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L'ANNO DELLO SPIRITO SANTO
I segni della speranza: la pace

UNA FORTE COSCIENZA MORALE PER UNA CULTURA DELLA LEGALITÀ
Giuseppe Dalla Torre

La società contemporanea sembra caratterizzata da una sorta di irriducibile schizofrenia: da un lato si rivendicano sempre più diritti; dall'altro si chiede sempre meno diritto a presidio della vita sociale. L'espansione della domanda di diritto è sotto gli occhi di tutti. In effetti sempre più comune è l' atteggiamento di pretesa a che il legislatore intervenga per riconoscere e garantire ogni interesse individuale, per soddisfare ogni volizione, anche le meno ragionevoli. Da tempo ormai s'è aperto un capitolo dell'esperienza giuridica, che potremmo chiamare il «diritto dei desideri»: si pensi, ad esempio, a certe tematiche di frontiera della bioetica, come la procreazione artificiale o il suicidio assistito.

Anche l'emancipazione dal diritto è un fenomeno in espansione, facilmente osservabile da chiunque. Sempre più spesso, ed in ogni campo, si reclama più libertà d'azione rispetto ad un legislatore ritenuto troppo invadente, eccessivamente paternalista o autoritario. Un certo tipo di cultura e determinate sensibilità hanno progressivamente posto in crisi assetti normativi ed istituti che l'esperienza giuridica aveva, nel corso dei secoli, definito e consolidato. Sono così caduti, ad esempio, interi capitoli del diritto di famiglia o del diritto penale. Si tratta di due atteggiamenti verso il diritto assolutamente inconciliabili, che sembrerebbero scaturire da opzioni culturali del tutto differenti e contrapposte. L'uno e l'altro sono, invece, figli della medesima cultura che domina la modernità, la quale pensa il diritto in funzione esclusivamente individuale. Difatti si reclama più diritto, al fine di sostenere le proprie pretese; al contrario si reclama meno diritto, laddove questo viene a limitare o impedire le pretese stesse.

Bisogna dire subito che tale cultura è profondamente antigiuridica e, di conseguenza, il suo prevalere nella società contemporanea è causa di una forte caduta di legalità. Il diritto, infatti, postula una relazione; presuppone sempre un rapporto tra due o più soggetti, ognuno dei quali portatori di interessi che possono essere conflittuali tra di loro; è diretto ad esprimere una regola volta a disciplinare tale relazione, prevenendo i conflitti o componendoli secondo un criterio di giustizia. In questa prospettiva anche i diritti individuali si riferiscono ad una relazione, nella quale la regola giuridica accorda protezione agli interessi di una parte, ritenuti meritevoli di tutela perché conformi a giustizia. Ne deriva che gli interessi dell'altra parte sono necessariamente sacrificati: alla posizione attiva del diritto, corrisponde sempre una posizione passiva del dovere.

Non esistono diritto senza doveri. All'espansione della sfera dei diritti corrisponde sempre l'espansione dei doveri, sicché è puramente illusorio pensare che possano esservi più diritti e meno diritto, cioè più pretese giuridiche soggettive garantite dalla legge e meno obblighi imposti dalla stessa. La legalità è termine che esprime la conformità dell'agire dell'individuo e delle istituzioni secondo regole, quindi secondo diritto. Essa risulta sempre necessaria per costruire una convivenza di uomini liberi, per favorire e garantire la crescita di una comunità civile e politica fondata non sugli egoismi prevaricatori, non sulla ragione del più forte (fisicamente, economicamente, numericamente, militarmente ecc.), ma sul riconoscimento dell'eguale dignità di tutti i consociati e delle spettanze di ciascuno.

Giova notare come la legalità sia negata ogni qual volta individui, gruppi o istituzioni - anche le istituzioni pubbliche -, si comportino in maniera difforme rispetto alle regole poste, cioè ogni qual volta sostituiscano le ragioni della forza alle ragioni del diritto. Ma la legalità è violata anche ogni qual volta le regole imposte con la legge all'osservanza di tutti non sono funzionali al bene dell'individuo ed al bene comune, ma sono espressione di interessi particolari e, pertanto, non sono in grado di assicurare una vera ed effettiva giustizia. Si pone qui il nodo, assai delicato, tra legalità e giustizia: la storia, anche recente, insegna come il rispetto formale di norme non giuste abbia gravemente offeso la legalità. Quando non giunga addirittura ad esiti tragici, come quelli che l'umanità ha conosciuto nel nostro secolo nei lager e nei gulag, la caduta della legalità porta comunque sempre, con sé, sopraffazione. Ne segue l'indebolimento del senso di appartenenza alla comunità, l'affievolirsi delle solidarietà, l'insorgere di conflittualità più o meno estese, il disaggregarsi del corpo sociale, l'illanguidirsi di quella pace che è frutto del diritto.

Fenomeni degenerativi del tutto analoghi si possono cogliere laddove si passi dal piano delle società interindividuali, quali sono gli Stati, al piano delle società interstatali, a cominciare dalla comunità internazionale. Nel suo messaggio per la giornata della pace del 1998, diretto a veicolare l'idea che dalla giustizia di ciascuno nasce la pace per tutti, Giovanni Paolo II giustamente sottolinea due fenomeni tra i più ricorrenti, nelle realtà nazionali, che costituiscono un attentato al bene della legalità e, quindi, della pace.

Il primo è quello delle povertà estreme. Esse, infatti, sono il frutto evidente di una legislazione ingiusta o, quantomeno, incapace a porre delle regole davvero «imparziali», cioè capaci di astrarre dagli interessi particolari, di emanciparsi dalla influenza dei interessi «forti», di sottrarsi anche al facile rischio - tipico delle democrazie - di ancorare il principio di giustizia al criterio pratico della maggioranza. Legalità impone che il diritto positivo assicuri l'eguaglianza non solo formale, ma sostanziale tra cittadini, e quindi impegni i poteri pubblici alla rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona. Essa richiede bilanciamento degli interessi in gioco, riconoscimento delle spettanze di ciascuno, tutela del più debole nel rapporto.

Legalità impone anche che la ricchezza comune, i beni pubblici, vengano amministrati secondo il bene comune e non servano a soddisfare interessi privati o, addirittura, interessi criminosi. L'esistenza di povertà estreme è, dunque, indice di una legalità affievolita, oltre che fattore di attentati alla legalità. Il secondo fenomeno stigmatizzato dal Papa è quello del vizio della corruzione, che mina lo sviluppo politico e sociale di tanti popoli. Si tratta di un male che affligge egualmente nazioni ricche e nazioni povere, paesi sviluppati e paesi sottosviluppati, Stati totalitari o autoritari e democrazie.

La corruzione nei pubblici uffici e nei servizi pubblici, nella misura in cui sottopone a taglieggiamenti e vere estorsioni l'erogazione di quanto dovuto al cittadino, disattende ogni regola di giustizia affermando la logica del più forte. Essa è caratterizzata in aggiunta da un effetto moltiplicatore, perché induce inesorabilmente ad una cultura dell'illegalità nella misura in cui il l'individuo, per poter concretamente esercitare i diritti e fruire delle libertà formalmente garantitegli dall'ordinamento, è indotto ad atti di corruzione. È da notare come la corruzione abbia un doppio effetto sulla povertà: da un lato si esercita su coloro che, essendo privi di potere, debbono ad essa ricorrere per far valere i propri diritti; dall'altro lato emargina progressivamente proprio costoro, in quanto economicamente incapaci a far valere le proprie ragioni.

A fronte di tali fenomeni, Giovanni Paolo II sottolinea l'urgenza di una cultura della legalità. Mette cioè in evidenza come non solo sia necessario che individui ed istituzioni conformino il proprio agire a regole, e che queste regole rispondano a principi di giustizia; ma segnala come sia, prima ancora, necessario formare ad una sensibilità e ad una pratica della legalità. In effetti una formale adesione, nei comportamenti individuali, alle giuste regole poste dal legislatore, può non essere sufficiente ad assicurare quella legalità che è necessaria alla convivenza.

L'esperienza insegna che la forza del diritto non è riposta solo, né sopratutto, nel timore della sanzione. In ogni tempo ed in ogni luogo la criminalità non è stata dissuasa dalla sussistenza di norme penali, di forze di polizia, di giudici, di prigioni. Ma in ogni tempo la stragrande maggioranza dei consociati si è comportata secondo la legge, a prescindere dalla sussistenza di giudici o di pene. La forza del diritto, insomma, è innanzitutto riposta nell'intima adesione di ciascuno alla regola posta dalla legge; nella rispondenza - per dir così - della norma esterna, legale, alla norma interna, di coscienza; nella sensibilità dell'individuo che agisce tenendo presenti non (solo) i propri interessi, ma (primariamente) gli interessi del destinatario della propria azione sociale. E qui, a ben vedere, la legalità si coniuga con la solidarietà.

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