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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PRESULI DELLA REGIONE NORD 2
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DEL BRASILE
IN VISITA «AD LIMINA APOSTOLORUM»

Sabato, 28 ottobre 1995

 

Carissimi Fratelli nell’Episcopato,

1. Con grande gioia vi ricevo oggi, Vescovi della Regione Nord-2 del Brasile, in questo incontro collegiale con il quale terminano, per quest’anno, le Visite “ad limina Apostolorum” dell’Episcopato brasiliano. Desidero porgere il mio ringraziamento all’Arcivescovo Vicente Joaquim Zico per il saluto che mi ha appena rivolto a nome degli altri Fratelli Vescovi della Regione, facendosi portavoce di tutti voi e dei fedeli delle vostre diocesi.

Voi guidate le Chiese presenti negli Stati del Pará e dell’Amapá che hanno in comune una fisionomia economico-sociale e una realtà pastorale sottoposte a costanti sfide, viste le distanze tra una comunità e l’altra e gli innumerevoli problemi che dovete affrontare: un annuncio della Parola di Dio che implichi una realtà sacramentale viva e operante, l’organizzazione della vita diocesana nei suoi molteplici aspetti strutturali e assistenziali, il far germinare “i semi del Verbo” nelle diverse culture di questo popolo assetato di Dio – inclusi gli indigeni – che anela a nuovi orizzonti di pace, di giustizia e di benessere. Il mio pensiero si volge ora a queste Chiese, ai vostri sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli laici. È per loro che il Signore vi ha costituito “veri e autentici maestri della fede” (Christus Dominus, 2).

In questo momento di intensa comunione spirituale vorrei esprimervi la mia gratitudine per l’instancabile lavoro pastorale che svolgete nelle vostre Chiese e allo stesso tempo a favore della Chiesa universale. Il Successore dell’Apostolo Pietro in questa occasione privilegiata delle visita “ad limina” desidera confortarvi nella fatica che comporta il ministero episcopale, compiendo così il mandato del Sommo Pastore.

2. Il Concilio Vaticano II, riprendendo tutta una luminosa tradizione, decise “di professare e di dichiarare pubblicamente la dottrina sui Vescovi, successori degli Apostoli, i quali col successore di Pietro, Vicario di Cristo e Capo visibile di tutta la Chiesa, reggono la casa del Dio vivente” (Lumen Gentium, 18).

La natura dei Vescovi è di essere “successori degli Apostoli” (Lumen Gentium, 20), partecipi della “pienezza del Sacramento dell’Ordine” (Lumen Gentium, 21) e membri del “corpo episcopale in virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con i membri” (Lumen Gentium, 22).

La figura del Vescovo è definita dalla triplice funzione che svolge all’interno della sua comunità, ossia quella d’insegnare, di santificare e di governare (cf. Lumen Gentium, 25-27). Questa trilogia dà forma alla sua missione per far sì che egli garantisca di fatto l’attuazione piena nella sua comunità della persona di Cristo. Questo enorme compito si realizza per mezzo dell’azione magisteriale e profetica nell’annuncio del Vangelo, dell’azione sacerdotale nella celebrazione dei sacramenti e dell’azione pastorale, mettendo la propria vita al servizio degli uomini.

Ciò che Cristo è stato per tutti gli uomini è il Vescovo per il Popolo della sua diocesi, includendo fedeli e non fedeli. Per mezzo dello Spirito, i Vescovi sono la presenza viva e attuale di Gesù, “Pastore e guardiano delle vostre anime” (1 Pt 2, 25). Sono Vicari della persona di Cristo (cf. Lumen Gentium, 27) e non solo della sua parola.

Essi costituiscono il fenomeno visibile che il Signore utilizza per poter continuare nel tempo. I primi Dodici che egli chiamò a sé andando lungo il mare della Galilea e che poi inviò a predicare il Regno istituendoli come collegio stabile, erano il volto umano del Signore che s’irradiava nelle città e nei villaggi della Palestina e che, dopo la Pentecoste, iniziò a diffondersi nel mondo intero “affinché, partecipi della sua podestà, rendessero tutti i popoli suoi discepoli” (Lumen Gentium, 19).

L’autorità dei Vescovi, vissuta “cum Petro e sub Petro” (Ad Gentes, 38), ha il fine di dare continuità nel tempo al volto del Signore, che è costituito da tutta la Chiesa, vegliando in particolare affinché non vengano alterati i suoi tratti essenziali e le sue fattezze specifiche che lo rendono unico tra tutti i volti della terra.

Carissimi Fratelli, che grande compito ci è stato affidato! Tuttavia sappiamo bene che il Signore ci invia lo Spirito Consolatore, assicurandoci della sua costante protezione (cf. Mt 28, 20) per poter essere suoi testimoni fino ai confini della terra e aiutandovi a discernere il volto di Cristo nella delicata e difficile situazione nella quale si trovano in particolare le diocesi di cui siete Pastori. In questo lavoro di discernimento sono di grande aiuto le Conclusioni della IV Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano di Santo Domingo che riprendono quelle delle precedenti Conferenze di Rio de Janeiro, di Medellín e di Puebla.

Conoscendo bene la dedizione e lo zelo apostolico che avete dimostrato nell’esercizio del ministero pastorale, in modo particolare nelle avverse condizioni delle immense regioni di cui dovete abitualmente occuparvi, la vostra autorità si configura come un autentico servizio che risponde al mandato di Cristo di governare la sua famiglia. Questo compito pastorale, realizzato in nome di Cristo “è proprio, ordinario e immediato, quantunque il suo esercizio sia in definitiva regolato dalla suprema autorità” (Lumen Gentium, 27). Il Vescovo è il principio e il fondamento visibile dell’unità nella Chiesa particolare affidata al suo ministero pastorale (cf. Lumen Gentium, 23), tuttavia, perché ogni Chiesa particolare sia pienamente Chiesa, deve essere presente in essa, come elemento proprio, la suprema autorità della Chiesa: il Collegio episcopale “insieme con il Romano Pontefice, successore di Pietro, quale suo Capo (Lumen Gentium, 22)” (cf. Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come Comunione, AAS 85 [1993] 846).

Corollario di questa verità fondamentale è la piena e totale autorità del Pastore in ogni diocesi, che non può essere confusa con l’influenza del gregge nella direzione della vita ecclesiale. Non si possono ammettere concezioni unilaterali che, sotto influssi teologici diversi, difenderebbero la tesi secondo la quale un’assemblea, che riunita in nome di Cristo diventa comunità, “porterebbe in sé i poteri della Chiesa, anche quello relativo all’Eucaristia; la Chiesa, come alcuni dicono, nascerebbe «dal basso»” (Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come Comunione, AAS 85 [1993] 844 s.).

Come comprenderete, non mi riferisco al già riconosciuto e opportuno contributo delle Comunità Ecclesiali alla vita di ogni diocesi o parrocchia; il loro dinamismo sta di fatto acquisendo sempre più il valore di un’autentica comunione ecclesiale per risvegliare l’impulso missionario (cf. Christifideles Laici, 27) ad gentes. Si tratta di ripetere nuovamente che “l’unicità e l’indivisibilità del Corpo eucaristico del Signore implica l’unicità del suo Corpo mistico, che è la Chiesa una e indivisibile” (Lettera cit. AAS 85 [1993] 844 s.). Nella persona del Vescovo, assistito dai presbiteri, è presente in mezzo ai fedeli, mediante una speciale effusione dello Spirito Santo, Gesù Cristo; solo ai Vescovi, attraverso la consacrazione episcopale, sono stati conferiti i poteri di santificare, d’insegnare e di governare, purché vengano esercitati in comunione gerarchica con il Sommo Pontefice e con i membri del Collegio Episcopale (cf. Lumen Gentium, 21).

Riempitevi di santo orgoglio, cari Fratelli nell’Episcopato, perché, per svolgere funzioni tanto elevate, siete stati investiti dall’Alto e rappresentate in modo eminente e cospicuo Cristo stesso, Maestro, Pastore e Pontefice. Svolgete questa funzione con umiltà e mansuetudine, ma non esitate ad affermare coraggiosamente la vostra autorità per esortare i fedeli sia al lavoro apostolico e missionario sia all’osservanza del Magistero della Chiesa divinamente rivelato.

3. “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20).

Un incontro tra Pastori, in particolare un incontro preparato con attenzione e con pieno e totale interesse per la Chiesa, non deve smettere di essere questa presenza quasi palpabile del Maestro tra di noi. Non posso non dire quanto mi rallegra e mi conforta vedere e conoscere lo sforzo che compite per raggiungere l’unità e la comunione in seno a tutta la Chiesa, in particolare nell’ampia Conferenza Episcopale della quale siete membri, con l’unico obiettivo di possedere gli stessi sentimenti presenti in Gesù Cristo (cf. Fil 2, 5). Come faccio sempre, desidero ora rivolgermi a tutti per rafforzare, alla luce del Signore, questi vincoli di unità e di carità che regnano tra i membri della CNBB.

Tutti conosciamo l’importanza fondamentale della testimonianza che i Vescovi devono dare di reciproca unione e di collaborazione, di amore fraterno e di effettiva solidarietà. Questa testimonianza è parimenti imprescindibile per l’efficacia del loro lavoro pastorale.

Alla comunione dei sentimenti e degli affetti deve corrispondere una comunione effettiva che affronti coraggiosamente i problemi che possono sorgere nella vita ecclesiale, le tentazioni ed eventualmente le deviazioni per conseguire quella unità di direttive e di orientamenti che porta le Chiese particolari a vivere sempre più la loro fedeltà all’insegnamento di Cristo, in comunione piena con tutta la Chiesa universale.

L’ordine episcopale è, per sua natura, di indole collegiale; pertanto, sebbene abbia piena giurisdizione solo nella sua diocesi, ogni Vescovo nutre una viva sollecitudine per la Chiesa universale. Questa dimensione di collegialità si manifesta in vari modi, uno dei quali è costituito dalla Conferenza dei Vescovi. Questa è un’espressione istituzionalizzata non della collegialità in senso stretto ma dell’affectus collegialis (Lumen Gentium, 23), ossia del sentimento di unione con il Romano Pontefice e tra di loro che i Vescovi diocesani devono nutrire nello svolgimento del proprio compito.

Pertanto, come afferma il Concilio Vaticano II, la Conferenza dei Vescovi ha il fine d’incrementare il “bene, che la Chiesa offre agli uomini, specialmente per mezzo di quelle forme e quei metodi di apostolato, che sono appropriati alle circostanze dei nostri giorni” (Christus Dominus, 38). L’affetto collegiale si traduce in un’azione pastorale d’insieme, soprattutto di fronte alle sfide comuni che devono affrontare le varie diocesi dei territori dove vivete. Si tratta di un rapporto fraterno che, in qualche modo, si sostituisce o invade la giurisdizione propria di ogni Vescovo, ma che favorisce la sintonia nella sollecitudine pastorale del Popolo di Dio.

Ciò si manifesta chiaramente quando sia il Vescovo sia la Conferenza Episcopale seguono nelle loro decisioni un’autorità superiore, ossia l’autorità del Romano Pontefice e della Santa Sede. Ogni situazione ha delle caratteristiche proprie che ciascun Vescovo e ciascuna Conferenza devono affrontare con lo stile e la sensibilità che gli sono propri; tuttavia il criterio ultimo, soprattutto di fronte a nuovi problemi come, ad esempio, l’inculturazione, sono sempre “la sintonia con le esigenze obiettive della fede e l’apertura alla comunione con la Chiesa universale”. Per questo vi dissi al termine del Congresso Eucaristico a Natal: “Alla luce di questa verità, è evidente che l’unità nelle cose necessarie è il presupposto indispensabile perché sia legittima la libertà, ed è anche condizione per cui l’unione tra i membri della Conferenza Episcopale costituisce espressione della carità” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIV/2 [1991] 833).

4. Questi criteri aiutano anche a risolvere il problema proprio di ogni Chiesa particolare e della Chiesa universale: quello della centralizzazione e della decentralizzazione. Esiste un patrimonio obiettivo che la Chiesa riceve dal Signore per mezzo della Rivelazione, del quale non è proprietaria ma al quale obbedisce. Questo patrimonio caratterizza la “Catholica”, l’unica Chiesa presente in tutto il mondo; questo centro non è di tipo sociologico, politico o amministrativo, ma dogmatico e corrisponde quindi al contenuto della fede. Questo contenuto e questo centro vivono nel mondo intero, coesistendo nelle varie situazioni e affrontando in modo originale le varie sfide che le circostanze storiche pongono. Non avrebbe senso pertanto parlare di “vaticanizzazione”, o di “romanizzazione” della Chiesa diffusa in tutto il mondo; romanizzarsi non significa “vaticanizzarsi”, ma promuovere da Roma l’autentico carattere universale della Chiesa. In questo senso è pienamente legittimo l’adattamento dell’unica e identica esperienza alle diverse circostanze locali, assumendo il volto dei popoli dove la Chiesa vive e, allo stesso tempo, cercando di trasfigurare questo volto alla luce dell’annuncio di Cristo, ma senza mai perdere di vista l’universalità della Chiesa della quale Roma è garante.

5. Sulla scia di queste osservazioni, vi è un’ulteriore considerazione che vorrei fare in questo nostro incontro fraterno: si tratta del recupero del valore della legge canonica nella vita pastorale della Diocesi.

In realtà la legge canonica è un atto della “potestas legislativa” della Chiesa che ha come sua legge suprema la “salus animarum” (CIC, can. 1752). L’obiettivo della “magna disciplina” della Chiesa è il bene delle persone e della comunità ecclesiale. Tutti i canoni e le leggi della Chiesa hanno sempre una funzione pastorale per la diffusione del Regno di Dio e per l’edificazione del Corpo di Cristo. Lungi dal voler sostituire il primato della grazia, dell’amore e dei carismi nella vita dei fedeli, la legge canonica tende a creare nella società ecclesiastica quell’ordine che rende possibile un maggiore sviluppo sia delle persone sia della comunità nel suo insieme. Pertanto la disciplina ecclesiastica, che nasce dall’attuale Codice di Diritto Canonico, che ebbi la gioia di promulgare nel 1983, è la traduzione, in un linguaggio canonico, della dottrina del Concilio Vaticano II.

Per questo i Pastori devono vegliare affinché i presbiteri e il Popolo di Dio non trascurino le leggi ecclesiastiche considerandole inutili, estrinseche alla vita della fede o semplicemente repressive. Su tale punto, anche nella vita della Chiesa si paga il prezzo della mentalità attuale che tende a considerare contrario alla libertà e all’autonomia umana qualsiasi tipo di norma. “Non si tratta evidentemente – come ho già avuto occasione di dire – di adattare la norma divina o addirittura di piegarla al capriccio dell’uomo, poiché ciò significherebbe la negazione stessa di quella e la degradazione di questo: si tratta piuttosto di comprendere l’uomo di oggi, di metterlo a giusto confronto con le inderogabili esigenze della legge divina” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XV/1 [1991] 138). In realtà già nel Nuovo Testamento e anche negli scritti paolini si sottolinea l’importanza della disciplina per la pratica del messaggio evangelico. L’unica legge dell’“uomo nuovo” (Ef 4, 24), che è la carità, ha come caratteristica la sequela del mandato di Cristo e della Chiesa in tutti i suoi aspetti.

D’altro canto, in questo impegnativo sforzo di confronto, mediante il quale l’ordinamento canonico cerca di esprimere in modo visibile l’anima interiore della società, allo stesso tempo esteriore ma sempre misticamente soprannaturale che è la Chiesa, “tale testo... cesserebbe di essere lo strumento che deve essere nel compito salvifico della Chiesa, se coloro a cui spetta non ne curassero con diligenza l’applicazione” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XV/1 [1991] 138). Tale applicazione esigerà sempre sia la corretta interpretazione del testo promulgato sia il bene spirituale delle anime. Le materie relazionate, ad esempio, con l’ammissione di candidati al sacerdozio, la considerazione degli errori, previsti dalla legislazione canonica, che possono invalidare il consenso matrimoniale, la corretta applicazione delle norme liturgiche in conformità al Rito Romano – o Orientale, a seconda del caso –, la facoltà di amministrare collettivamente il Sacramento della Penitenza in determinate e ben precise circostanze, per non citarne altre, richiedono una riflessione da parte vostra “graviter et onerata conscientia”, in quanto esprimono ragioni di giustizia e di carità verso il Popolo fedele. Per questo, cari Fratelli nell’Episcopato, confermate i sacerdoti e tutto il Popolo di Dio in questo cammino di sequela, libero e pieno di gioia, della legge del Signore, affinché Cristo sia amato in ogni cosa e al di sopra di ogni cosa.

Richiamo la vostra attenzione anche sulla questione della preparazione canonica dei futuri sacerdoti. Per un lungo periodo l’antico testo legislativo, il Codice pio-benedettino, ha subìto continue trasformazioni, a causa dell’applicazione delle direttive conciliari. Questo fatto può aver ostacolato lo studio del Diritto Canonico. Con la promulgazione dell’attuale Codice, l’iter seminaristico deve introdurre, nel suo curriculum, uno spazio sufficiente per far sì che il candidato al Sacerdozio familiarizzi con lo spirito dell’attuale normativa, ma anche con la sua conoscenza concreta e con la sua applicazione pratica. È necessario preoccuparsi della preparazione di buoni professori, in sintonia con la mente pastorale, e allo stesso tempo giuridica, del nostro Codice. È necessario rivedere i contenuti e i tempi dedicati al Diritto Canonico nel curriculum scolastico.

Vorrei dire ancora una parola sui Tribunali Ecclesiastici che nel vostro Paese hanno assunto una dimensione regionale. Essi sono il valido strumento dell’attività giudiziaria propria del Vescovo che li presiede per mezzo del suo Vicario Giudiziale. Come non vedere nella sua attività un’importante dimensione pastorale? Senza nulla perdere del rigore scientifico e dell’applicazione fedele della norma e dei procedimenti giudiziari, i Tribunali sono chiamati a dedicarsi a vari campi della Chiesa, dalle questioni matrimoniali ai gravi problemi penali o disciplinari, come espressione della Giustizia, in difesa dei reali diritti dei cristiani o della stessa istituzione ecclesiale. È importante e necessario che i Vescovi seguano con attenzione e interesse quelli che, a nome loro e per loro autorità, esercitano il servizio della Giustizia, dando loro la possibilità di ricevere una formazione adeguata, vegliando sulla corretta esecuzione del loro compito, e fornendo i mezzi opportuni perché possano agire con la dovuta rapidità.

6. Di fronte all’immensità della missione che vi è stata affidata, non vi lasciate mai vincere dalla stanchezza o dallo scoraggiamento. Il Risorto cammina con voi e rende fecondi tutti i vostri sforzi. Si tratta di proseguire un’opera già iniziata, il cui artefice principale è il Signore; si tratta di offrire, con umiltà e disponibilità totale, il proprio contributo quotidiano, affinché “venga il Regno” di Dio e “sia fatta” la sua volontà. In questo momento il mio pensiero si volge a tutti i brasiliani e in modo particolare ai vostri sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, ai membri delle istituzioni e dei movimenti laici e a tutti i fedeli. A tutti dico con le parole dell’Apostolo Paolo: “attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza” (Ef 6, 10). Non scoraggiatevi; al contrario, nel vostro lavoro e nella vostra testimonianza, con piena fiducia nella grazia di Dio, rendete Cristo presente in tutte le circostanze della vostra vita. È questo il mio desiderio: “E lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene” (2 Ts 2, 16-17).

Amatissimi Fratelli, nel fare ritorno alle vostre Diocesi, sappiate che vi accompagna la mia più viva riconoscenza per il vostro compito, il mio affetto, la mia preghiera costante e la Benedizione Apostolica che vi imparto di cuore. A Maria, Madre del Redentore, che con il nome di Aparecida invocate come Patrona dei brasiliani, affido con fervore le vostre persone, le vostre Chiese particolari e tutta la vostra Nazione.

 

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