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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI DEL NORD-EST DEL BRASILE
IN VISITA «D LIMINA APOSTOLORUM»

Lunedì, 30 settembre 1985

 

Signori Cardinali,
Carissimi Fratelli nell’Episcopato!

1. L’incontro personale realizzato con ciascuno di voi, se è per voi stessi un gesto altamente significativo di comunione sacramentale e gerarchica con il successore di Pietro e pertanto di autentica collegialità, se è per i fedeli delle vostre Chiese motivo di edificazione e di maturità nella fede, per il Papa è occasione privilegiata per conoscervi meglio e per conoscere le vostre diocesi, attraverso voi, pastori devoti che con zelo e semplicità e non senza sacrifici, vi inserite nella vita e nei problemi delle vostre popolazioni. Ciò che ho potuto cogliere dalla rapida lettura delle relazioni quinquennali si completa così e si arricchisce prodigiosamente dei colloqui, purtroppo molto brevi, che ho il piacere di tenere con voi.

Per tutto ciò vi sono molto grato. E che, nella misura del possibile, tutto quanto mi è dato ascoltare, custodito nel tesoro della memoria e del cuore, entri a far parte della “instantia mea quotidiana, sollicitudo omnium ecclesiarum” (2 Cor 11, 28), divenendo oggetto della mia costante preghiera per tutti coloro che, come voi, sono per me fratelli carissimi nel pascolo del gregge.

2. In questo incontro collettivo i vescovi delle regioni Nordest-2 e Nordest-3 della Conferenza dei vescovi del Brasile - il cui significato è stato così amabilmente ed eloquentemente messo in evidenza dal Cardinal Brandao Vilela - e impossibile non ricordare insieme a voi quella porzione del Nordest del popolo brasiliano, il cui volto ho potuto per lo meno intuire (se non conoscere), nelle innumerevoli folle che mi è stato dato di contemplare, cinque anni fa, a Salvador e a Recife.

Come ho avuto occasione di esprimere in quei memorabili giorni, e come da allora ho ripetuto tante volte, dal contatto con il Brasile ho riportato l’impressione di aver convissuto con un popolo dotato di un’anima profondamente religiosa, affamato e assetato di Dio e aperto ai valori spirituali.

So bene che “quest’anima naturalmente cristiana” (Tertulliano) è, nel caso del Brasile, nonostante lo sforzo missionario di ieri e di oggi, severamente minacciata, da fattori esterni e interni. Esterni: la permanente mancanza di sacerdoti, che lascia come pecore senza pastore innumerevoli fedeli; il proselitismo insidioso e sleale di sette e gruppi religiosi acattolici; il procedere asservitore del secolarismo, con le sue varie sfaccettature; la crisi dei valori morali. Fattori interni: un certo clima di incertezza e di ambiguità nell’annuncio della fede e delle verità da credere; il conseguente germinare di dubbi e perplessità nello spirito di molti cattolici, soprattutto dei più semplici, quanto al contenuto e alle esigenze della fede; le divisioni tra fratelli nella stessa fede su questioni fondamentali; il pericolo di veder profilarsi immagini di Chiesa, che né nella teoria né nella pratica corrispondono a quella che il Verbo di Dio fatto uomo volle e fondò.

E di fronte a questo quadro, con le sue luci che suscitano gioia e speranza, e con le sue ombre che non è giusto né prudente dissimulare o ignorare, la responsabilità appare in tutta la sua ampiezza e profondità.

Ispirandoci all’immagine del vescovo fornita vent’anni fa dai documenti del Concilio, possiamo dire che a voi, come a tutti i pastori della Chiesa, urge l’invito del “Supremo Pastore” (1 Pt 5, 4) ad essere: edificatori della comunità ecclesiale, sia chiamando i dispersi, aggregandoli nella fede, nella carità e nel culto del Dio vivo, sia mostrandosi per i fedeli segni efficaci di unità soprattutto in mezzo al sorgere delle divisioni, sia tutelando questa unità quando è minacciata e in pericolo; annunciatori della Parola e, di conseguenza, pieni di zelo e luminosi maestri e dottori della verità rivelata, verità su Dio e su Cristo, sulla Chiesa e sull’uomo; padri spirituali, capaci di generare innumerevoli figli di Dio in Cristo tramite il Vangelo (1 Cor 1, 15) e di educarli nella fede facendoli crescere sino allo stato dell’Uomo perfetto, Gesù Cristo (cf. Ef 4, 13); pastori e guide prudenti, coraggiosi, mansueti, devoti, compassivi, che vogliono e sanno orientare verso le strade del Vangelo tutti coloro che sono dispersi, fuorviati, illusi; maestri nella preghiera dediti a insegnare ai fedeli le strade della preghiera e della lode, dell’adorazione e - perché no? - della contemplazione; santificatori del popolo di Dio che, con la parola e i sacramenti, non disdegnano di rivelare agli altri ciò che regna al di là degli orizzonti di questo mondo e di questa vita e che a questo mondo e a questa vita dà pieno senso.

La parola di Dio nelle Scritture, il magistero della Chiesa, la coscienza di ciascun pastore e la voce - più o meno eclatante, ma sempre chiara e altisonante - dei propri fedeli ribadiscono continuamente che un vescovo non realizza la pienezza della sua vocazione e della sua missione, se non compie con sollecitudine ciascuna di queste dimensioni della sua funzione episcopale.

3. Nella scrupolosa fedeltà alla sua missione, innanzitutto spirituale e religiosa (cf. Gaudium et spes, 42), la Chiesa non può non prestare attenzione al suo dovere di fronte ai problemi che affliggono l’uomo e, soprattutto, alle situazioni che lo offendono nella sua condizione di persona umana e di figlio di Dio. Nelle regioni in cui siete stati posti come pastori, immense folle umane soffrono - e in esse Cristo rivive in certo qual modo la sua passione - il dramma del sottosviluppo e dell’emarginazione nei suoi vari squallidi aspetti: denutrizione quando non addirittura lo spettro della fame vero e proprio, infermità, mortalità infantile, e via dicendo. Davanti alla tentazione non ipotetica né rara, di rifugiarsi nel fatalismo, ho sentito il dovere di dirigere tra i poveri, gli “alagados” di Salvador, un forte appello: Dio non vi vuole vilipendiati, sottomessi a una vita infraumana, immersi nella miseria. Dio vi vuole creature umane e figli suoi, rivestiti della dignità che esso comporta.

4. Con il pensiero rivolto a quei nostri fratelli e coinvolto dal clima di fiducia di questo nostro incontro, signor cardinale e signori arcivescovi e vescovi, non posso non proporvi una riflessione che considero della maggior rilevanza. Mi riferisco a concetti, che più di una volta ho espresso, recentemente, in occasione della Giornata mondiale dell’alfabetizzazione (cf. Giovanni Paolo II, Nuntius scripto datus ob diem alphabeticae institutionis inductioni per orbem dicatum, 7 settembre 1985: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII/2 [1985] 594 s.); non esiste possibilità né scelta di sviluppo, di integrazione sociale (e pertanto di vittoria sull’emarginazione) né di autentica liberazione, se non si inizia ad eliminare l’analfabetismo, a dare istruzione, educazione di base, cultura. La storia antica e recente di molti popoli conferma la verità di questa convinzione. Non si opera una vera riforma delle strutture, non si crea un nuovo ordine sociale, non si realizza la genuina liberazione con gli analfabeti.

Facilitare l’alfabetizzazione e l’educazione di base è un servizio fondamentale da prestare a una moltitudine di emarginati. Un uomo che apprende a leggere e a scrivere comprende meglio la necessità dell’igiene, ha più possibilità di curare la propria salute, conosce meglio i propri diritti e doveri, sente il desiderio di partecipare, comincia a sollevarsi in piedi, comincia a realizzare la propria liberazione, non quelle che altri gli vogliono imporre ma quella che a lui conviene.

Affinché ciò accada, il processo di alfabetizzazione deve rispettare alcune leggi interne. Nell’impossibilità di annoverarle tutte, ne ricordo una delle più impellenti: l’alfabetizzazione deve avere come unico fine la cultura e lo sviluppo integrale dell’uomo da alfabetizzare. Questo principio dovrebbe essere sufficiente a scongiurare qualsiasi processo di alfabetizzazione che, per i suoi metodi e i suoi obiettivi più o meno velati, tendesse a “coscientizzare” (“rendere cosciente”, “sensibilizzare”) la persona da alfabetizzare, se a questo termine si dà il senso di condizionarlo ad una determinata ideologia o schema mentale di tipo socio-politico, diminuendo la sua libertà di discernimento e di opzioni personali. Un’altra cosa è il “coscientizzare” inteso come “il risveglio della coscienza della propria dignità di persona umana con i suoi diritti e i suoi doveri”. Un’alfabetizzazione che venisse a condurre in modo ingannevole l’alfabetizzando a un assoggettamento ideologico non sarebbe un processo di liberazione, ma di una nuova schiavitù, tanto più grande quanto vestita delle sembianze di liberazione.

5. Come non sottolineare a questo punto la connaturalità che esiste tra la missione della Chiesa e lo sforzo di istruire e di educare? Il titolo che ella ha ricevuto dalle origini di “madre e maestra” è la migliore espressione della sua principale vocazione a insegnare ed educare. Nel corso di tutta la sua storia ella è stata fedele alla funzione educatrice: basta pensare alla determinante attività dei monasteri e delle abbazie, nell’antichità; alla creazione delle prime università, nel Medioevo; alla fondazione degli ordini e delle congregazioni religiose con il carisma preponderante dell’insegnamento e dell’istruzione; al gran numero di istituzioni educative create e mantenute dalla Chiesa in tutte le zone del mondo. Il contributo della Chiesa nel campo educativo e culturale può essere paragonato solamente a ciò che ella stessa svolge e ha svolto nel campo della salute e dell’assistenza ai più bisognosi.

Questa verifica costituisce, senza dubbio, un’interpellanza alla Chiesa affinché, in contesti come quelli in cui voi siete chiamati ad agire, ella accetti la sfida di assumere anche il ruolo di protagonista, insieme agli altri organismi governativi o privati, dell’opera di alfabetizzazione. Ella già sta facendo ciò in molti Paesi e potrebbe farlo in molti altri, con la viva coscienza, basata nell’amore del Redentore, di lavorare affinché fioriscano la giustizia e la carità (cf. Gaudium et spes, 76) e stare così fornendo un contributo valido per lo sviluppo integrale delle immense masse emarginate. Al loro servizio ella si lancia nell’unica rivoluzione che sa e può fare: la rivoluzione dell’amore. In questo caso, mediante la pacifica, costruttiva, feconda, efficace e liberatrice rivoluzione del libro e della penna.

6. L’importanza vitale di questo tema diminuirà forse la sorpresa che potrebbe sorgere di fronte alla sua scelta in un discorso come questo. Sono sicuro inoltre che saprete comprendere nei suoi giusti limiti, cogliere con generoso impegno e tradurre in opere il grave appello contenuto in queste considerazioni con le quali ho desiderato scandire questo nostro incontro.

È un appello che si dirige ai vescovi del Nordest ma anche - perché no? - ai vescovi brasiliani in generale: appello a una forma concreta del “misereor super turbam” (Mc 8, 2). Nell’affanno di partecipare al progresso materiale, morale e spirituale del Paese, non spetta a voi proporre soluzioni tecniche o alternative politico-partitiche, ma è vostro diritto-dovere offrire un contributo profondamente umano come quello dell’alfabetizzazione.

Contributo di somma importanza - ripeto - perché genera valide conseguenze, nella linea dello sviluppo e dell’evangelizzazione. Vi affido dunque il compito di studiare e di dare suggerimenti e la migliore collaborazione alle altre istanze interessate, con un piano di aiuto efficace all’alfabetizzazione e all’educazione di base delle popolazioni analfabete. Nessuno pretende che la collaborazione della Chiesa, da voi orientata, dia una soluzione definitiva al problema, che come voi stessi mi informate, è ancora grave nel Paese. Ma tale collaborazione sarà sicuramente fruttuosa nel risolvere una parte del problema e per incentivare altri sforzi. Milioni di famiglie vi saranno grate per questo. Dio vi benedirà. E può essere che un giorno lo stesso Cristo vi dica sulla soglia del Regno: “Io ero analfabeta e mi avete insegnato a leggere, a scrivere e a contare”.

7. Non voglio concludere senza osservare che domani inizia il mese di ottobre, da secoli celebrato dalla pietà popolare come il mese del rosario. So che il rosario è stato fino a poco tempo fa la devozione tradizionale del popolo brasiliano. Nelle città e nei paesi dell’interno era abituale il rosario in famiglia o nelle cappelle di campagna, veri semi di comunità ecclesiali di base. Il rosario è stato per secoli strumento di catechesi per i poveri e per gli illetterati, espressione di culto popolare, manifestazione di affetto filiale alla Vergine.

Che buono sarebbe se, in un modo o nell’altro, questa espressione di pietà popolare tornasse a rifiorire. Voi stessi mi avete detto che nella devozione alla Madre di Dio, così radicata nell’anima della gente, si incontra un mezzo di catechesi e uno strumento per frenare il sorgere delle sette tra le popolazioni più umili.

Alla Vergine Maria, che veglia su Bahia con il titolo di “Conceiçao da Praia”, su Pernambuco con l’invocazione di Nostra Signora del Carmine, su Paraíba col nome di Vergine delle Nevi, e con altri titoli sulle altre regioni, voglio raccomandare voi e il vostro ministero episcopale, le vostre preoccupazioni pastorali; i presbiteri, vostri fratelli nel sacerdozio e cooperatori nelle stanchezze e nelle gioie del pascolo; i religiosi e le religiose, elementi particolarmente importanti nella vita delle diocesi, i vari agenti pastorali; le famiglie che compongono le vostre Chiese, in particolar modo i giovani, tutti coloro che il Signore Gesù ha inviato come pastori.

Voglia la “Stella dell’evangelizzazione” (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 82) rifulgere all’orizzonte delle vostre fatiche pastorali, come Venere, segnale di nuova aurora e pegno di rinascente speranza per la missione dei pastori.

Ricordatemi a Dio, soprattutto durante l’Eucaristia. La benedizione apostolica che la benedizione apostolica che vi impartisco è il segnale e la promessa che anch’io prego per voi. 



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