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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO
SUL TEMA «PORTARE CRISTO ALL'UOMO»

Venerdì, 22 febbraio 1985

 

Carissimi fratelli e sorelle.

La gioia dell’odierno incontro è offuscata dal doloroso evento della subitanea scomparsa del pro-prefetto della Congregazione di Propaganda Fide, il caro fratello nell’episcopato monsignor Dermot Ryan, rapito ieri improvvisamente alla stima e all’affetto di tutti noi. La morte lo ha colto nel pieno svolgimento delle sue non lievi mansioni quale responsabile di un importante dicastero della Curia romana. Il pensiero va in questo momento al generoso servizio da lui reso alla Chiesa. Nell’esprimere il commosso omaggio della mia gratitudine verso Monsignor Ryan per la disponibilità e dedizione con cui egli si era accinto al nuovo impegno ecclesiale a cui lo avevo chiamato, elevo a Dio la mia preghiera perché voglia accogliere nella pace del premio eterno questo suo servo generoso e fedele. Aggiungo una particolare preghiera di suffragio per l’anima della mamma di Monsignor Simon Lourdusamy, che si è piamente spenta stamane nella pace del Signore.

Una delle ultime iniziative di Monsignor Dermot Ryan era stata la promozione di questo Congresso internazionale, voluto come opportuna occasione per approfondire, a vent’anni dalla celebrazione del Concilio Vaticano II, un’ulteriore riflessione su due suoi importanti documenti: il decreto Ad gentes e la dichiarazione Nostra aetate.

Nel rivolgere a voi tutti qui presenti un cordiale saluto, desidero esprimere il mio vivo compiacimento a quanti hanno lavorato alla realizzazione dell’iniziativa: alla Sacra congregazione per l’evangelizzazione dei popoli che, per il tramite della Pontificia università urbaniana, ha curato la realizzazione del Congresso; ai membri dei tre Segretariati - per l’unione dei cristiani, per i non cristiani e per i non credenti - che hanno offerto la loro piena e generosa collaborazione; alle numerose pontificie commissioni e al Pontificio istituto d’islamologia, per gli apprezzati contributi; ai numerosissimi docenti che, in rappresentanza delle pontificie università e facoltà romane, in spirito di profonda comunione, sono intervenuti con particolari comunicazioni; ai partecipanti provenienti da fuori Roma e, in particolare, ai rappresentanti degli istituti affiliati alla Pontificia università urbaniana, che con i loro interventi hanno portato arricchimento alle tematiche congressuali.

Mi piace vedere in questo vostro incontro, che ha veramente le caratteristiche della cattolicità, una testimonianza di quell’unità nella diversità che Sant’Agostino, commentando il salmo 44, scorgeva significata nella veste preziosa della Chiesa-regina, presentata al re-Cristo. E il motivo che vi ha riunito è pure cattolico: riflettere sui documenti di un Concilio ecumenico, al quale la Chiesa sparsa nel mondo guarda come a luminoso punto di riferimento, da cui trarre gli orientamenti per il suo cammino nella storia. In attesa del prossimo Sinodo straordinario dei vescovi che, a vent’anni da quello storico evento, ne farà rivivere lo spirito, chiarendo le nuove problematiche alla luce degli insegnamenti in esso maturati, è giusto e opportuno che, a diversi livelli e in diverse maniere, se ne curi un’adeguata preparazione. Il vostro Congresso sta in questa linea.

2 Il tema generale in esso affrontato prende lo spunto e il motivo ispiratore dalle parole con cui esordivo nell’enciclica Redemptor hominis: “Il Redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è il centro dell’universo e della storia”.

Questa realtà, trascendente e incarnata a un tempo, si impone infatti alla Chiesa stessa e a tutti i cristiani, interpella ogni credente di animo onesto, è metro di giudizio per rapporto alla storia dell’intera umanità, è il principio della creazione e della ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. Compito della Chiesa di oggi è recare il lieto annuncio di questo mistero all’uomo moderno.

Oggi l’uomo è percorso da un’inquietudine esistenziale che manifesta, in forme e tonalità diverse, il suo bisogno di salvezza, di liberazione, di pace. Egli, attraverso gli incontri significativi della sua vita, impara a conoscere il valore delle dimensioni costitutive del proprio essere, prime fra tutte quelle della religione, della famiglia e del popolo a cui appartiene. Di tali incontri, tuttavia, prima o poi egli si accorge, in termini drammatici, di non possedere ancora il significato ultimo, capace di renderli definitivamente buoni, veri, belli. E sperimenta allora la strutturale incapacità di placare la sua esigenza di infinito.

Egli è posto così di fronte ad un tremendo aut-aut: domandare a un Altro che s’affacci all’orizzonte della sua esistenza per svelarne e renderne possibile il pieno avveramento, o ritrarsi in sé, in una solitudine esistenziale in cui è negata la positività stessa dell’essere. Il grido di domanda, o la bestemmia: ecco ciò che gli resta!

Ed ecco perché fin dall’inizio del mio pontificato ho levato l’appello: “Aprite le porte a Cristo”. Il Verbo del Padre s’è unito in certo modo ad ogni uomo, penetrando in maniera unica nel mistero del suo cuore. Cristo è diventato così la via per ciascun uomo. Su questa via che conduce da Cristo all’uomo, la Chiesa non può essere fermata da nessuno.

E, in realtà, mai come nel periodo post-conciliare la Chiesa è andata prendendo sempre più chiara coscienza della propria missione evangelizzatrice: s’è scoperta per sua natura “missionaria”.

La Pontificia università urbaniana è sorta, ha operato e opera al servizio di tale missione. Nella visita che feci all’ateneo il 19 ottobre 1980, dissi fra l’altro che la missionarietà ne costituiva appunto una “nota caratterizzante”, assieme all’“ecclesialità” e “romanità”, e ricordo di aver lasciato allora la consegna di “vivere in una continua tensione missionaria”.

Orbene, il Congresso or ora celebrato, si presenta come una fedele risposta a tale mandato. L’università s’è posta ancora una volta in ascolto del grido di implorazione che dall’angoscia esistenziale dell’uomo sale verso l’Unico che può darvi risposta risolutiva, e ha voluto questo incontro internazionale, nel quale esplorare le strade migliori per “portare Cristo all’uomo”. Tra le strade possibili, quelle più adatte alle esigenze dell’uomo moderno sono apparse la strada del dialogo, quella della testimonianza e, infine, quella della solidarietà.

La situazione concreta, in cui l’uomo contemporaneo si trova a vivere, immerso com’è in un mondo segnato, da una parte, dal pluralismo ideologico e, dall’altra, dal fenomeno dell’ateismo di massa, esige innanzitutto l’adozione coraggiosa e leale della metodologia del dialogo. Quanti portano il nome di Cristo devono sentirsi, oggi, impegnati in un dialogo salvifico con tutti coloro, che, in un modo o nell’altro, sono sensibili al richiamo della coscienza religiosa e, tra questi, soprattutto - come il Concilio già ha raccomandato - con i seguaci della religione ebraica e quelli della religione islamica, i quali credono in un unico Dio.

Questo impegno deve indurre i cristiani a prendere coscienza della loro identità, a convergere generosamente verso l’unità, a rinnovarsi nel cuore e nelle strutture, perché la testimonianza, ad essi richiesta, sia ogni giorno più autentica.

Da questo compito di testimonianza i cristiani tutti e la Chiesa non possono ritrarsi, per quanto numerose e dolorose possano essere le forme di indifferenza e anche di violenza ad essi contrapposte, giacché ad ogni uomo, creatura di Dio, li vincola un’insopprimibile solidarietà. Non ha forse detto il Concilio che “nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore” dei discepoli di Cristo giacché la Chiesa “si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia” (cf. Gaudium et spes, 1)?

4.  Numerosi spunti sono emersi dal Congresso, che non mancheranno di suscitare feconde riflessioni fra gli studiosi e utili applicazioni sul piano pratico dell’impegno pastorale. Penso, ad esempio, al tema del rapporto tra la “specificità” cristiana e l’illuminazione universale del Verbo, o tra l’urgenza missionaria della Chiesa e l’accoglienza dei valori positivi delle culture. Penso, in particolare, al tema fondamentale della traduzione dell’annuncio in termini di cultura, con i connessi aspetti di ordine teologico e filosofico, oltre che di ordine pratico.

Nell’incoraggiare ciascuno a proseguire, secondo la propria specifica competenza, nell’esame dei nodi ancora irrisolti in questi e simili problemi, mi preme ricordare che quest’ampia tematica non può essere adeguatamente affrontata, senza tener conto, alla luce delle permanenti indicazioni del magistero, della stessa rivelazione, contenuta sia nella Sacra Scrittura che nella tradizione. La rivelazione, infatti, è il permanente e autorevole documento della “traduzione” della parola divina in termini di linguaggio umano; e l’intera tradizione della Chiesa è l’attestato e la guida illuminante di come l’annuncio salvifico si sia via via “incarnato” nelle diverse culture.

5.  Il vostro Congresso dunque si chiude, carissimi, lasciando a ciascuno l’impegno di un ulteriore cammino. Sono lieto di rivolgervi una parola di plauso per il lavoro che avete svolto e per il modo in cui l’avete svolto. Mi è caro sottolineare l’esemplare “dialogicità”, con cui ciascuno ha posto in comune pensieri ed esperienze; la generosa “testimonianza” di fraternità, che ha visto cooperare fra loro rappresentanti delle più diverse culture; la “solidarietà” carica d’avvenire, che ha stimolato maestri e discepoli nell’ascolto e nell’impegno per l’evangelizzazione del mondo. La spontaneità, con cui tutto ciò è avvenuto in questi giorni sul Gianicolo, è come una risposta ai “segni dei tempi” che la Chiesa scruta in quest’ora della sua storia.

Nell’accomiatarmi da voi, desidero affidare il vostro lavoro alla Vergine santissima, la prima missionaria che, in maniera esemplare ed efficace, “ha portato Cristo all’uomo” nella pienezza dei tempi. Voglia ella rimanervi accanto sempre e guidarvi con la sua materna protezione. Nel suo nome vi benedico tutti di cuore.

 

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