"Non abbiate paura" - Igor Man
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L'ANNO DELLO SPIRITO SANTO
I segni della speranza: i popoli

"NON ABBIATE PAURA"

Igor Man

La storia è anche un regista ironico: a Cuba, durante l'omelia invero biblica (perché forte , intelligente, profetica) del Papa, la folla che straripava dalla Piazza Rossa dei Caraibi gridava «Libertà» e Fidel Castro si sprecava in applausi da comitato centrale del defunto pcus. Al suo arrivo all'Avana Giovanni Paolo II aveva detto: «Non abbiate paura». Si è visto che codesta esortazione evangelica era destinata non soltanto al popolo di Cuba (un popolo in un certo senso «martire») ma altresì al Lider Maximo. Sia l'uno che l'altro sembra l'abbiano accolta, visto che la gente ha spezzato il tabù del silenzio figlio del terrore poliziesco; visto che Fidel Castro non soltanto ha assistito alla Messa, seguendo la liturgia sull'apposito libretto, ma ha scambiato, «in segno di pace», strette di mano commosse con prelati felicemente increduli e straniti comunisti di ferro, e infine ha ringraziato il Pontefice, al momento del commiato, «anche» per le sue critiche.

Accettando quelle che ha definito «critiche», a ben guardare il veterocomunista Castro ha fatto «autocritica». Ma non già davanti a un tribunale (cosiddetto) del popolo bensì davanti al tribunale della storia. Con elegante verità il Papa non ha rinfacciato nulla al Lider Maximo visibilmente segnato nel fisico da un male cattivo «che non è soltanto la vecchiaia». Tuttavia proclamando il primato della Verità che esalta la Speranza, Giovanni Paolo II ha demolito le affabulazioni, tipiche del comunismo residuale con cui Castro aveva farcito i suoi precedenti discorsi volti a «distinguere» la miseria degli altri Paesi latino-amercani dalla sofferenza del suo popolo vittima del feroce «dogma-embargo» degli Stati Uniti. Certamente, «il popolo cubano non può vedersi privato dei vincoli con gli altri popoli, soprattutto quando l'isolamento forzato si ripercuote in modo indiscriminato sulla popolazione accrescendo le difficoltà dei più deboli». Le misure economiche restrittive imposte dall'esterno sono «ingiuste ed eticamente inaccettabili», ha detto il Papa. Ma è altrettanto certo che non tutte le disgrazie che martirizzano il buon popolo cubano traggano origine dal blocco economico imposto dagli Usa. Ferma restando la crudeltà, intrisa di frustrazione, dell'embargo, va dichiarato come Castro abbia reagito maldestramente, caoticamente senza curarsi dei consigli, dei suggerimenti dei suoi esperti in economia (ce ne sono, anche a Cuba ce ne sono), col risultato di aggravare la situazione. Le sue famose «aperture» diremo all'economia di mercato, hanno spaccato in due la società cubana. Dopo l'arrivo del dollaro a Cuba, ci sono quelli che ne usufruiscono attingendo un livello di vita decente, mentre gli altri, i disgraziati, o gli onesti, ancorati al misero reddito in pesos, i poveri, insomma, sono diventati più poveri. Ancora: per suprema ingiuria al socialismo reale in salsa cubana, vale a dire al castrismo, con le «aperture» son tornati a Cuba quella prostituzione e quel mercato nero - una lebbra - contro cui trentanove anni fa lo stesso Castro e il mitico suo compagno Ernesto Che Guevara, s'erano coraggiosamente battuti a costo della propria vita.

Qui, però, s'impone un inciso: Castro, già brillante allievo dei Gesuiti a Santiago de Cuba, non era comunista. Nel gennaio del 1961 a una mia precisa domanda rispose: «Noi non siamo né comunisti né anticomunisti: siamo humanisti». E che vuol dire? «Compañero, fa' tu...» Guardava agli Stati Uniti e vi si recò per chiedere aiuti (cioè investimenti) «a Cuba liberata dal vizio e dalla dittatura», ma il suo appello venne ignorato. Questo perché allora era la United Fruit Co. A fare il bello e il cattivo tempo al Dipartimento di Stato; e Castro, da bravo rivoluzionario, per prima aveva nazionalizzato proprio la compagnia cara a Foster Dulles. Fidel fu, pertanto, costretto (lo stesso era già accaduto con Nasser, religiosamente anticomunista, reo di aver nazionalizzato il canale di Suez) a gettarsi nelle braccia di Mosca e, successivamente, di Pechino, «convertendosi» così al comunismo che cercò di castrizzare, coi risultati disastrosi che sappiamo.

Il (relativamente) miserabile sussidio sovietico-cinese bastava appena a far sì che Cuba tirasse avanti con dignitosa povertà, curando (con successo) l'alfabetizzazione del Paese, la ricerca medico-scientifica. La fine dell'Urss e i sommovimenti interni in Cina troncarono la flebo degli aiuti, e la miseria divenne non più dignitosa ma insopportabile poiché il blocco economico americano, inasprito, non trovava risposta valida. Da qui, giustappunto, le «aperture» neoliberiste in salsa cubana, con gli effetti disastrosi che abbiam visto.

Nel Vangelo secondo Matteo è scritto: «Bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato»: da ex chierichetto Castro dev'esserselo ricordato, sicché è venuto a Roma e ha bussato al portone di bronzo. Gli è stato aperto. Ha chiesto e gli è stato dato. Ma cosa? Non già la legittimazione, come qualcuno ha scritto, ma il dono della Verità che appunto esalta la Speranza; e sperare, come ha scritto Georges Bernanos, «è un casto fidanzamento con l'avvenire».

Insomma, il Papa è venuto all'Avana non perché, come incautamente qualcuno ha detto, fra di lui e Castro sta scoppiando un amore a prima vista, bensì per portare il Vangelo (ecco il dono) in quella grande piccola isola carica di Storia terribile chiamata Cuba, nelle sue case degradate, senza crocefisso per ordine del Grande Fratello ma con la fede intatta nel cuore della gente. Quella gente che scandirà più volte durante l'omelia papale uno slogan oramai consegnato alla storia cubana e non: «el Papa libre nos quiere a todos libre», il Papa libero ci vuole liberi. Il Vangelo di domenica 25 di gennaio dell'Anno Domini 1998 dice: «Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia per il Signore». Sollecitato dalla forza profetica di codeste parole, mentre il libeccio scompigliava la sua veste sacerdotale, il Papa ha detto nell'omelia che lo Spirito Santo è come il vento, soffia dove vuole «e oggi vuole spirare a Cuba». Ed in grazia dello Spirito Santo, egli, il portatore del Vangelo, il vecchio ma indomito Pontefice di Roma, ha chiarito che un paese libero e moderno non può edificarsi né (soltanto) sulla religione, né (soltanto) sull'ateismo bensì sull'Amore, la Libertà, la Giustizia, coinvolgendo la Famiglia e i valori che ne discendono. Richiamandosi, così, ai principi del padre della patria cubana, José Marti, ma altresì alla predicazione di un sacerdote, Felix Varela, il quale, va ricordato, intravedeva una repubblica cubana incentrata su una «visione etico-democratica» della pubblica amministrazione, «per il bene dell'Uomo».

Prima di arrampicarsi sulla per lui troppo erta scaletta dell'aereo dell'Alitalia, il Papa aveva visto e sentito cadere gocce di pioggia. Ai Tropici accade spesso, ma Giovanni Paolo II si è domandato: «Perché dopo tanto caldo arriva adesso la pioggia? Potrebbe essere un segno che il cielo piange perché il Papa se ne va. Ma sarebbe una ermeneutica superficiale. L'ermeneutica più profonda della pioggia può significare un incoraggiamento. Che questa pioggia sia un segno buono, per un nuovo avvento della vostra storia». Così ha concluso il Papa. Ora il grande silenzio seguito alla Parola recata e gridata da Giovanni Paolo II ai cubani, al mondo, tocca a Castro romperlo. E al vecchio cronista piace sperare che quella pioggia che ha benedetto le ultime ore del Papa a Cuba sia acqua lustrale che mondi il vecchio Lider Maximo: per il bene del suo popolo che chiede pane e libertà e un po', soltanto un po' di rispetto.

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