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DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO PP. XII
ALLA UNIONE DEI GIURISTI CATTOLICI ITALIANI*

Domenica, 5 febbraio 1955

 

Resta ora da parlare dell'ultimo tratto della via che volevamo mostrarvi, vale a dire del ritorno dallo stato di colpa e di pena a quello della liberazione.

La liberazione dalla colpa e la liberazione dalla pena non s'identificano necessariamente, nè quanto al concetto nè quanto alla realtà. Prescindendo dal fatto che dinanzi a Dio la remissione della pena eterna è sempre congiunta con la remissione della colpa grave, - si può avere una estinzione della colpa, senza che ne consegua una estinzione della pena. E viceversa, la pena può essere stata espiata, senza che nell'intimo del colpevole la colpa abbia cessato di esistere.

Ora il ritorno nell'ordine giuridico ed etico consiste essenzialmente nella liberazione dalla colpa, e non dalla pena.

I. - LA LIBERAZIONE DALLA COLPA

Nella esposizione del primo tratto di quella via (cfr. Osservatore Romano, 6-7 Dicembre 1954), mostrammo quale fosse il carattere interno ed esterno dell'atto colpevole, cioè relativamente sia all'autore stesso, come nei suoi rapporti verso la superiore autorità, in conclusione però sempre verso quella di Dio stesso, di cui la maestà, la giustizia, la santità, sono in ogni atto colpevole trascurate ed offese.

In che cosa consiste la liberazione dalla colpa . . .

La liberazione dalla colpa deve dunque reintegrare i rapporti turbati con l'atto colpevole. Se si tratta di un semplice debito reale, che cioè concerne prestazioni puramente materiali, esso può essere pienamente estinto con la sola prestazione dovuta, senza che sia necessario un qualsiasi personale contatto con l'altra parte. Se invece è questione di una offesa personale (o sola od anche congiunta con un debito reale), allora il reo è tenuto verso la persona del creditore da un obbligo in senso stretto, dal quale deve essere sciolto. E poiché, come già dicemmo, quest'obbligo ha un aspetto psicologico, giuridico, morale e religioso, tale ha da essere anche la sua liberazione.

La colpa tuttavia, nel suo elemento interiore, importa nel reo anche una schiavitù ed un incatenamento di sè stesso all'oggetto a cui egli si è dato nel compimento dell'atto colpevole, vale a dire in sostanza verso uno pseudo-Io, di cui le tendenze, gl'impulsi ed i fini costituiscono nell'uomo una caricatura del genuino Io, voluto dal Creatore e dalla natura soltanto per il vero ed il buono, e contraddice a quelle norme della retta via, secondo le quali l'uomo, fatto ad immagine di Dio, deve operare e formarsi. Anche da questa schiavitù ha da effettuarsi una liberazione psicologica, giuridica, morale e religiosa.

Nel diritto umano si può parlare di una qualche liberazione dalla colpa, quando la pubblica Autorità non procede più contro l'atto colpevole; così per esempio, anche senza riguardo alle presenti interne disposizioni del reo, per positiva remissione della colpa da parte dell'autorità, o per essere spirato il termine fissato dalla legge, entro il quale soltanto l'autorità medesima sotto certe condizioni intende di portare dinanzi al suo tribunale e giudicare l'avvenuta violazione del diritto. Tuttavia questo modo non costituisce una conversione interiore, una metánoia, una liberazione dell'Io, dalla sua intima schiavitù, dalla sua volontà del male e della illegalità. Ora soltanto su questa liberazione dalla colpa in senso proprio, su questa metánoia (= mutazione di sentimento), vorremmo qui attirare l'attenzione. ...psicologicamente, Psicologicamente considerata la liberazione dalla colpa è l'abbandono e la ritrattazione del perverso volere liberamente e coscientemente posto dall'Io nell'atto colpevole e il rinnovato proposito del volere il retto e buono. Questo mutamento di volontà presuppone un ritorno in sè stesso, quindi una comprensione del male e della colpevolezza nella già presa risoluzione contro il bene riconosciuto come obbligante. A tale comprensione si unisce la riprovazione del mal fatto, il pentimento come voluto dolore, voluta tristezza dell'anima per il male compiuto, perchè cattivo, contrario alle norme e in conclusione contrario a Dio. In questa intima kátarsis si compie anche ed è contenuto l'allontanamento dal falso bene a cui l'uomo si era volto con l'atto colpevole. Il reo torna a sottomettersi all'ordine del giusto e retto, nella ubbidienza verso il suo autore e tutore, contro il quale si era ribellato.

Ciò conduce psicologicamente all'ultimo passo. Poichè il fatto colpevole — come già si disse — non è la offesa di una norma astratta del diritto, ma in sostanza una posizione contro la persona dell'autorità obbligante o proibente, la compiuta conversione spinge per necessità psicologica, in una o altra forma, verso la persona della lesa autorità, con la esplicita o implicita confessione compunta della colpa e con l'intima implorazione della remissione e del perdono. La stessa Sacra Scrittura ci dà brevi e classiche forme di un tale pentimento : come le parole del pubblicano al tempio « Deus propitius esto mihi peccatori »: Dio, perdona a me peccatore (Luc. 18, 13), o quelle del figliuol prodigo « Pater, peccavi »: Padre, ho peccato (Luc. 15, 21).

Ciò nondimento, considerata sotto l'aspetto puramente psicologico, la perversa volontà espressa nell'atto colpevole può aver fine in altra forma, senza addivenire ad una liberazione dalla colpa. Il reo non pensa più al suo atto, nè lo ha ritrattato; esso ha semplicemente cessato di pesare sulla sua coscienza. Ora però deve esser detto ben chiaramente che un tale processo psicologico non costituisce una liberazione dalla colpa, come l'addormentarsi la sera non procura né significa l'allontanamento e anche meno la soppressione del male commesso durante il giorno. Oggi forse alcuni diranno che la colpa è stata sommersa nel subcosciente o nell'incosciente. Ma essa è ancor là.

Nè si otterrebbe un miglior risultato col tentar di sopprimere la consapevolezza psicologica della colpa mediante una autosuggestione o una suggestione esterna, ovvero per mezzo della psicoterapia clinica, della psicoanalisi. Una reale e libera volontà colpevole non può essere psicologicamente corretta o soppressa con l'insinuare la persuasione che essa non è mai stata. Noi abbiamo indicato le deplorevoli conseguenze di un simile trattamento della questione della colpa nel discorso indirizzato ai partecipanti al V Congresso Internazionale di Psicoterapia e di Psicologia clinica il 15 Aprile 1953 (cfr. Discorsi e Radiomessaggi vol. XV pag. 67 e segg.).

Una ultima osservazione è ancora da aggiungere sulla liberazione psicologica dalla colpa. Un singolo, pienamente consapevole e libero atto può contenere tutti gli elementi psichici della vera conversione; ma la sua profondità, fermezza, estensione può presentare manchevolezze, se non essenziali, almeno considerevoli. Una profonda, estesa, durevole liberazione dalla colpa è spesso un processo lungo, che solo gradualmente si matura, specialmente se l'atto colpevole è stato il frutto di una disposizione abituale della volontà. La psicologia delle recidive offre su ciò un più che sufficiente materiale di prove, e i sostenitori della funzione purificatrice, educativa e fortificante di una alquanto lunga prigionia trovano in queste esperienze una conferma della loro teoria.

 . . .giuridicamente,

La liberazione giuridica dalla colpa, a differenza della conversione psicologica che si compie principalmente nell'intimo della volontà del reo, s'indirizza essenzialmente all'autorità superiore, le cui esigenze per l'osservanza delle norme stabilite furono trascurate o violate. - Violazioni private del diritto, se sono avvenute in buona fede o altrimenti non pregiudicano il bene comune, vengono risolte in via privata tra le parti o mediante azione civile, nè formano ordinariamente oggetto del diritto penale.

Nell'analisi dell'atto colpevole dicemmo già che esso costituisce il ritiro e la negazione della dovuta subordinazione, del dovuto servizio, della dovuta dedizione, del dovuto rispetto ed omaggio; che esso obiettivamente è una offesa all'altezza e alla maestà della legge, o meglio del suo autore, tutore, giudice e vindice. Le esigenze della giustizia, e quindi la liberazione giuridica dalla colpa, richiedono che si dia tanta parte al servizio, alla subordinazione, alla dedizione, all'omaggio e all'onore verso l'autorità, quanta col delitto le era stata negata.

Questa soddisfazione può essere compiuta liberamente; può anche, nella sofferenza per la pena inflitta, essere fino ad un certo grado forzata; può essere al tempo stesso forzata e libera. L'odierno diritto degli Stati non dà molta importanza alla libera riparazione. Esso si contenta di piegare mediante la sofferenza della pena la volontà del colpevole sotto il forte volere della potestà pubblica e di rieducarlo in tal guisa al lavoro, alle relazioni sociali, all'agire rettamente. Che questo modo di procedere possa condurre, in virtù delle immanenti leggi psicologiche, ad un interiore raddrizzamento, e con ciò ad una intima liberazione dalla colpa, non è il caso di contestarlo. Che però ciò debba avvenire o regolarmente avvenga, avrebbe ancora bisogno di essere dimostrato. Ad ogni modo, il non prendere, per principio, in considerazione la volontà del reo di dare soddisfazione in ciò. che il sano senso giuridico e la violata giustizia richiedono, è' una mancanza e una lacuna, a colmare la quale vivamente esorta l'interesse della dottrina e della fedeltà ai principi fondamentali del diritto penale.

Tuttavia la liberazione giuridica dalla colpa comprende non solo la volontà di compiere la dovuta prestazione, ma anche il fatto della prestazione medesima. Qui la scienza e la vita concreta si trovano dinanzi alla spesso difficile questione: che cosa deve accadere nel caso d'incapacità morale o fisica di compiere tale prestazione? si deve ricorrere a un qualche compenso o surrogato, ovvero le esigenze del violato diritto debbono essere lasciate senza riparazione? - Si è già accennato che l'uomo è bensì in grado, mediante un atto colpevole commesso con piena responsabilità, di offendere o di distruggere alcuni beni ed obblighi giuridici, ma sovente non è poi, dopo il fatto compiuto, più in condizione di prestare un'adeguata soddisfazione; così in caso di assassinio, di privazione della vista, di mutilazione, di pieno violentamento sessuale, di adulterio, di definitiva distruzione del buon nome, di scatenamento di una guerra ingiusta, di tradimento d'importanti e vitali segreti di Stato, di alcune forme di lesa maestà, e di altri simili delitti. Il metodo del taglione verrebbe a cagionare al reo un male proporzionato; però, con ciò soltanto, a colui che è stato immediatamente colpito nel suo diritto non sarebbe data riparazione nè restituito il suo. Ma, prescindendo dal fatto che non in tutti i casi si ha una tale impossibilità di adeguato risarcimento, è da notare che il giudizio sulla colpa non riguarda tanto il bene danneggiato dell'altra parte, ma principalmente la persona del reo e la sua malvagia volontà esercitata a proprio vantaggio. In opposizione ad essa è la prestazione fatta dal reo a proprio carico, dal suo essere, avere e potere, a profitto altrui, vale a dire in ogni caso del diritto leso, cioè della superiore autorità. Così la prestazione attiva, che in elude l'interna conversione della volontà, è per il reo, che a sue spese presta la soddisfazione cui è tenuto, il secondo dei due suindicati elementi costitutivi della liberazione dalla colpa. Altrimenti deve dirsi della prestazione puramente passiva, quando il colpevole si piega forzato alla sofferenza che essa importa. Questa soddisfazione puramente passiva, cui manca qualsiasi volontà libera e pentita, è priva dell'elemento essenziale della liberazione dalla colpa. Il colpevole rimane perciò tale.

Più volte abbiamo rilevato come ogni vero atto colpevole in materia grave è in ultima analisi una colpa dinanzi a Dio, che ha un assoluto, perchè divino, diritto alla ubbidienza e alla sottomissione, al servizio e alla lode, e che come autore, tutore, giudice e vindice dell'ordine giuridico fa conoscere al colpevole le sue esigenze con quella incondizionata assolutezza che è propria delle intime manifestazioni della coscienza. Nella colpevole risoluzione dell'Io l'uomo trascura Dio che così si rivela, lascia da parte il bene infinito, l'assoluta maestà, e si pone in tal guisa col fatto al di sopra di Dio. Ma se ora l'uomo pentito torna ad essere subordinato alla maestà di Dio, se egli in consapevole e piena dedizione del suo Io al sommo infinito bene si distacca dal suo atto colpevole fin nella sua intima radice, per essere di nuovo libero nel bene e nel suo Dio, si trova tuttavia nella impossibilità di riparare con le sue proprie forze (cioè dal suo essere, volere e potere) in modo proporzionato quello che col suo atto ha commesso dinanzi a Dio. Egli ha offeso e trascurato un bene assolutamente infinito, un diritto assolutamente illimitato, una assoluta maestà. Nella gravità della sua colpa interviene così questa assoluta infinità, mentre tutto ciò che l'uomo può offrire o attuare è essenzialmente, intensivamente ed estensivamente finito, ed anche in una riparazione duratura sino alla fine dei secoli non potrà in alcun momento pervenire alla eguaglianza — tantum quantum — tra la esigenza di Dio e la prestazione dell'uomo. - Dio ha colmato questo abisso; ha messo nelle mani dell'uomo finito un prezzo infinito; ha accettato come prestazione per l'uomo colpevole il riscatto operato da Cristo, sovrabbondante per la sua derivazione dalla unione ipostatica, perchè d'infinito valore in sottomissione, onore e glorificazione, e il quale, finchè durano i secoli, rimette all'uomo pentito la sua colpa dinanzi a Dio per i meriti di Gesù Cristo medesimo.

Né si dica che queste considerazioni teologiche e religiose giacciono al di fuori del campo e dell'interesse della scienza e della prassi giuridica. Senza dubbio una netta distinzione di competenze è a vantaggio stesso della vita e di una vera scienza; ma in questa autolimitazione non si deve giungere fino ad ignorare o a negare esplicitamente inseparabili connessioni, che per intrinseca necessità in ogni parte si manifestano. In ogni vera colpa — in qualsiasi campo materiale sia stata attuata — è insita ora una relazione con l'ultima istanza di ogni diritto e di ogni ordine. È una caratteristica o prerogativa del mondo del diritto che non vi sia nulla in esso che nella sua struttura fondamentale sia stato creato senza questa somma istanza, o che nella sua analisi, fino all'ultimo, possa essere reso intelligibile senza questa relazione trascendente. In ciò non vi è alcun abbassamento, ma piuttosto una elevazione del diritto e della scienza giuridica, per la quale la totale laicizzazione non è un arricchimento, ma un impoverimento. Gli antichi Romani, nonostante la differenza dei concetti, univano insieme ius ac fas, e non li concepivano senza una relazione con la divinità. Se poi la odierna psicologia delle profondità ha ragione, vi è nei dinamismi innati del subcosciente e dell'incosciente una tendenza che spinge verso il Trascendente e che fa gravitare l'essere dell'anima verso Dio. L'analisi del divenir colpevole e del liberarsi dalla colpa rivela la stessa tendenza verso il Trascendente; essa fa entrare in campo considerazioni e riguardi, di cui la scienza e la pratica del diritto penale non hanno bensì da trattare ex professo, ma dei quali dovrebbero avere una sufficiente cognizione, affinché altri possano renderli utilizzabili al fine della esecuzione della pena ed applicarli a vantaggio del colpevole.

. . .moralmente,

La liberazione morale dalla colpa coincide sostanzialmente nella più gran parte con quanto abbiamo già detto circa la liberazione psicologica e giuridica. Essa è la riprovazione e il ritiro dell'effettivo disprezzo e della violazione dell'ordine morale commessa con l'atto colpevole; è il consapevole e libero ritorno del reo pentito alla sottomissione e alla conformità con l'ordine etico e con le sue obbligatorie esigenze. In questi atti positivi sono compresi lo sforzo e l'offerta del colpevole per soddisfare le giuste richieste del violato diritto dell'ordine etico, o meglio del suo autore, Signore, tutore e vendicatore, ed apparisce la consapevole volontà e risoluzione di mantenersi fedele in avvenire ai precetti del bene. Nei suoi tratti essenziali dunque essa consiste in quella disposizione interiore che negli Esposti da voi presentati è indicata come lo scopo e il frutto del retto adempimento della pena, anche se qui è considerata e circoscritta sotto un angolo visuale alquanto diverso.

. . .religiosamente.

Infine, per liberazione religiosa dalla colpa s'intende la liberazione da quella intima colpa che grava e vincola la persona del reo dinanzi a Dio, vale a dire dinanzi alla suprema ed ultima istanza di ogni diritto e di ogni obbligo morale, che con la sua infinità copre e protegge la sua volontà e la sua legge, emanata, sia da lui immediatamente, sia mediatamente da una legittima istanza umana nell'ambito della sua competenza. Come poi l'uomo possa liberarsi od essere liberato da tale sua offesa contro Dio, è stato già sufficientemente spiegato nel secondo punto concernente il lato giuridico. Ma se al reo non è indicata questa ultima liberazione religiosa, o almeno non gliene è mostrata e spianata la via, non fosse altro che mediante una lunga e dura pena, allora all'« uomo » colpevole punito non si offre che poco, per non dire nulla, per quanto si parli di guarigione psichica, di rieducazione, di formazione sociale della persona, di emancipazione da traviamenti e da schiavitù verso sè stesso. Senza dubbio queste espressioni designano qualche cosa di buono e d'importante; ma con tutto ciò l'uomo rimane nella sua colpa dinanzi alla suprema istanza, da cui dipende il suo finale destino. Questa istanza può attendere e spesso attende lungamente, ma alla fine consegna il colpevole alla colpa, da cui non vuole desistere, e alle sue conseguenze. È tristissimo per un uomo di cui si deve dire: « bonum erat ei, si natus non fuisset homo ille » (Matth. 26, 24): Meglio sarebbe stato per lui non essere nato. Perciò, se alcuno o qualche cosa può contribuire a stornare un tanto male, anche se si tratta di diritto penale o della esecuzione di una legittima pena, nulla ha da essere tralasciato. Tanto più che Dio, durante questa vita, è sempre prontissimo alla riconciliazione. Egli stimola l'uomo a compiere internamente l'allontanamento psichico dal suo atto insano; gli offre di accoglierlo pentito nuovamente nella sua amicizia e nel suo amore. Possa un diritto penale umano nei suoi giudizi e nella loro esecuzione non dimenticare l'uomo nel colpevole e non omettere di aiutarlo e confortarlo per ritornare a Dio!

II. - LA LIBERAZIONE DALLA PENA

Il ritorno dallo stato di colpa e di pena comprende necessariamente la liberazione non solo dalla colpa, ma anche dalla pena; soltanto così si perviene a quella quasi « restitutio in integrum » nello stato iniziale, cioè di non colpevolezza, e quindi di nessuna pena.

La pena eterna nel diritto divino

Fatti e affermazioni recenti Ci suggeriscono qui una breve dichiarazione. Non ogni pena incorsa porta in sè una sua remissione. La rivelazione e il magistero della Chiesa stabiliscono fermamente che, dopo il termine della vita terrena, coloro che sono gravati da colpa grave subiranno dal supremo Signore un giudizio ed una esecuzione di pena, dalla quale non vi è alcuna liberazione o condono. Iddio potrebbe anche nell'al di là rimettere una simile pena; tutto dipende dalla sua libera volontà; ma Egli non l'ha mai accordata, nè mai l'accorderà. Se questo fatto si possa sicuramente dimostrare con la sola ragione naturale — alcuni l'asseriscono, altri lo mettono in dubbio —, non è qui il caso di discutere. Ma gli uni, come gli altri, portano nei loro argomenti ex ratione considerazioni le quali indicano che una tale disposizione di Dio non è contraria ad alcuno dei suoi attributi, non alla sua giustizia, non alla sua sapienza, non alla sua misericordia, non alla sua bontà; mostrano altresì come essa non è in opposizione neanche con la natura umana data dallo stesso Creatore, con la sua assoluta finalità metafisica rivolta a Dio, con l'impulso della volontà umana verso Dio, con la fisica libertà del volere, radicata e sempre permanente nella creatura umana. Tutte queste riflessioni lasciano forse nell'uomo, quando giudica affidandosi soltanto alla sua propria ragione, un'ultima questione, non già sulla possibilità, ma ancora sulla realtà di tale inflessibile sentenza del Giudice supremo. Non potrà quindi, destare troppa maraviglia, se un teologo di grande fama potè scrivere sul principio del secolo XVII: « Quatuor sunt mysteria nostrae sanctissimae fidei maxime diffìcilia creditu menti humanae: mysterium Trinitatis, Incarnationis, Eucharistiae et aeternitatis suppliciorum » (Lessius, De perfectionibus moribusque divinis, l. XIII cap. XXV). Ma, nonostante tutto ciò, il fatto della immutabilità e della eternità di quel giudizio di riprovazione e del suo adempimento è fuori di qualsiasi discussione. Le dispute, a cui ha dato luogo un libro recentemente pubblicato [Giovanni Papini, Il diavolo, Edit. Vallecchi, 1954] manifestano spesso una grave mancanza di cognizione della dottrina cattolica e partono da premesse false o falsamente intese. Nel caso presente il supremo legislatore, nell'uso del suo sommo e assoluto potere, ha fissato la non mai cessante validità del suo giudizio e della sua esecuzione. Dunque questa durata senza limite è diritto vigente.

Varie forme della cessazione della pena nel diritto umano

Ma ora torniamo nel campo del diritto umano, che è l'oggetto principale del presente discorso. Come abbiamo già notato, la liberazione dalla colpa e la liberazione dalla pena non sempre coincidono; la colpa può avere una fine e la pena continuare, e viceversa la colpa può rimanere e la pena terminare.

Le forme della cessazione della pena sono diverse. - È chiaro innanzi tutto che tale cessazione avviene automaticamente al momento in cui la pena inflitta è stata scontata, ovvero quando, essendo limitata ad un tempo determinato, questo è trascorso, oppure allorchè la sua continuazione (talvolta la stessa esecuzione) era legata ad una condizione risolutiva o sospensiva, e questa è stata sufficientemente adempiuta.

La remissione della pena

Un'altra forma è quella della remissione della pena, mediante un atto della competente superiore autorità. È la forma della grazia, dell'indulto o dell'amnistia, che nel campo religioso ha una qualche analogia nella indulgenza ». La facoltà di emanare tali atti di clemenza non spetta al giudice che ha emesso la sentenza di condanna, applicando al caso singolo la pena stabilita dal diritto. Essa compete per sè alla istanza che giudica e punisce in nome proprio e in virtù del proprio diritto. Perciò il diritto di condonare la pena vale ordinariamente nella vita dello Stato come riservato alla suprema autorità, la quale può esercitarlo per mezzo di una disposizione sia generale sia concernente un caso individuale.

Sotto il nome di remissione o condono non sono invece compresi alcuni favori o mitigazioni nella esecuzione, che lasciano immutata la sostanza della pena, ma che vengono concessi al reo per la sua buona condotta o per altri motivi. - Del resto, la remissione della pena in senso proprio si applica così alle « pene medicinali », come alle « pene vendicative », ove queste sono ammesse.

L'ultimo tratto del cammino dell'uomo attraverso la colpa e la pena conduce di nuovo in contatto col problema, già più volte menzionato, del fine massimo della pena, specialmente sul senso o, secondo altri, sul non-senso di una pena puramente vendicativa.

Pene medicinali e pene vendicative

Nel Nostro discorso del 3 ottobre 1953 al VI Congresso Internazionale di Diritto Penale (Discorsi e Radiomessaggi vol. XV pag. 352), ed anche nella presente occasione (Osservatore Romano 6-7 dicembre 1954), abbiamo rilevato il fatto che molti, forse la maggioranza dei giuristi civili, respingono quella pena; aggiungevamo però che alle considerazioni e agli argomenti addotti in prova si dava forse più grande importanza e forza di quel che essi hanno in realtà. Facevamo anche notare che la Chiesa in teoria e in pratica ha mantenuto la doppia specie di pene (medicinali e vendicative) e che ciò è più conforme a quanto le fonti della rivelazione e la dottrina tradizionale insegnano intorno al potere coercitivo della legittima autorità umana. Non si dà a questa asserzione una risposta sufficiente, osservando che le fonti anzidette contengono soltanto pensieri corrispondenti alle circostanze storiche e alla coltura del tempo, e che quindi non si può attribuire loro un valore generale e sempre durevole. Poichè le parole delle fonti e del magistero vivente non si riferiscono al contenuto concreto di singole prescrizioni giuridiche o regole di azione (cfr. specialmente Rom. 13, 4), ma al fondamento stesso essenziale della potestà penale e della sua immanente finalità. Questa poi è tanto poco determinata dalle condizioni del tempo e della coltura, come la natura dell'uomo e la società umana voluta dalla natura medesima. Ma, qualunque sia l'atteggiamento del diritto positivo umano su questo problema, per il Nostro presente scopo basta di mettere in chiaro che in una totale o parziale remissione della pena anche le pene vendicative (non meno che le medicinali) possono od anche debbono essere prese in considerazione.

Elemento esteriore . . .

Nell'applicazione del condono non può valere l'arbitrio. Come norma debbono servire il bene del reo, non meno che della comunità giuridica, la cui legge egli ha colpevolmente violata, e, al di sopra di ambedue, il rispetto, la eccellenza dell'ordine stabilito secondo il buono e il retto. Quella norma esige, tra l'altro, che, come in generale nelle relazioni degli uomini fra di loro, così anche nell'applicazione della potestà penale siano tenuti in conto non soltanto lo stretto diritto e la giustizia, ma anche l'equità, la bontà e la misericordia. Altrimenti si corre pericolo di trasformare il « summum ius » in « summa iniuria ». Precisamente questa riflessione inclina a stimare che, nelle pene medicinali come anche, entro certi limiti, nelle vendicative, una remissione della pena dovrebbe essere presa in considerazione, ogniqualvolta si è conseguita la morale certezza di essersi ottenuto lo scopo immanente della pena, vale a dire la vera conversione interna del condannato e una seria garanzia della sua durevolezza. Le disposizioni del diritto canonico in questa materia (cfr. can. 2248 §§ I e 2 e cann. 2242 § 3 del C. I. C.) potrebbero servire di modello. Esse richiedono, da un lato, la prova di fatto del cambiamento di sentimenti nel reo, e, dall'altro, non lasciano intervenire il condono automaticamente, ma lo fanno dipendere da un atto giuridico positivo della istanza a ciò autorizzata. Nello scritto da voi presentato si afferma che il diritto penale civile in questo punto fa apparire desiderabile un nuovo sviluppo e un più elastico adattamento alle giuste esigenze odierne. La proposta può essere buona, sebbene le condizioni nel diritto penale civile sotto vari aspetti si presentino diverse dal diritto penale ecclesiastico. Ad ogni modo, l'attuazione di una riforma sembra richiedere nuove chiarificazioni teoriche e ben solide esperienze pratiche.

 . . . ed elemento interiore della liberazione dalla pena.

Accanto al lato legale e tecnico della liberazione dalla pena, lo scritto medesimo menziona anche un altro influsso completamente diverso ma reale, che si esercita sul reo e che, essendo una più profonda, intima liberazione dalla pena, non può esser passato sotto silenzio. Naturalmente riesce meno gradito ai giuristi di professione in quanto tali, sebbene sia loro accettabile come « uomini » e « cristiani »; esso indica per sè un essenziale approfondimento, o, se si preferisce, una sublimazione e « cristianizzazione » di tutto il problema della esecuzione delle pene.

Esempio di condannati innocenti

La pena si presenta per natura sua come un male imposto all'uomo contro la sua volontà; porta quindi con sè uno spontaneo atteggiamento di difesa dell'uomo interiore. Egli si sente spogliato della libera disposizione su sè stesso e sottoposto ad un volere estraneo. Non di rado simili mali, ma da altre fonti, colpiscono l'uomo, oppure egli li prende di propria elezione. Non appena la spontanea opposizione contro la sofferenza viene abbandonata, svanisce o almeno resta essenzialmente diminuito il suo lato oppressivo ed umiliante, anche se rimane l'elemento sensitivo e doloroso, come già avemmo occasione di osservare nella seconda parte di questa Nostra esposizione. Sotto tale oppressione e sofferenza si trovano oggi molti e molti, benchè innocenti; soffrono fisicamente e moralmente nelle prigioni, negli ergastoli, nei campi di concentramento, nei luoghi di lavori forzati, nelle miniere, nelle cave di pietre, ove la passione politica o l'arbitrio di poteri totalitari li hanno relegati; soffrono tutte le miserie e tutti i dolori — e spesso anche più — che possono essere imposti secondo il diritto e la giustizia ai veri colpevoli. Coloro che senza colpa tanto male sopportano, non valgono bensì a sottrarsi esternamente alla pressione della forza, ma possono interiormente elevarsi al di sopra di tutto, sorretti forse già da motivi morali naturalmente buoni, ma più facilmente ed efficacemente da considerazioni religiose, dalla sicurezza che sempre e dappertutto dipendono dalla Provvidenza divina, che non si lascia togliere di mano nulla e nessuno, e che, oltre il breve tempo della vita terrena di ciascun uomo, dispone di una eternità e di una onnipotenza per riparare quanto si è ingiustamente patito, per rimettere in equilibrio ogni cosa sconvolta ed occulta, per infrangere e punire ogni umana tirannide. Agli occhi del cristiano è poi soprattutto presente il Signore, il quale nella sua Passione sperimentò tutta la profondità della sofferenza umana e ne assaporò l'amarezza, e in obbedienza al Padre, per amore di lui e in amorevole commiserazione verso gli uomini, prese sopra di sè volontariamente dolori e ignominie, la croce e la morte. Fortificati dall'esempio dell'Uomo-Dio, molti di quegli innocenti trovano nella loro sofferenza la libertà e la calma interiori, compiono una intima liberazione dal dolore pur nella permanente afflizione esteriore, nella via della fede, dell'amore e della grazia.

Amorevole opera di soccorso per i condannati colpevoli

Ora lo stesso scopo possono conseguire per la medesima via anche coloro che soffrono per loro colpa e si sentono schiavi della pena. Noi vorremmo ricordare ciò che, parlando della esecuzione della pena, esponemmo già circa le condizioni spirituali del condannato; occorre qui al presente considerare come si può e si deve venire in suo soccorso per giungere a un intimo superamento e quindi a una interiore liberazione dal male della pena. Con la fede, con l'amore, con la grazia è possibile di dare al suo spirito chiaroveggenza e lume, al suo animo contegno e calore, alla sua debolezza forza e sostegno. Senza dubbio il reo stesso potrebbe far maturare in sè e condurre a compimento tale elevazione; tuttavia abbandonati a loro medesimi, pochi potranno conseguirla. Essi hanno bisogno di ricevere da altri consiglio, aiuto, compassione, incoraggiamento e conforto. Ma chi si appresta a compìre tale opera, deve attingere dalla sua propria convinzione e dalle sue interiori ricchezze quel che vuol comunicare al colpevole; altrimenti la sua parola resterà un « aes sonans aut cymbalum tinniens » (1 Cor. 13, 1).

Noi abbiamo letto con profonda commozione quanto uno di voi, l'insigne Prof. Francesco Carnelutti, ha scritto sulle parole che il Signore pronunzierà alla fine dei tempi: «Ero in prigione e veniste a visitarmi... Quanto avete fatto ad uno dei più piccoli fra questi miei fratelli, l'avete fatto a me » (Matth. 25, 36. 40). Ciò che qui è proposto come ideale del dono di sè per la spirituale salvezza e purificazione del prigioniero, va anche al di là del precetto nuovo del Redentore « Amatevi l'un l'altro », che doveva essere la tessera, con la quale si riconoscerebbero i suoi discepoli (Io. 13, 34-35); si tratta infatti di avvicinarsi così al colpevole da vedere in esso, onorare ed amare il Signore, anzi di assimilare sè stesso talmente a lui da mettersi spiritualmente al posto dell'uomo in abito di detenuto e nella cella della sua prigione, come il Signore stesso dice di sè: Ero carcerato e veniste da me (Matth. 25, 36): tutto questo mondo interiore, questa luce e questa bontà di Cristo potranno dare al reo sostegno ed aiuto per uscire dalla servitù miserevole della pena e riconquistare la libertà e la pace interna.

Contributo della comunità alla liberazione

Ma inoltre le parole del Signore obbligano non soltanto coloro cui è affidata la immediata cura del condannato, ma anche la stessa comunità, della quale egli è e rimane membro. Questa dovrebbe addestrarsi ad essere disposta ad accogliere con amore colui che dalla prigione è messo in libertà; con un amore non cieco, ma chiaroveggente, al tempo stesso però sincero, soccorrevole, discreto, e tale da rendergli possibile il riadattamento alla vita sociale e il sentirsi di nuovo libero dalla colpa e dalla pena. Le esigenze di una tale disposizione non si basano sopra un utopico disconoscimento della realtà; come infatti è stato notato, non tutti i rei sono pronti e inclini a sopportare e sostenere il richiesto processo di purificazione, - e forse la percentuale di questi condannati non è piccola -; ma è pur vero che non pochi altri possono essere e sono aiutati a conseguire la intera liberazione interiore, e per essi specialmente nessuno sforzo cristiano sarà mai nè eccessivo nè troppo arduo. Possano le Nostre qualsiansi considerazioni contribuire con la ricchezza del pensiero cristiano ad illuminare il senso vero, moralmente e religiosamente purificato della pena, e con le effusioni della carità a spianare al condannato la via che deve condurlo all'agognata liberazione dalla colpa e dalla pena. Con tali sentimenti invochiamo da Dio su di voi, illustri Signori, e sull'alta e benemerita opera vostra i più eletti ed abbondanti favori celesti, mentre di cuore v'impartiamo la Nostra paterna Apostolica Benedizione.


*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XVI,
 Sedicesimo anno di Pontificato, 2 marzo 1954 - 1° marzo 1955, pp. 351 - 365
 Tipografia Poliglotta Vaticana

 



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