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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AL SACRO COLLEGIO DEI CARDINALI

22 dicembre 1980

 

Venerati membri del sacro collegio, carissimi fratelli!

1. Ci ritroviamo in questa sala del concistoro, nell’atmosfera inconfondibile dell’attesa del Natale di Cristo Signore, per la presentazione degli auguri. Questi auguri non sono parole soltanto: esprimono la realtà vissuta della “communio” delle nostre anime, così come delle nostre energie anche fisiche, tutte protese nell’unico servizio della santa Chiesa, tutte fuse nell’unico amore a Cristo, di cui attendiamo la nascita.

Ho sentito vibrare queste anime nelle espressioni, sempre appropriate, gentili e fervorose, che qui ha formulato per voi il caro e venerato Cardinale decano. Ho sentito in esse, oltre la nobiltà del suo animo a tutti nota, anche la schiettezza dei vostri sentimenti, in questo momento unico dell’anno liturgico, nel quale ci disponiamo ad accogliere tra le nostre braccia, come Maria santissima a Betlemme, come Simeone nel tempio, il Salvatore che viene. Di tanto ringrazio il Cardinale Confalonieri, e, con lui, tutti voi.

L’incarnazione del Verbo

2. Ci prepariamo a celebrare la nascita nell’umana carne del Verbo, del Figlio unigenito del Padre, dal grembo immacolato di Maria santissima; è il compimento dell’attesa dei secoli, che, in tutta la vicenda dell’antico patto, come nelle aspirazioni più segrete dei cuori umani anche fuori della rivelazione, hanno rivolto le loro aspirazioni a questo culmine della storia della salvezza: “Ecco, l’ho costituito testimonio fra i popoli, principe e sovrano fra le nazioni” (Is 55,4). Il Cristo è l’atteso di tutti i popoli, è la risposta di Dio all’umanità. Dopo il lungo periodo delle “preparazioni evangeliche” (Eusebio di Cesarea), ecco che egli viene dal seno del Padre. Viene a farsi uomo, come noi, per offrire a Dio l’atto supremo di adorazione e di amore che, solo, poteva riconciliarlo con l’uomo; viene a manifestare la condiscendenza del Padre e le sue “viscere di misericordia” verso l’uomo, come diremo nelle messe di Natale: “Apparuit benignitas et humanitas: ...si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini” (Tt 3,4); viene a condividere la storia, la vita, la sofferenza, la povertà, l’insicurezza dell’uomo perché questi riacquisti la familiarità con Dio, perduta per il peccato; viene ad elevare l’uomo fino a Dio, in un mistero di abbassamento e di grandezza insieme, davanti al quale l’umana intelligenza si perde, e non può far altro che adorare e ringraziare; viene, anzi, a conferire all’uomo la grandezza stessa di Dio, la sua vita, a comunicargli la sua natura (cf. 2Pt 1,4): “Si è fatto Figlio dell’uomo - scrive san Giovanni Crisostomo - colui che è vero Figlio di Dio, per far gli uomini figli di Dio. Quando ciò che vi è di più eccelso si unisce a ciò che vi è di più umile, la gloria del primo non è sminuita, mentre l’umiltà dell’altro è esaltante: questo è avvenuto in Cristo. Non sminuì infatti la sua natura col proprio abbassamento, ma ha innalzato noi, che sedevamo nell’ignominia e nelle tenebre, ad una gloria ineffabile” (S. Giovanni Crisostomo, Homilia in Io. Evang. XI,1; PG 59,79). E con questa straordinaria elevazione dell’uomo, il Figlio di Dio incarnato porta nel mondo la pace, la giustizia, la libertà, la verità, l’amore.

La Chiesa continua ad annunciare il messaggio del Natale

3. Non si tratta di una commemorazione, sia pur pia e incantevole; non si tratta della rievocazione di un mito. Dopo 2000 anni di cristianesimo, e quasi alla soglia del terzo millennio della nostra era, la Chiesa ricorda al mondo, fermamente e gioiosamente, che questa elevazione non è solo un enunciato teorico, ma continua, è in atto, è in mezzo a noi. La liturgia ci ripresenta nella realtà misteriosa del rito l’evento che ci accingiamo a rivivere; e la Chiesa prolunga nel tempo e nella storia l’opera di Cristo, ne attualizza la incarnazione nelle diverse contingenze storiche del “kairós” che essa è chiamata a vivere, insieme con l’umanità, insieme con i popoli di tutto il mondo. Immersa in esso, la Chiesa è il lievito del mondo, partecipa delle speranze, delle conquiste, come delle ansie, delle pene, delle trepidazioni, degli scacchi, delle tragedie umane. A questo pensavo sullo sfondo terribile delle rovine della Campania e della Basilicata, tra i resti del cataclisma che aveva da poco sterminato tante vite umane, e distrutto paesi e abitazioni, mentre parlavo a quei fratelli e ne fissavo gli occhi doloranti, a me rivolti tra le lacrime, ma con tanta fede.

La Chiesa porta Cristo in mezzo agli uomini: vuole ad essi comunicare la vita, apparsa nella notte di Natale col Verbo fatto carne; vuole ad essi proclamare la speranza dell’eone futuro, che già albeggia nel secolo presente; vuole dilatare, pur tra le sofferenze del mondo, quella pace che è stata annunciata dagli angeli a Betlemme, e quell’amore di beneplacito, con cui Dio ci ha abbracciati donandoci il Figlio: “Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis” (Lc 2,14).

È questa la missione che la Chiesa svolge “ad extra”, nei fitti contatti che intrattiene con gli uomini fratelli.

Nella sua prima grande enciclica “Ecclesiam Suam”, il mio predecessore Paolo VI di venerata memoria ne metteva a fuoco l’essenziale missione parlando “delle relazioni che oggi la Chiesa deve stabilire col mondo che la circonda ed in cui essa vive e lavora; una parte di questo mondo, come ognuno sa, ha subìto profondamente l’influsso del cristianesimo e l’ha assorbito intimamente più che spesso non si avveda d’esser debitore delle migliori sue cose al cristianesimo stesso, ma poi s’è venuto distinguendo e staccando, in questi ultimi secoli, dal ceppo cristiano della sua civiltà; e un’altra parte, e la maggiore di questo mondo, si dilata agli sconfinati orizzonti dei popoli nuovi, come si dice; ma tutto insieme è un mondo che non una, ma cento forme di possibili contatti offre alla Chiesa, aperti e facili alcuni, delicati e complicati altri, ostili e refrattari ad amico colloquio pur troppo oggi moltissimi” (Paolo VI, Ecclesiam Suam, die 6 aug. 1964: AAS 56 [1964] 612s).

Questo contatto della Chiesa col mondo forma ora l’oggetto di questa mia familiare conversazione con voi, lasciando al prossimo giugno, com’è mia consueta intenzione, di considerare la vita “ad intra” della Chiesa stessa. È l’intento che mi sta particolarmente a cuore, ogni anno: non per una elencazione di date e di fatti, bensì piuttosto per individuare, nei problemi concreti e talora drammatici dell’umanità, il ruolo che la Chiesa è chiamata a svolgere in mezzo ad essa, con serenità e franchezza, con fortezza e con gioia, nello spirito, appunto, del Natale, che è stato il primo fondamentate evento, a cui sempre occorre rapportarsi, del dialogo di Dio con l’uomo.

Contatti con il mondo

4. “La situazione del mondo contemporaneo manifesta non soltanto trasformazioni tali da far sperare in un futuro migliore dell’uomo sulla terra, ma rivela pure molteplici minacce, che oltrepassano di molto quelle finora conosciute. Senza cessare di denunciare tali minacce in diverse circostanze (come negli interventi all’Onu, all’Unesco, alla Fao ed altrove), la Chiesa deve esaminarle, al tempo stesso, alla luce della verità ricevuta da Dio” (Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia, 2).

La Chiesa non è avulsa dal mondo. Basti pensare all’opera che le Chiese locali svolgono a ogni latitudine, sia pure in tanto differenziate condizioni storiche, socio-politiche, economiche, culturali.

In ogni paese la Chiesa incontra un volto diverso dell’umanità, nella fondamentale unità del genere umano. E qui voglio esprimere il mio apprezzamento, la mia lode, il mio incoraggiamento agli episcopati delle varie nazioni, che sono, nel contesto dei loro ambienti geografici e politici, la forza di coesione e l’instancabile stimolo di tutte le forme di vita cattoliche, mediante le quali la Chiesa si annuncia pubblicamente come il “vessillo alzato per le nazioni” (Is 11,12), il segno dell’alleanza eterna tra Dio e l’umanità.

E qui non posso anzitutto non ricordare gli episcopati incontrati quest’anno durante le loro visite “ad limina”, che mi hanno portato l’immagine viva e concreta dei loro paesi: Vescovi del Nicaragua, del Giappone, di Malaysia, Singapore e Brunei, dell’Indonesia, del Vietnam, del Brasile; Vescovi indiani di rito malabarese e malankarese, Vescovi caldei e quelli di rito greco melkita; Vescovi della Birmania, della Corea, di Formosa, della Bolivia, della Thailandia. Mediante quei fratelli nell’episcopato sono venuto veramente a contatto con i vari popoli del mondo, e ho potuto far mia l’esperienza dei pastori, che annunciano il Cristo talora in situazioni delicate, nella piena identificazione col mistero della Croce.

Ma anche tutti gli altri contatti che avvengono nel corso dell’anno - dai grandi viaggi, agli incontri con pellegrinaggi di ogni provenienza, ai rapporti familiari, da uomo a uomo, con le persone singole, con le parrocchie, con le istituzioni di carattere civile, religioso, culturale a tutti i livelli - mi offrono, in quella quotidiana sollecitudine per tutte le Chiese (cf. 2Cor 11,28), la possibilità, si può dire, di tastare il polso del mondo, con tutti i suoi problemi. Tutta la realtà dell’uomo, tutta la situazione diversificata e complessa della società pluralistica, anzi delle intere nazioni, è così presente agli occhi del Papa, il quale vuol essere - pur nella consapevolezza delle sue limitate forze, ma nella volontà umilissima e ferma di corrispondere al disegno di Dio -, non solo il centro dell’unità della Chiesa, ma anche il punto di riferimento per l’ansia universale di fratellanza e di cooperazione internazionale tra i popoli, e dare costante attestato di una ferma volontà di venire incontro al mondo.

Questo rapporto col mondo coinvolge dunque tutta la Chiesa, e coinvolge perciò anche problemi vitali come quello dell’ecumenismo - che considererò espressamente nel prossimo giugno - perché in tal modo anche i nostri fratelli, non ancora pienamente a noi uniti, si sentono invitati a partecipare a questi contatti con cui la santa Sede cerca di andare verso il mondo per incontrarsi e collaborare con esso.

I viaggi pastorali

5. E mi viene incontro, in questo momento, il volto delle singole nazioni visitate nei viaggi pastorali, che Dio mi ha concesso di compiere quest’anno, rispondendo ai pressanti inviti sia degli episcopati sia delle autorità responsabili: sei paesi dell’Africa - Zaire, Congo Brazzaville, Kenya, Ghana, Alto Volta, Costa d’Avorio - l’immenso Brasile, e, in Europa, Parigi e la Francia, la Germania, e varie città d’Italia: ciascuno con la sua storia, la sua civiltà, la sua cultura, i suoi problemi anche gravi. Del significato ecclesiale di questi viaggi, della possibilità che offrono d’incontrare anche i fratelli di altre Chiese, gli appartenenti ad altre religioni, e anche i non-credenti, ho già parlato nello scorso giugno (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,1 [1980] 1886-1889). Qui mi preme soprattutto rilevare che i contatti ad alto livello, che hanno luogo in quelle occasioni, sono altrettanti punti fermi che la Chiesa pone sul suo cammino in mezzo agli uomini, profittando della possibilità che le viene offerta di trattare con i responsabili delle sorti dei popoli. Ho detto in un’intervista ad un settimanale polacco, al mio ritorno dal Brasile, che, “come spesso ho sottolineato anche durante gli incontri con le autorità, è nell’interesse di coloro che gestiscono il potere che la società sia giusta, affinché, distaccandosi dal totalitarismo e realizzando un’autentica democrazia, questa società divenga sempre più giusta, sulla scia di ragionevoli e previdenziali riforme sociali. E così facendo si possono evitare rivolte, violenze, spargimento di sangue che costano tante sofferenze umane” (In “Tygodnik Powszechny”; cf. “L’Osservatore Romano”, die 2 aug. 1980).

Questa possibilità, veramente straordinaria, che si offre al Papa - e che si prolunga negli incontri con le altissime personalità e capi di Stato che vengono in visita ufficiale, in Vaticano - è un aspetto non trascurabile della missione della Chiesa, è una forma assai efficace di quella collaborazione che essa vuole offrire alle autorità responsabili per la costruzione di un mondo più ordinato e più giusto.

Nel Kenya, parlando al corpo diplomatico accreditato presso quella nazione, ho ricordato appunto che “lo Stato deve rigettare ogni cosa che non sia degna della libertà e dei diritti umani del suo popolo, bandendo ogni elemento, quali l’abuso di autorità, la corruzione, la dominazione del debole, il negare al popolo il suo diritto di partecipare alla vita politica e alle decisioni, la tirannia e l’uso della violenza e del terrorismo. Qui di nuovo - proseguivo -, io non esito a riferirmi alla verità sull’uomo. Senza l’accettazione della verità sull’uomo, della sua dignità, del suo destino eterno, non può esistere tra le nazioni quella fondamentale fiducia che è uno degli elementi basilari di ogni umana impresa. E neanche la pubblica funzione può essere vista per quello che veramente è: un servizio per il popolo, che trova la sua unica giustificazione nella sollecitudine per il bene di tutti” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,1, [1980] 1191).

In questo modo la Chiesa è presente al servizio dell’uomo: e soprattutto al servizio dei poveri. “La Chiesa non sarebbe fedele al Vangelo se non fosse vicina ai poveri e se non difendesse i loro diritti”, ho detto nella citata intervista. Essa contribuisce alla elevazione degli strati meno abbienti, che sono nelle varie nazioni fasce tristissime in cui l’uomo fratello si trova in condizioni sub-umane; essa inoltre contribuisce alla costruzione della società di oggi, che vive talora in forme inconsapevoli, della grande tradizione ereditata dal Vangelo e che ad essa deve nuovamente fare appello se vuole salvaguardare la propria identità e il proprio ruolo: che è ruolo di vita, di animazione, di rispetto reciproco, proclamazione di valori affermati, non mai conculcati o respinti.

“La Chiesa - come ho detto a San Salvador da Bahia - indica il modo di costruire la società in funzione dell’uomo. Il suo compito è di inserire in tutti i campi dell’attività umana il lievito del Vangelo. È in Cristo che la Chiesa è “esperta in umanità”” (6-VII). Sia benedetto chi collabora a tale grande impresa, specie i missionari che hanno sempre il primo posto nel mio cuore.

6. Pertanto, nei vari viaggi - che, con l’aiuto di Dio, e come ho annunciato, riprenderanno presto a raggio mondiale, toccando altri popoli di diversa e antica civiltà - la Chiesa, per mezzo del suo capo visibile, si cala concretamente nelle situazioni proprie alle varie nazioni, rispondendo così al desiderio vivissimo che nasce in seno a quelle stesse nazioni.

In Africa ha parlato alle varie etnie e popolazioni africane dei problemi che urgono alla loro coscienza, a livello di persone singole e di collettività: è stata incoraggiata la possibile utilizzazione, nel quadro delle caratteristiche proprie del cattolicesimo, che per definizione è “universale”, degli elementi propri di quelle culture particolari; è stata espressa la stima per quei valori speciali che l’Africa ha da offrire al mondo; è stata affermata la necessità di salvaguardare il patrimonio spirituale, la ricchezza straordinaria di sensibilità verso le realtà religiose, di tutelare le radicate tradizioni familiari con tutto il loro calore e la loro identità africani; è stato richiamato ancora una volta il dramma delle fasce provate dalla siccità, dalla fame, dall’analfabetismo, che falcidia le popolazioni e ne mina la continuità, come ho gridato, col nodo alla gola, nel mio appello per il Sahel.

In Brasile la Chiesa è in contatto con una particolare situazione sociale, che aspetta vigile attenzione e concretezza di provvedimenti da parte dei responsabili: non posso dimenticare gli incontri con i “favelados” di Rio de Janeiro, con gli operai di Sao Paulo, con i lavoratori della terra a Recife, con i popoli dell’Amazzonia. È stata un’occasione unica per proclamare ancora una volta non solo a quelle popolazioni, ma davanti al mondo intero, che “la Chiesa, quando proclama il Vangelo, senza peraltro abbandonare il suo compito specifico di evangelizzazione, cerca di ottenere che tutti gli aspetti della vita sociale, in cui si manifesta l’ingiustizia, subiscano una trasformazione verso la giustizia” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,1 [1980] 83).

In Francia e in Germania sono stati gli incontri della Chiesa con nazioni di antichissima civiltà europea, con tutte le esaltanti ricchezze del loro patrimonio culturale e artistico, con gli stimoli positivi della loro civilizzazione che tanto ha contribuito allo sviluppo intellettuale e spirituale dell’umanità, ma anche con modelli di comportamento che talora si sono lasciati condizionare dal permissivismo morale e dalla tentazione della ricchezza. I vari aspetti di quelle società, nelle loro componenti essenziali, sono stati considerati negli indimenticabili incontri, avvenuti durante quelle visite. Era un “a tu per tu” del Papa con gli esponenti della grande civiltà europea.

Ma un’occasione unica per richiamare la vecchia Europa alla genuina natura della sua matrice squisitamente spirituale hanno offerto le celebrazioni per il quindicesimo centenario della nascita di san Benedetto, che hanno permesso di rivolgermi ai popoli che formano questo nostro continente, magnifico e pur contraddittorio nell’intrecciarsi delle sue opposte tendenze, perché sia agevolato il suo processo immanente di unificazione. Nel mio messaggio all’abate di Montecassino (21-III), nell’omelia e nei discorsi pronunciati a Norcia (23-III), nella lettera apostolica “Sanctorum Altrix” a tutte le comunità religiose benedettine (11-VII), nel pellegrinaggio a Montecassino (20-IX), e durante quello indimenticabile e stupendamente significativo a Subiaco, mi è stata offerta la felice opportunità di indicare in san Benedetto il pioniere di una nuova civiltà, quella che doveva sorgere dalle rovine del mondo antico per infondere nuova vita ai popoli che si affacciavano alla ribalta della storia accanto a quelli passati attraverso il travaglio della decadenza, indicando agli uni e agli altri un programma insieme semplice e universale di rinnovamento e di trasformazione: “In questo modo - ho così potuto dire a Norcia - san Benedetto divenne il patrono dell’Europa nel corso dei secoli: molto prima di essere proclamato tale da Papa Paolo VI. Egli è patrono dell’Europa in questa nostra epoca. Lo è non solo in considerazione dei suoi meriti particolari verso questo continente, verso la sua storia e la sua civilizzazione. Lo è, altresì, in considerazione della nuova attualità della sua figura nei confronti dell’Europa contemporanea... Si ha l’impressione di una prevalenza dell’economia sulla morale, di una prevalenza della temporalità sulla spiritualità... Non si può vivere per il futuro senza intuire che il senso della vita è più grande della temporalità, che è al di sopra di essa. Se le società e gli uomini del nostro continente hanno perso l’interesse per questo senso, devono ritrovarlo... sulla misura di Benedetto” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,1 [1980] 686s).

Preghiamo affinché l’Europa sappia avere la saggezza e la lungimiranza di riscoprire, in questa retta gerarchia dei valori, il metro unicamente valido per favorire il proprio progresso nella giustizia, nella verità e nella pace. Essa troverà la Chiesa sempre disponibile in questo servizio dell’uomo. Così la troveranno sempre disponibile tutti i popoli del mondo.

La pace

7. In tale modo la Chiesa è consapevole di costruire la pace. Rimanere fedele alla causa della pace è dovere primario della Chiesa, che sta preparandosi a riudire, e custodirà sempre fedelmente, il primo messaggio di pace, quello risonato a Betlemme sulla culla del nato Figlio di Dio. Ciò suppone un lavorio costante, non mai appagato neppur da risultati lusinghieri perché si presentano problemi sempre nuovi da risolvere; ciò suppone una vigilanza instancabile, per prevenire i sintomi dell’inquietudine, via via insorgenti, e per indicare con chiarezza e costanza le vie della pace, che è sempre di nuovo da costruire, come del resto avviene per tutti i beni più preziosi affidati all’uomo, che richiedono sforzo costante di conquista e di miglioramento.

In questa luce, oltre i viaggi compiuti, e gli incontri con i capi di Stato, si pone tutta una fitta rete di contatti a vario livello, ecclesiale, civile e diplomatico, che la santa Sede mantiene con iniziative varie e differenziate. Mi piace qui ricordare il cospicuo numero degli ambasciatori - tra i quali vi sono per la prima volta nella storia quelli della repubblica popolare del Congo, della Grecia e del Malì - che anche quest’anno ho avuto il piacere di accogliere per la presentazione delle lettere credenziali: “La composizione del corpo diplomatico permette di meglio comprendere, in modo giusto, il problema importante della presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo”, ho detto all’inizio dell’anno a quegli illustri rappresentanti della convivenza internazionale (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,1 [1980] 136); ma consente anche di collaborare concordemente alla grande causa della pace nel mondo, nel rispetto dei vari “sistemi politici e delle singole responsabilità temporali” (cf. Ivi).

È alle porte la giornata per la pace 1981, che ha come motto, come sapete: “Per servire la pace, rispetta la libertà”. Il gesto profetico di Paolo VI, nell’istituirne la celebrazione all’alba del nuovo anno, si è dimostrato di un’efficacia unica nell’incoraggiare e stimolare il mondo a pensieri e a opere di pace. Il mio messaggio è ormai nelle vostre mani. Ma, durante tutto l’arco dell’anno, innumerevoli sono i documenti, le udienze, i contatti privati, rivolti a salvaguardare il bene della pace. La santa Sede non tralascia occasione per sottolineare il bene prezioso della pace, a cui sono rivolte le più profonde aspirazioni umane: ricordo i due incontri, di febbraio e di novembre, con l’organismo della curia che alimenta idealmente l’azione della Chiesa in favore della pace, cioè la pontificia commissione “Iustitia et Pax”; il premio Giovanni XXIII per la pace, conferito il 9 giugno ai catechisti africani, a Kumasi; il messaggio all’XI sessione generale delle Nazioni Unite, in agosto, e quello in preparazione alla riunione di Madrid per la sicurezza e la cooperazione europea, a novembre; l’augurio di una crescente pace tra i popoli, espresso da Monaco di Baviera sul punto di lasciare la Germania. Così gli incontri, a livello pastorale, con pellegrinaggi di varie nazioni del mondo, anzi di interi continenti, come quello con gli Africani di Roma, a febbraio; le lettere inviate, in varie circostanze, ai Vescovi del Nicaragua (26-VI), di El Salvador (20-X) e di Guatemala (1-XI), per le particolari condizioni di quei travagliati paesi; quelle mandate ai fedeli del Messico (28-I), del Brasile (21-II), dell’Ungheria (6-IV), degli Stati Uniti d’America (2-VI); le udienze a deputati brasiliani (20-II), a personalità politiche del Nicaragua (3-III), all’incontro sulla cooperazione tra l’Europa e l’America Latina (20-VI), ai sindaci delle città più popolose del mondo (4-IX), a illustri visitatori svedesi (30-X), alle delegazioni di Argentina e Cile per la mediazione felicemente avviata sulla zona australe, nelle scorse settimane. E mi sta molto a cuore ricordare l’appello, che ho lanciato agli uomini di scienza, incontrati nella sede dell’Unesco e, per loro mezzo, a quelli “di tutti i paesi e di tutti i continenti” affinché sia impiegato ogni sforzo “per preservare la famiglia umana dall’orribile prospettiva della guerra nucleare... Sì! - aggiungevo - la pace del mondo dipende dal primato dello Spirito! Sì! l’avvenire pacifico dell’umanità dipende dall’amore” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,1 [1980] 1654s).

Sono, questi che ho citato, tutti passi compiuti insieme con gli uomini di buona volontà, sulla via della pace, per aiutarne il consolidamento, per apprezzarne sempre maggiormente il valore, per prepararne i frutti, a beneficio del mondo intero.

Ombre sulla pace nel mondo

8. Ma, in questo sguardo d’insieme lanciato sull’opera svolta in favore della pace nel mondo, non mancano purtroppo, come ogni anno, ombre sinistre e funeste, che mettono in apprensione il nostro cuore: cuore di uomini, cuore di credenti in Cristo.

Non vi è nel mondo, sotterranea come la vena rosseggiante e distruttrice di un vulcano, una costante minaccia alla pace? Non vi sono popoli che soffrono e muoiono per le terribili rivalità in atto tra nazione e nazione, talora tra opposte parti all’interno degli stessi popoli? Come non ricordare il conflitto tra Iraq e Iran? La situazione afgana? Le persistenti tensioni nel Libano, la dilettissima nazione sempre a me presente, come ho voluto sottolineare più volte, quest’anno, sia scrivendo al patriarca maronita, sia lanciando un appello nell’udienza generale del 18 luglio, sia ricevendo esponenti qualificati dell’assemblea nazionale (20-X)? Come non pensare alla diletta Irlanda, che vive ore di grave trepidazione? Ma ringraziamo il Signore che, proprio in questi giorni, in risposta agli appelli e alle preghiere di varie parti del mondo, la tensione sembra essersi attenuata.

Come non ricordare le gravi violenze, che hanno insanguinato alcune carissime regioni del centro America, e tuttora continuano a mietere vittime, la più illustre delle quali è stato il compianto Arcivescovo di San Salvador? Per la pace in quel paese ho elevato la mia supplica a Dio, il 2 aprile scorso: ma piange il cuore quando giungono notizie di nuove violenze e uccisioni.

Non dimentico il dramma tuttora vivo - anche se sopraffatto da altri eventi dolorosi, che purtroppo assuefanno l’opinione pubblica - relativo ai profughi e i rifugiati nella Thailandia, e in alcuni paesi dell’Africa, con immensi problemi umani e sociali, di giustizia e di carità, di sollecitudine indilazionabile, che pongono interrogativi inquietanti alla coscienza dei popoli.

Sono vicino a tutti gli uomini fratelli che soffrono in questo momento; così come partecipo intimamente alle ansie, al travaglio e alle speranze della mia diletta patria.

In particolare, rinnovo il mio appello a tutte le nazioni del mondo - sulla linea del messaggio inviato in occasione della già citata riunione di Madrid sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, alla quale è presente una delegazione della santa Sede - per il rispetto, leale e costruttivo, della libertà religiosa a cui tutti gli uomini hanno diritto; come ho ricordato nel messaggio inviato ai capi di Stato, firmatari dell’atto finale di Helsinki, “questa libertà concreta si fonda sulla natura stessa dell’uomo, la cui caratteristica è di essere libero” (Giovanni Paolo II, Nuntius scripto datus civilibus Auctoritatibus quae sollemne foedus anno MCMLXXV Helsinkii factum subscripserunt missus, 2, die 1 sept. 1980: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,1 [1980] 1161); ed essa va salvaguardata tanto come fondamento della dignità intrinseca della persona quanto come condizione di un’ordinata e giusta convivenza civile, nella quale ogni cittadino sia rispettato per quello che “è”, e non retrocesso in seconda o terza categoria per le idee che ha la responsabilità e la coerenza di professare anche nella vita pubblica. In questo campo, la Chiesa ha tracciato i principi del suo comportamento nella basilare dichiarazione “Dignitatis Humanae” del Concilio Vaticano II, e a questa occorre sempre rifarsi per una vera e duratura pace spirituale all’interno delle nazioni.

Violenza e terrorismo

9. Purtroppo, in alcune nazioni, come la Spagna, l’Italia l’Irlanda, e altrove, perdura gravissimo il pericolo del terrorismo e della violenza, di questa vera guerra in atto contro gli uomini inermi e le istituzioni, mossa da oscuri centri di potere, che non si avvedono come l’ordine da essi auspicato mediante la violenza non possa che richiamare altra violenza. “Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada”, ha ricordato Gesù nel momento in cui subiva la violenza più atroce (Mt 26,52). E un ordine che dovesse nascere sulle rovine e le uccisioni della violenza sarebbe la pace del cimitero, secondo la nota espressione. No, non così si edifica la società nuova, che deve servire ad elevare l’uomo! La Chiesa non manca di raccomandare la costruzione di un mondo più giusto e più sano, mediante la conversione interiore e il rinnovamento radicale del costume morale. Ancora una volta, come a Drogheda, come a Torino, io supplico gli uomini della violenza, che mi sono pur fratelli, a desistere dal loro sentiero di morte; invito i giovani a non lasciarsi travolgere dall’ideologia perversa della distruzione e dell’odio, ma a collaborare con tutte le forze generose, esistenti nelle varie nazioni, per costruire il mondo “a misura d’uomo”: solo così si potrà assicurare un avvenire veramente positivo, nello slancio di un operoso progresso di cui abbiano a godere soprattutto gli umili, gli emarginati, i poveri.

Ed elevo ancora il mio pensiero, la mia preghiera per le numerose, ignare vittime del terrorismo, come ho fatto con grande dolore nello scorso febbraio, dopo la tragica fine del caro, buono e indimenticabile professor Bachelet, e come ho fatto in agosto per la barbara strage di Bologna; e rinnovo il mio invito, già rivolto nella udienza alla giunta e al consiglio provinciale di Roma (6-II), e ai giuristi cattolici italiani (6-XII) a difendere i valori morali, negati dalla violenza. Affido questo voto, che sorge dal profondo del cuore, al “principe della pace” (Is 9,6), a colui che ha preso su di sé la condizione dell’umana natura per divinizzarla e renderla partecipe della stessa grandezza di Dio.

La nostra comune preghiera si eleverà più supplichevole in questi giorni di Natale per invocare conforto e serenità per tante sofferenze di privi della libertà in varie parti del mondo, vittime della rappresaglia politica o di una iniqua, crudele, inconcepibile speculazione pecuniaria. Sono vicino a loro con la preghiera, in questo Natale che sarà per essi tanto triste; e per tutti prego il Signore con le lacrime agli occhi, chiedendo ai responsabili di avere pietà: in nome di Dio, in nome dell’uomo.

Problemi particolari: il lavoro

10. La Chiesa non è soltanto protesa verso i problemi che riguardano i continenti e i popoli: essa si rivolge all’uomo in particolare, che reca in sé impressa l’immagine creatrice di Dio ed è redento dal sacrificio di Cristo. Per la Chiesa non esiste massa amorfa, o collettività senza nome: essa sa che ogni realtà sociale e politica è formata da uomini singoli, ciascuno con i problemi inerenti alla propria identità nel lavoro, nella professione, nella vita familiare e sociale, pur nella diversità delle provenienze geografiche o delle posizioni ideologiche. Per questo uomo singolo la Chiesa ha la sua parola da dire. A quest’uomo il Papa va incontro con semplicità e cordialità, con piena “simpatia”, cioè cercando di partecipare alle sue concrete situazioni di vita, ovunque si svolgano e si sviluppino.

Anzitutto l’uomo che lavora: sono stampati nel mio cuore gli incontri, qui a Roma e durante i viaggi, con i cavatori del marmo, con i minatori, con i lavoratori dell’industria e quelli della terra, con quelli emigrati in altre nazioni e quelli dei vari paesi: tutti fanno scaturire dalla materia i mezzi di sussistenza per l’intera società, rendendosi così collaboratori di Dio che ha bisogno dell’uomo per continuare ad esplicitare la ricchezza immanente della sua creazione. Sappiano i lavoratori di tutto il mondo che la Chiesa è loro vicina, li stima e li ama per questo contributo insostituibile, al quale siamo tutti debitori, è contributo dato con la fatica di una vita intera, e quindi incomparabilmente più alto e più sacro della mercede anche più giusta che ne ricevano; sappiano che, il loro lavoro, come ho detto recentemente, “aiuta l’uomo ad essere più uomo, ne matura la personalità, ne sviluppa ed eleva le capacità, aprendolo così al servizio, alla generosità, all’impegno per gli altri, in una parola all’amore” (Giovanni Paolo II, Allocutio ad “Movimento Lavoratori Cristiani” habita, die 6 dec. 1980: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,1 [1980] 1594).

L’amore! È la grande realtà che deve muovere la società, oggi come ieri, se non vuole inaridirsi totalmente in una contrapposizione dialettica di sfruttamento e di ribellione, in un puro e semplice rapporto di dare e avere, in un egoismo di monadi che si sfiorano senza incontrarsi mai se non nella diffidenza e nel disprezzo. Solo nell’amore è il segreto della sopravvivenza.

La cultura

11. Vi è poi l’uomo che pone a disposizione le sue risorse interiori per l’elevazione anche qualitativa dei propri fratelli: è il grande mondo della cultura, nella sua varia sfaccettatura che nel momento presente acquista proporzioni straordinarie in profondità e in estensione, per le specializzazioni in atto in tutti i settori della vita intellettuale. A questo mondo la Chiesa guarda con immensa fiducia, e ad esso ho dedicato quest’anno attenzioni particolari, dopo l’impegno solennemente preso durante la riunione del sacro collegio, nel novembre dello scorso anno, e in occasione della memorabile tornata della pontificia accademia delle scienze, in quegli stessi giorni.

Vorrei citare a una a una le udienze con uomini di studio e di cultura, che si sono via via avvicendati in questa casa nel corso dell’anno che sta per finire, portando l’eco e il fervore dei loro studi in tutti i settori della conoscenza: storici, economisti, filosofi, scienziati, giuristi, latinisti, cultori della musica.

Ma il tempo non lo permette. Tuttavia, tre occasioni fermano la mia attenzione in modo particolare: la visita all’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, a Parigi, il 2 giugno: l’incontro con gli uomini di cultura a Rio de Janeiro, il 1° luglio; e gli incontri sia con scienziati e studenti, sia con artisti e giornalisti, rispettivamente a Colonia e a Monaco, il 15 e il 19 novembre, nel viaggio in Germania nel quadro delle commemorazioni centenarie di quel grande uomo di cultura e di pietà che fu sant’Alberto Magno. Gli uomini di cultura sono i custodi del patrimonio più autentico dell’umanità, e gli artefici dell’avvenire delle nazioni: nelle loro mani sta la civiltà, ma dipende anche, Dio non voglia, la barbarie del domani: “la vera cultura è umanizzazione, mentre la non cultura e le false culture sono disumanizzanti. Per questo, nella scelta della cultura l’uomo gioca il suo destino, ho detto a Rio de Janeiro. Per tale motivo la Chiesa si attende tanto dagli uomini di cultura, dai quali dipende veramente il futuro dell’umanità nelle sue radici più profonde. È pur vero, come ho ricordato a Monaco, che “negli ultimi secoli, soprattutto a partire dal 1800, il legame tra la Chiesa e la cultura, e quindi tra la Chiesa e l’arte, si è allentato”: le ragioni sono molteplici, per un reciproco atteggiamento di diffidenza. Ma tale stato di cose non ha più ragione di essere: “Il Concilio Vaticano II ha gettato le basi di un rapporto sostanzialmente nuovo fra la Chiesa e il mondo, fra la Chiesa e la cultura moderna”; ed è giunto perciò il momento di proclamare di nuovo, come ho umilmente cercato di fare davanti alla prestigiosa accolta dell’Unesco, che “il legame fondamentale del Vangelo, cioè del messaggio del Cristo e della Chiesa, con l’uomo nella sua umanità,... è effettivamente creatore di cultura nel suo fondamento stesso. Per la cultura, occorre considerare, fino alle estreme conseguenze e integralmente, l’uomo come un valore particolare e autonomo, come il soggetto portatore della trascendenza della persona. Occorre affermare l’uomo per lui stesso, e non per qualche altro motivo: unicamente per lui stesso! Ben di più, occorre amare l’uomo perché è uomo, occorre rivendicare l’amore per l’uomo in ragione della dignità particolare ch’egli possiede” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,1, [1980] 1643). Solo la Chiesa, che custodisce integro il Vangelo di Cristo, può garantire l’uomo contro ogni manipolazione dell’altro uomo: e nella cooperazione ritrovata fra Chiesa e cultura, nelle rispettive e autonome sfere di azione, si può prospettare quell’armonia superiore, che è garanzia di pace, e come tale è tanto desiderata dagli uomini pensosi delle sorti dell’umanità.

Una società gioiosa

12. Lo sforzo che la Chiesa compie nel gettare ponti con le varie espressioni della vita sociale, nella quale operano gli individui singoli con l’inesauribile carica delle loro risorse personali, non ha altro scopo che l’edificazione di una vita sociale serena, costruttiva, pacifica, gioiosa: una società a misura d’uomo.

Per questo ho cercato con ogni sforzo di intrecciare rapporti con tutti gli esponenti e gli artefici di questa società: con gli educatori della gioventù nella scuola, con gli uomini dei mass-media, tenuti anch’essi, per la loro delicatissima funzione, a una precisa deontologia e a un chiaro codice morale; con gli uomini dei servizi sociali più pieni di rischio (penso ai vigili del fuoco, che incontro ogni anno), con i militari e i loro ufficiali di vari ordini e specializzazioni; con i ferrovieri; con gli atleti impegnati in varie attività sportive. A tutti - seguendo l’orma dei miei predecessori, specie dell’instancabile insegnamento che Pio XII, nella fase più delicata della ricostruzione mondiale, non ha risparmiato a nessuna categoria sociale - ho ricordato il dovere di contribuire, ciascuno secondo le proprie possibilità, la propria preparazione e responsabilità, a far sì che il mondo in cui viviamo porti sempre più pienamente l’orma della gioia primigenia che provò Dio creatore quando, posando lo sguardo sulla grandezza della creazione, si rallegrò nell’intimo seno della sua vita trinitaria: “E Dio vide che era cosa buona” (cf. Gen 1,passim); “era cosa molto buona” (Gen 1,31).

Che anche l’uomo di oggi sappia che “la gioia del Signore è la nostra forza!” (cf. Esd 8,10).

La famiglia

13. L’uomo, al di là di ogni pur altissima attività intellettuale o sociale, trova il suo sviluppo pieno, la sua realizzazione integrale, la sua ricchezza insostituibile nella famiglia. Qui veramente, più che in ogni altro campo della sua vita, si gioca il destino dell’uomo. Per questo la Chiesa continua a dedicare le attenzioni più calde e premurose alla magnifica realtà della famiglia. È ancora nel nostro cuore di pastori vivissimo il ricordo delle giornate della V assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, dedicate al grande problema, vitale non soltanto per la Chiesa ma anche per l’intera umanità. I problemi affrontati dai Vescovi con lucido realismo e con paterna sollecitudine erano molti, e di essi si sono resi interpreti i vari episcopati, recando l’eco delle situazioni proprie delle varie parti del mondo. Il Sinodo, nel trattare questi problemi, “si è mosso su due direttrici, come su cardini, - così ho riassunto a conclusione dell’assemblea - la fedeltà cioè al piano di Dio verso la famiglia, e la pratica pastorale caratterizzata da un amore misericordioso e dal rispetto dovuto agli uomini, considerati nella loro completezza per quanto concerne il loro “essere” e il loro “vivere” (25 ottobre). Si sono affermati cioè i principi dell’etica matrimoniale, sui quali poggia l’istituto familiare, secondo i punti fermi tracciati da Paolo VI nella sua enciclica “Humanae Vitae”, e al tempo stesso si sono tenute presenti con cuore di pastori e di padri le difficoltà, le ansie, talora i drammi di tante famiglie che vogliono conservare integra la loro fedeltà al Vangelo e non trasgredire le norme eterne dell’etica naturale, oltre che dell’imprescrittibile legge di Dio, inscritta nel cuore dell’uomo.

La famiglia tocca oggi il punto forse più acuto di una crisi senza precedenti, maturata col confluire delle varie mentalità permissivistiche e di teorie che in nome di una presunta autonomia dell’uomo vengono a negare la missione affidata all’uomo stesso da Dio creatore, nel piano originario della comunicazione della vita (cf. Gen 1,28): questo piano ho cercato di illustrare il più compiutamente possibile nel corso dell’intero anno, già fin dall’estate 1979, proprio in vista della celebrazione del Sinodo e nel quadro della sua impostazione dottrinale, la legge di Dio non mortifica, ma esalta l’uomo, e lo chiama alla straordinaria cooperazione con lui nella missione e nel gaudio della paternità e della maternità responsabili. Di fronte al disprezzo del valore supremo della vita, per cui si giunge a convalidare la soppressione dell’essere umano nel grembo materno di fronte alle disgregazioni in atto dell’unità familiare, unica garanzia per la formazione completa dei fanciulli e dei giovani; di fronte alla svalutazione dell’amore limpido e puro, allo sfrenato edonismo, alla diffusione della pornografia, occorre richiamare alto la santità del matrimonio, il valore della famiglia, l’intangibilità della vita umana. Non mi stancherò mai di adempiere questa che ritengo missione indilazionabile, profittando dei viaggi, degli incontri, delle udienze, dei messaggi a persone, istituzioni, associazioni, consultori che si preoccupano del futuro della famiglia, e ne fanno oggetto di studio e di azione. Ancora una volta, con le parole della preghiera dettata in occasione del Sinodo, chiedo a Dio che “l’amore, rafforzato dalla grazia del sacramento del matrimonio / si dimostri più forte di ogni debolezza e di ogni crisi / attraverso le quali, a volte, passano le nostre famiglie / ...: per intercessione della sacra famiglia di Nazaret, la Chiesa in mezzo a tutte le nazioni della terra / possa compiere fruttuosamente la sua missione / nella famiglia e mediante la famiglia”.

La gioventù

14. Non posso terminare senza un accenno, almeno, alla inesauribile e promettente carica di vita e di progresso sociale, che sono oggi i giovani per la Chiesa e per il mondo. Essi sono i primi beneficiari dell’azione plasmatrice e corresponsabilizzante della famiglia; ma sono anche le prime vittime dei disordini e degli squilibri, che ne minano oggi la vita. Ho parlato altre volte di questo tema, e basti solo il richiamo. Nel ricordare che, in Africa e in Brasile, ho visitato nazioni veramente giovani, perché la loro popolazione è costituita, in massima proporzione, dalla gioventù, non posso non pensare a questi uomini del futuro, che avranno in mano la società del duemila. È uno smisurato potenziale umano, che attende tanto da noi, da tutta la società: verso di esso Cristo guarda con sconfinato amore, con fiducia infinita, fissandoli a uno a uno negli occhi, come ha fatto con i suoi apostoli, con i fanciulli, con il giovane ricco del Vangelo.

Giovani, dico a voi, Cristo vi aspetta a braccia aperte; Cristo conta su di voi per costruire la giustizia e la pace, per diffondere l’amore. Come a Torino, dico ancora oggi: “Dovete tornare alla scuola di Cristo... per ritrovare il vero, pieno, profondo significato di queste parole. Il necessario supporto per questi valori non sta che nel possesso di una fede sicura e sincera, di una fede che abbracci Dio e l’uomo, l’uomo in Dio... Non c’è una dimensione più adeguata, più profonda da dare a questa parola “uomo”, a questa parola “amore”, a questa parola “libertà”, a queste parole “pace” e “giustizia”: altra non c’è, non c’è che Cristo” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,1, [1980] 905s).

Sì, carissimi giovani, che ho incontrato in ogni mio viaggio - e come dimenticare l’incontro emblematico al Parc-des-Princes, di Parigi? - giovani che ho visto a tutte le latitudini del mondo, nelle popolose città e nelle campagne, negli stadi e nelle piazze, nelle messe in san Pietro come in istituti particolari quali quello di Casal del Marmo: sì, universitari, lavoratori, sportivi; sì, giovani sfuggiti ai tentacoli della droga: non c’è che Cristo, redentore dell’uomo! Siatene convinti. E ditelo forte intorno a voi.

Gesù, misericordia del Padre

15. Fratelli carissimi,

Ho ricordato quanto è stato fatto nei rapporti della Chiesa col mondo: ma sono convinto che tutte le attività che ho potuto dispiegare nel corso dell’anno sono state possibili proprio grazie al concorso di tante forze generose e silenziose, che amano sinceramente la Chiesa; grazie all’aiuto di Cardinali, di Vescovi, di sacerdoti, di laici impegnati nell’apostolato, di organismi di varia denominazione, che mi hanno offerto un validissimo appoggio; e grazie a voi, miei primi e insostituibili collaboratori della curia romana, che sento a me tanto vicini. A tutti esprimo la mia viva, sincera, commossa benevolenza.

Ci disponiamo a celebrare il Natale. Abbiamo visto delinearsi davanti agli occhi i molteplici campi della vita dell’uomo nel mondo contemporaneo, con le sue luci e le sue ombre, con le sue incertezze e le sue speranze, con i suoi pericoli e le sue risorse. Verso tutti questi campi dell’essere e dell’agire umano nel mondo contemporaneo sta per discendere, ancora una volta, il Salvatore. Il mondo l’attende, anche inconsapevolmente; il mondo ha bisogno di lui, che annuncia la misericordia del Padre, che è la misericordia del Padre. Nonostante apparenze esteriori, questo mondo soffre dal di dentro: squilibri, discriminazioni, oppressioni, calamità naturali, stenti indescrivibili; insoddisfazioni, paure, violenze, morti; e soprattutto, vi è il peccato, germe disgregatore e fonte d’infelicità profonda. Cristo viene a salvare il mondo dal peccato, e a offrirgli la possibilità estrema del riscatto: egli - ho scritto nell’enciclica “Dives in Misericordia”, che ho affidato alla meditazione della Chiesa all’inizio di questo avvento in preparazione al Natale - “divenendo l’incarnazione dell’amore che si manifesta con particolare forza nei riguardi dei sofferenti, degli infelici o dei peccatori, rende presente e in questo modo rivela più pienamente il Padre che è Dio “ricco di misericordia”. Contemporaneamente, divenendo per gli uomini modello dell’amore misericordioso verso gli altri, Cristo proclama, con i fatti ancor più che con le parole, quell’appello alla misericordia, che è una delle componenti essenziali dell’“ethos” del Vangelo” (Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia, 3).

Il Natale è il segno della misericordia di Dio, l’apparire tra gli uomini del suo amore liberatore. La Chiesa non si stanca di ripeterne l’annuncio, perché sa che il mondo ha bisogno di questa misericordia, la quale non avvilisce ma dà all’uomo una nuova dignità, elevandolo al livello di Dio.

Egli si è abbassato in Cristo per riportare l’uomo alla sua grandezza perduta: “Quia quomodo est Deus incommutabilis, fecit omnia per misericordiam, et dignatus est ipse Filius Dei mutabilem carnem suscipere, manens id quod Verbum Dei est, venire et subvenire homini: come Dio non è mutevole, e ha fatto ogni cosa per mezzo della sua misericordia, così lo stesso Figlio di Dio si è degnato di assumere una carne mutevole, rimanendo Verbo di Dio, si è degnato di venire e di soccorrere l’uomo” (S. Agostino, Serm. 6,5; CCL 41, Sermones de Vetere Testamento, ed. C. Lambot, Turnhout 1961, p. 61).

“Dignatus est venire et subvenire homini”: questo è il Natale per noi. E questo ci sforziamo di realizzare nel mondo, come membra di quella Chiesa che si riconosce nata, insieme col Cristo nato, per aiutare l’uomo a salvarsi: “subvenire homini”. Questo il nostro assillo, carissimi fratelli, il nostro impegno, il nostro sforzo; questo l’unico nostro desiderio, e il premio a cui tendiamo, con tutte le forze, finché il Signore ci dia respiro e forza, a me e a tutti.

Con la mia più affettuosa benedizione apostolica.

 



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