzione di Vostra Santità e della santa Sede di voler mantenere nello stato attuale il possesso di tutti i diritti, senz’alcuna diminuzione o senza alcun pregiudizio, come se il citato decreto non fosse mai stato pubblicato, né i sudditi ribelli avessero mai espresso alcun voto, né compiuta alcuna azione contro la sovranità.

L’Assemblea nazionale, nel medesimo nullo e violento decreto del 14 settembre scorso, ha suggerito al Re cristianissimo il progetto di iniziare trattative con la corte di Roma per i pretesi indennizzi e compensi; ciò è stato scritto esclusivamente per giustificare in apparenza la violenza e l’usurpazione. Per dovere d’ufficio e a sostegno dei sacri diritti del principato e della santa Sede, io protesto, dichiaro e supplico umilmente Vostra Santità: non è lecito supporre che il Re cristianissimo vorrà acconsentire a tale incarico; tuttavia, se per caso dovesse accadere che venisse proposto qualche trattato, Vostra Santità non accetti d’intavolare alcun discorso d’indennizzo e di compensi, perché in nessun modo potrebbe mai essere giustificata l’alienazione della legittima sovranità da quelle province, che costituiscono patrimonio peculiare della santa Sede e che la Santità Vostra – sulle orme dei suoi gloriosi predecessori, e specialmente di Pio II – ha giurato solennemente di non alienare mai. Dichiarando tutto ciò, e ribadendo che il decreto dell’Assemblea nazionale dev’essere considerato nullo ed iniquo, così come qualunque altro atto pregiudizievole dei diritti della santa Sede; sottolineando ancora che questa protesta è ferma e va ripetuta stabilmente ogni volta che ce ne sia bisogno, inserendola in ogni documento, di modo che la decisione dell’Assemblea nazionale rimanga sempre senza esito e di nessun valore, supplico nuovamente la Santità Vostra affinché ammetta la seguente protesta e dichiari che il decreto varato il 14 settembre scorso dall’Assemblea nazionale è nullo, ingiusto, violento e perturbante dei legittimi diritti della santa Sede, così come è nullo, fonte di disordine ed estorto il consenso fornito dai sudditi ribelli di quelle province alla incorporazione di quei territori. Faccio istanza perché questi sentimenti, che Vostra Santità ha già dichiarato a tutte le corti d’Europa, siano universalmente noti a tutti, a conferma del fatto che l’animo Vostro è stabilmente disposto a rivendicare le ragioni della sede apostolica; così dichiaro, supplico e faccio istanza. Oggi, 27 ottobre 1791.

Io, Giacomo Borsari, commissario generale della R.C.A.»

4. Dopo aver letto ed esaminato analiticamente la soprascritta istanza avanzataci dal predetto monsignor Giacomo Borsari, commissario generale della Nostra Camera Apostolica, nonché la protesta e le istanze da lui esposte, avendole trovate giuste in ogni parte e fondate, abbiamo ritenuto di aderire ad esse e di approvarle in ogni parte, a tutela dei Nostri diritti e di quelli della santa Sede apostolica, che riteniamo debbano rimanere sempre intatti ed inviolati.

Perciò, di Nostro motu proprio, in totale consapevolezza, nella pienezza della Nostra suprema potestà, con questo Nostro chirografo (nel quale abbiamo specificamente ribadito che riteniamo nullo, ingiusto e violento il decreto dell’Assemblea nazionale del 14 settembre scorso); con i due chirografi del 2 agosto e del 15 novembre 1790; con le proteste del procuratore generale del Fisco e della Nostra Camera Apostolica; con l’altro documento di esternazione e reclamo contro l’atto usurpativo e lesivo dei legittimi diritti della santa Sede apostolica, da Noi nuovamente presentato a tutti i Principi cattolici, per mezzo del reverendissimo cardinale De Zelada; approviamo specificamente qualunque ulteriore intervento di cui ci fosse bisogno e confermiamo la protesta, la dichiarazione e le istanze presentate dal suddetto commissario generale della Nostra Camera Apostolica. Dichiariamo inoltre che tale protesta debba essere ritenuta valida contro qualunque attentato d’usurpazione, offensivo dei Nostri diritti legittimi e di quelli della santa Sede apostolica, che vogliamo sempre mantenere integri contro qualunque invasione, usurpazione o violenza. Per quanto sopra affermato, affinché la protesta citata, insieme alle dichiarazioni e alle istanze in essa contenute, sia conservata a perpetua memoria, affidiamo a Voi, reverendissimo Cardinale camerlengo, l’incarico di far registrare nell’Archivio segreto della Camera apostolica questo Nostro chirografo approvativo che accetta la protesta di monsignor commissario generale della Nostra Camera. La registrazione sarà effettuata con le stesse formalità adottate per i precedenti Nostri chirografi approvativi delle altre proteste ed istanze avanzate dal Nostro procuratore generale del Fisco; il documento sarà diligentemente conservato e custodito a perpetua memoria insieme al testo di reclamo presentato alle corti dei Principi cattolici, poiché questa è la Nostra scelta e la Nostra volontà precisa. 

5. Decidiamo e decretiamo inoltre che questo Nostro chirografo abbia piena esecuzione e completo valore con la sola Nostra sottoscrizione, anche se non registrato apertamente nei documenti e nei libri della Camera, così come dispose il Nostro predecessore Pio IV nella sua Bolla «De registrandis». Contro il Nostro chirografo non potrà mai essere avanzato vizio alcuno di falsità o di inganno o di altro difetto della Nostra volontà; ciascun giudice o tribunale dovrà sempre attenersi a questa interpretazione, rimossa strutturalmente ogni facoltà di interpretare diversamente ed annullato sin d’ora qualunque atto essi producessero contro il tenore del Nostro chirografo. Con la Nostra suprema autorità, fin d’ora consentiamo, se necessaria, la più ampia deroga alle formalità previste per questo atto, purché se ne realizzi il contenuto.

Dato dal Nostro palazzo apostolico al Quirinale, oggi 5 novembre 1791.



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