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CONVERSIONE E RINNOVAMENTO

Meditazione dettata dal Cardinale Giacomo Biffi,
Arcivescovo di Bologna 

Aula Paolo VI

8 febbraio 2000

Il Giubileo

Il Signore è instancabile e non si scoraggia mai, per quanto noi possiamo essere riottosi di fronte alle sue iniziative di salvezza. Con questo Giubileo ci prova un'altra volta. Ci prova un'altra volta a cambiarci di dentro e ad adeguarci meglio al suo Regno; quel Regno che è non solo un annuncio e una speranza: è anche una realtà che ci riguarda da vicino.

Poco o tanto, noi lo deludiamo sempre, ma lui non si stanca. Non desiste dall'incalzarci e dal sospingerci sulla sua strada, che è l'unica giusta. Adesso ci prova un'altra volta: questo mi pare il senso più semplice ed essenziale dell'Anno Santo che stiamo vivendo.

E non è il caso che abbiamo a disanimarci per i nostri passati insuccessi: se lui continua ad aspettare fiducioso che ci mettiamo finalmente a fare sul serio e a vivere non solo a parole secondo la novità del Vangelo, possiamo anche noi augurarci fiduciosamente che questa sia davvero la volta buona.

« Convertitevi »

« Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino » (Mt 4, 17). È la prima parola dell'annuncio evangelico, quella da cui tutto prende inizio. Anche alla fine della sua missione terrena, Gesù non si dimenticherà di indicare tra i compiti permanenti del ministero apostolico la predicazione nel suo nome della conversione e del perdono dei peccati, a tutte le genti (cfr Lc 24, 47).

Il giorno di Pentecoste, dal discorso appassionato del Principe degli apostoli gli ascoltatori « si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri Apostoli: “Che cosa dobbiamo fare fratelli?”. E Pietro disse: “Pentitevi” » (At 2, 37-38). Di qui ha preso inizio l'avventura ecclesiale. Tutto questo vale ancora per noi. Anche noi oggi dobbiamo chiederci: che cosa dobbiamo fare? La risposta è la stessa: pentiamoci, convertiamoci, rinnoviamoci.

Se non si comincia di qui, nella vita cristiana non si comincia affatto. Senza questa autocontestazione di partenza, ogni atteggiamento religioso sarebbe senza fondamento e riuscirebbe ingannevole. E non è solo un atteggiamento iniziale: il pentimento deve accompagnare tutto il nostro pellegrinaggio, dal battesimo all'ingresso nella vita eterna: è una dimensione essenziale e inalienabile dell'esistenza redenta.

La nostra meditazione si comporrà di due parti: nella prima ci porremo brevemente in ascolto di ciò che ci dice su questo argomento la parola di Dio; nella seconda proporremo, come ci verrà e quasi rapsodicamente, qualche semplice riflessione.

L'insegnamento della Rivelazione
Significato dei termini

Qual è il significato di queste parole: « conversione » o « pentimento » e « convertirsi » o «pentirsi»?

Nella lingua greca — la lingua nella quale ci è giunto il messaggio di Cristo — questi vocaboli (« metànoia » e « metanoèin ») indicavano e richiamavano una serie di atti interiori, quasi sfumature varie di un unico stato d'animo: accorgersi troppo tardi di ciò che era meglio fare (« dovevo pensarci prima »), giudicare diversamente, cambiare mentalità, mutare volontà o decisione, passare da un sentimento a un altro, provare dispiacere.

Sulle labbra di Gesù i termini penitenziali evocano un po' tutte queste accezioni. Ma — specialmente questo è da notare — egli si riallaccia apertamente, attraverso l'insegnamento di Giovanni il Battezzatore, a un tema che era già ben presente in tutta la predicazione profetica. Sicché è doveroso per noi andare a esplorare, sia pure sommariamente, quale sia il contenuto biblico del concetto.

Aspetto positivo

C'è in primo luogo un elemento positivo. La « metanoia » è un convertirsi a Dio, è un ritorno esistenziale a lui. Il pentimento è sempre dunque un movimento che include una meta trascendente.

Non si riduce mai a un dibattito dell'uomo con se stesso, non è circoscritto nell'ambito della coscienza soggettiva. Non è un puro rammarico per il proprio decadimento spirituale, non è unicamente il disagio e la pena di essere venuti meno alla propria dignità. Pentirsi significa istituire una relazione nuova con un « altro », un Altro, che è il Dio vivo e vero.

Anzi, è questo Altro ad avviare nell'uomo tale procedimento interiore: « Fammi ritornare e io ritornerò, perché tu sei il Signore mio Dio » (Ger 31, 18). D'altra parte, appunto questa personale determinazione della creatura consente la ripresa e costituisce l'inizio di una condizione di amicizia con il Creatore « Convertitevi a me — oracolo del Signore degli eserciti — e io mi rivolgerò a voi » (Zc 1, 3).

Come si vede, la sostanza della conversione sta nell'aderire con tutte le forze e con tutto l'essere al Dio d'Israele, appoggiandosi solo su di lui e non facendo nessun conto dei vari « idoli » e delle varie « alleanze » umane.

Aspetto negativo

Ovviamente nella « metanoia » c'è anche un aspetto negativo, immancabile e necessario: l'abbandono di ogni iniquità e la purificazione dello spirito da ciò che è incompatibile con la divina amicizia.

Più che altro implicito e supposto nei profeti più antichi, questo elemento è posto in grande risalto da Geremia e da Ezechiele: convertirsi vuol dire lasciare la « propria via malvagia » (come usa dire Geremia).

C'è perfino, per così dire, un contraccolpo grammaticale. Il verbo cambia il suo complemento abituale: accanto al primitivo « convertirsi a » compare « convertirsi da »; in Ezechiele quest'ultima è l'unica costruzione usata.

La dimensione negativa è la più vistosa e quella più agevolmente percepibile dall'esterno. Perciò finisce col diventare prevalente nella considerazione comune del pentimento. Oggettivamente però quella positiva — il ritorno a Dio — rimane la prima e fondamentale. Ed è anche quella che meglio spiega e chiarisce l'esigenza di una « conversione permanente », dal momento che a colui che è Santo non ci si avvicina mai abbastanza; e, finché si è pellegrini sulla terra, non ci si conforma mai a lui in modo esauriente e definitivo.

Gesti espressivi

Fermo restando il principio dell'essenziale natura interiore del ravvedimento, il discorso si completa col richiamo anche alla « praticità » e alla concretezza. Non ci si può accontentare dei puri sentimenti o delle dichiarazioni verbali: bisogna fare « frutti degni di conversione » (cfr Mt 3, 8), come si esprime san Giovanni Battista.

Oltre al positivo cambiamento della condotta, ci vogliono altresì dei gesti in più: ci vuole qualche espressione eccedente e gratuita che riveli anche all'esterno la volontà di rompere col passato. E possono essere tanto atti rituali, come il Battesimo e la Penitenza, quanto atti di riparazione e di espiazione (come le elargizioni preannunciate da Zaccheo).

Riflessioni
Impresa umanamente impossibile

È facile o difficile convertirsi? Credo che con buona plausibilità si possa dire addirittura che sia umanamente impossibile. Si tratta in effetti non solo di riconoscere gli errori del proprio comportamento esteriore (qualcuno talvolta riesce ad ammettere: « Ho sbagliato »), ma anche e soprattutto di confessare che ci sia qualcosa di condannabile entro la propria realtà più intima e più segreta. E questa è una specie di automutilazione, cui lo spirito difficilmente si rassegna.

Anche solo il dissociarsi da ciò che pur si ammette di aver compiuto, è qualcosa che per se stesso è troppo penoso e lacerante. Noi siamo insieme i padri e i figli delle nostre azioni: non solo esse sono derivate da noi, ma anche noi siamo per molti aspetti derivati da loro; la nostra attuale realtà è sotto qualche profilo la somma delle nostre anteriori volizioni e delle nostre operazioni pregresse. C'è dunque tra noi e loro una complicata e inestricabile connessione.

I nostri atti sono parte di noi: nella nostra carne, nel nostro sangue portiamo tutti i nostri passati comportamenti. Perciò è così arduo dichiararne, anche solo a noi stessi, l'intrinseca malizia e rinnegarli.

O, se si vuole, è facile che, dovendo rilevare per forza di cose la propria indegnità morale, si arrivi alla pura e infeconda disperazione; che non ha niente a che vedere col pentimento.

Motivazione trascendente

La differenza della « metànoia » evangelica dal semplice, sterile e sfiduciato avvilimento umano è data dalla diversa motivazione che il Signore Gesù assegna alla nostra necessità di trasformarci. Non dice. « Convertitevi, perché siete dei miserabili »; cosa indubbiamente vera, ma insufficiente a condurci a quel ravvedimento che è autenticamente salvifico. Dice: « Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino ». L'energia rinnovatrice scaturisce dalla certezza che esiste il Regno e dalla consapevolezza della sua imminenza.

Dall'avvenire (dal « Regno ») si desume la forza di mettere in discussione il proprio passato. La speranza di ciò che sarà ci mette in grado di rompere con ciò che è stato. Così il passato — quale che sia — non arriva a deprimerci e ad avvilirci irrecuperabilmente; e il presente, pur penoso, si rasserena e si apre alla letizia.

La spinta a trasformarci non nasce dunque dal basso ma dall'alto. La percezione di una realtà trascendente (il « Regno ») — cui siamo chiamati a partecipare — ci svela la nostra miseria, ci mette salutarmente in crisi, ci spinge a una specie di trasnaturazione che in sostanza è un desiderio, un tentativo, una decisione di assimilarci a ciò che sta sopra di noi.

Come si vede, quello che è impossibile all'uomo diventa possibile a Dio: il pentimento trova la sua origine nella vicinanza del « Regno »; vale a dire nella sorprendente efficacia della misericordia del Padre che ricomincia sempre a creare ed è sempre all'alba della sua giornata di lavoro.

La « metànoia » è una nuova creazione. Chi veramente si pente, emerge dalla vicenda angosciosa della propria autocontestazione come un essere nuovo. Ed è paragonabile a ciò che avviene a ogni nascita: un travaglio che alla fine va a dimenticarsi in un mare di gioia.

Difficoltà culturali e psicologiche

La cultura in cui siamo immersi indubbiamente non favorisce l'insorgere in noi di un autentico pentimento. E non già perché — come di solito si dice — non ci sia più il senso del peccato: il moltiplicarsi delle accuse e delle denunce, l'indignazione sempre più diffusa per le prevaricazioni e le disonestà che arriviamo a scoprire, la ricerca delle responsabilità storiche dei personaggi e delle istituzioni, ci dicono che oggi il senso del peccato è acutissimo. Ma è il senso del peccato « altrui »; un'attenzione che può anche essere legittima, ma che per la nostra conversione e il rinnovamento personale non serve.

Anche pregare in genere « per i peccatori » (o addirittura chiedere scusa per loro) è lodevole; ma c'è sempre il rischio di contrapporci e di estraniarci psicologicamente da una categoria nella quale abbiamo invece il dovere di annoverarci. È bene diffidare un po' da questi atteggiamenti troppo virtuosi. Sono innumerevoli le astuzie del nostro « uomo vecchio » per sottrarsi al fastidio del pentimento.

Siamo bravissimi a rammaricarci sinceramente delle colpe e degli errori degli altri e a dare sempre una benevola interpretazione delle nostre malefatte. Quando si tratta delle azioni nostre, sappiamo trovare i più opportuni travestimenti: le intransigenze impietose ci appaiono quasi fiori di coerenza e di fedeltà agli ideali, e viceversa i cedimenti e i compromessi sono messi in conto allo spirito di comprensione; la pigrizia è presentata come salvaguardia della prudenza e della discrezione, e invece la dissipazione, l'attivismo incontrollato, la fuga dalla contemplazione ricevono la qualifica di zelo instancabile e di amore operoso per i fratelli. E così via.

Tutto pur di evadere dal dovere tormentoso di metterci da noi stessi in discussione, di ribaltare i nostri interessi istintivi, di riordinare le nostre abitudini sviate. Chi pensa sinceramente ai casi suoi coll'intento di adeguarsi effettivamente ai voleri divini, compie una fatica non da poco.

La conversione, quando è reale, include un indolenzimento dell'anima, una ricerca di silenzio e di solitudine, una implorazione di pace. Di solito si perde anche la voglia di insegnare, di occuparsi degli altri, di contestare le loro opinioni, di giudicare la loro condotta.

Il pentimento vero è qualcosa che costa molto, perché vale molto al cospetto di Dio.

« Tamar è più giusta di me »

La « metànoia », quando non è meramente verbale o rituale, induce a non ritenere astratto o esagerato l'antico detto della Imitazione di Cristo: « Omnes fragiles sumus, sed tu neminem fragiliorem teipso tenebis » (I, 2, 4: « Tutti siamo fragili, ma tu non vorrai considerare nessuno più fragile di te »).

A questo proposito c'è una pagina straordinaria di sant'Ambrogio, dove il Vescovo di Milano commenta, applicandola a se stesso, la parola che nel racconto genesiaco Giuda riferisce a Tamar, la nuora così intraprendente e spregiudicata nell'ottenere ciò che, secondo lei, le era dovuto: « È più giusta di me » (Gen 38, 26). Può essere utile ai nostri fini ascoltare le considerazioni del santo Dottore.

« Ogni volta che si tratta del peccato di uno che è caduto, concedimi di provarne compassione e di non rimbrottarlo altezzosamente, ma di gemere e piangere, così che mentre piango su un altro, io pianga su me stesso dicendo: “Tamar è più giusta di me”.

Può darsi che sia caduta una giovinetta, ingannata e travolta dalle occasioni, che sono incitamento ai peccati. Pecchiamo noi vecchi, la legge di questa nostra carne si ribella in noi alla legge del nostro animo e ci trascina prigionieri verso il peccato, così che facciamo ciò che non vorremmo. Quella ha una scusa nella sua età, io non ne ho nessuna: essa infatti deve imparare, io devo insegnare. Dunque “Tamar è più giusta di me”.

Biasimiamo l'avarizia di qualcuno? Cerchiamo di ricordarci se noi stessi non ci comportiamo mai con avarizia; e se ci comportiamo così... diciamo ciascuno per conto nostro: “Tamar è più giusta di me”.

Se ci siamo adirati gravemente contro qualcuno, un laico ha una responsabilità minore di un Vescovo per aver fatto qualcosa in preda all'ira. Riflettiamo allora e diciamo: “Costui, che è rimproverato per la sua ira, è più giusto di me”...

Non arrossiamo dunque di dire la nostra colpa più grave di quella di colui che riteniamo di dover rimproverare, dal momento che così disse Giuda che rimproverava Tamar; e, ricordandosi della propria colpa, esclamò: “Tamar è più giusta di me” » (De paenitentia II, 73-77).

Noi dobbiamo supporre « a priori » (e l'esperienza, quando è ascoltata con impietosa sincerità, si incarica di darci quotidiana conferma « a posteriori ») che la nostra mente non è tutta sottomessa alla verità, la nostra coscienza non è tutta signoreggiata dalla giustizia, il nostro essere non appartiene totalmente alla realtà riscattata e santa della Chiesa.

E, sempre « a priori », dobbiamo supporre altresì che nessuno degli interlocutori in cui ci imbattiamo, neppure il più lontano e diverso, sia del tutto privo di luce, sia estraneo alla redenzione di Cristo, sia assolutamente impermeabile al rinnovamento che lo Spirito Santo va operando nell'universo e nei cuori.

Convertirsi significa anche riconoscere il male come male dovunque si trovi, pur quando lo scopriamo dentro di noi; e significa riconoscere il bene come bene dovunque si trovi, fosse pure in qualcuno che è del tutto remoto dalle nostre appartenenze e dalle nostre bandiere.

Il Rinnovatore si è fatto « prossimo »

La nostra meditazione ha avuto fin qui un'indole prevalentemente morale e psicologica. È giusto che — a conclusione, anzi al vertice del discorso — si abbia a porre in rilievo il fondamento teologico della conversione e del rinnovamento.

Una confessione di miseria che diventa premessa di un'esistenza diversa e più alta, un rammarico pungente che però sfoci nella gioia, è possibile solo laddove l'uomo non sia chiuso in se stesso, prigioniero della sua finitezza e della sua labilità, ma al contrario sia — proprio sul piano dell'essere — in una comunione almeno aurorale con un principio di redenzione e con una realtà così intrinsecamente nuova da avere l'inesauribile capacità di rinnovare.

Perciò fuori del cristianesimo — fuori della prospettiva del Regno — il pentimento, nel senso vero del termine, è praticamente inesistente. Ci può essere il cruccio, la depressione, la vergogna per le bassezze di cui ci si avvede; ci può essere l'indignazione per le altrui trasgressioni. Ma sono un'altra cosa.

« Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino ».

Che cosa è in sostanza questo Regno che si è così accostato alla nostra povertà, al punto da poterci intimamente trasfigurare? Nella sua verità più concreta ed esauriente è lo stesso Figlio di Dio fatto uomo, crocifisso per noi e risorto.

Tale identificazione è ben presente nella coscienza della prima comunità cristiana, tanto che spesso nelle sue espressioni i due concetti risultano interscambiabili. « A causa del Regno di Dio » (Lc 18, 20) è, nello stesso contesto, variante di « a causa del mio nome » (Mt 19, 29). L'acclamazione della folla all'ingresso di Gesù in Gerusalemme, comunemente registrata con le parole: « Benedetto colui che viene », nella redazione di Marco ha come alternativa: « Benedetto il Regno che viene » (Mc 11, 10). Nello stesso loghion escatologico la frase « vedere il Figlio dell'uomo » (Mt 16, 28) diventa « vedere il Regno di Dio » (Mc 9, 1).

Appunto qui — nell'esistenza e nella « prossimità » del Regno, cioè di un Riscattatore permanente (principio di una « redenzione eterna » [Eb 9, 12], come dice la lettera agli Ebrei) — sta la ragione e la causa della nostra quotidiana rinascita.

« In Cristo abbiamo tutto — riflette ancora sant'Ambrogio in un testo famoso —. Ogni anima gli si avvicini. Sia malata per i peccati del corpo o come inchiodata dai desideri mondani, sia invece ancora imperfetta ma sulla strada della perfezione grazie a un'assidua meditazione, ...ogni cosa è in potere del Signore. E Cristo è tutto per noi: se vuoi curare una ferita, egli è medico; se sei riarso da febbre, è fontana; se sei oppresso dall'iniquità, è giustizia; se hai bisogno di aiuto, è forza; se temi la morte, è vita; se desideri il cielo, è via; se fuggi le tenebre, è luce; se cerchi cibo, è alimento » (De virginitate, 99).

In virtù della croce e dell'umiliazione del Figlio di Dio, l'uomo arriva a trascendere ciò che nella sua condotta naturalmente sarebbe solo motivo di ignominia e di avvilimento, tramutandolo in premessa di esaltazione: « Nel tuo obbrobrio, Signore, sta la salvezza di tutti. Per il tuo obbrobrio non abbiamo più avuto motivo di vergognarci, noi che ci vergognavamo, né di essere confusi, noi che eravamo confusi » (In psalmum 118, V, 42).

Il Salvatore dell'universo si è fatto vicino: « è il prossimo di tutti, lui che a tutti ha elargito misericordia » (De Abraham, I, 85). Perciò il precetto di « amare il prossimo » — che è il segno tipico della « conversione », cioè della vittoria sull'egoismo — si riferisce primariamente a lui: « Siccome nessuno è maggiormente prossimo di colui che guarì le nostre ferite, amiamolo sì come Signore, ma amiamolo anche come prossimo; niente infatti è tanto prossimo quanto il capo dalle membra » (In Lucam, VII, 84).

La Chiesa sacramento della « prossimità » del Regno

« Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino ».

Non è solo Gesù di Nazaret, l'Unigenito del Padre che è anche l'Unigenito di Maria, a essere il Regno di Dio che si è fatto vicino: è anche il « Christus totus », cioè la Chiesa. « Ecclesia — dice mirabilmente il Concilio Vaticano II — seu Regnum Dei iam praesens in mysterio » (Lumen gentium, 3: « La Chiesa, ovvero il Regno di Dio già presente mistericamente »).

In tanto ci è dato di risollevarci dopo ogni caduta e anzi di « rinnovarci di giorno in giorno » (cfr 2 Cor 4, 16), in quanto possiamo contare sulla « nazione santa » (1 Pt 2, 9) che è per così dire il « sacramento della prossimità del Regno ». La nostra purificazione permanente e la nostra santificazione sono il riverbero in noi dell'indefettibile santità della Sposa di Cristo, che perciò a giusto titolo riconosciamo come la nostra madre, dal momento che quotidianamente ci genera alla vita nuova.

La certezza della santità della madre è per noi, figli peccatori, la ragione di ogni speranza. Per questo nessuna delle antiche professioni di fede si dimentica di includere nel suo elenco la verità della « Chiesa santa »: questa è, tra le « note » ecclesiologiche, la sola che non manca mai.

« Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa »: questa deve essere la nostra implorazione abituale, questo lo stato d'animo con cui tendere correttamente alla nostra conversione.

Ancora una volta arriva a proposito l'insegnamento di sant'Ambrogio: « Se disperi di ottenere il perdono per dei gravi peccati — egli dice — serviti della Chiesa, affinché essa preghi per te. Guardando a lei, il Signore accorda quel perdono che a te potrebbe rifiutare » (In Lucam, V, 11). « Sia lei a piangere per te; sia lei a versare lacrime sui tuoi peccati... » (In Psalmum, 37, 10).

La Chiesa è la madre imparziale di tutti: « non soltanto cura i feriti e ristora chi è stanco, ma anche lo asperge col soave profumo della grazia. E riversa la medesima grazia non solo nei ricchi e nei potenti, ma anche nei popolani: pesa tutti con uguale bilancia, tutti accoglie nello stesso seno, riscalda al medesimo grembo » (Epistulae Extra coll., I, 22).

Conclusione

Gli anni continuano a passare e la nostra radicale conversione non arriva mai. Quando si entra nella vecchiaia — un'età che sopraggiunge sempre inaspettata — si è tentati di temere che il Signore potrebbe anche stancarsi dei nostri indugi. Ma non bisogna perdere mai la fiducia nella sua paziente misericordia.

Allora può essere utile ricorrere alla « preghiera del ritardatario ». È un testo abbastanza insolito che la liturgia ambrosiana propone nella Settimana Santa, nel quale ci si mette arditamente nei panni della « vergine stolta » della parabola:

« Non chiudere la tua porta, anche se ho fatto tardi.
Non chiudere la tua porta: sono venuto a bussare.
A chi ti cerca nel pianto apri, Signore pietoso.
Accoglimi al tuo convito, donami il Pane del Regno » (Confractorium del Lunedì Santo).

 

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