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I temi del Giubileo

CINQUE PARADOSSI DEL SECOLO DEI NUOVI MARTIRI

Didier Rance

Il nostro secolo resterà senza dubbio nella storia del Cristianesimo come il secolo dei Martiri, inevitabile epilogo dei primi due millenni. “Al termine del secondo millennio, la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di martiri” (Giovanni Paolo II, Tertio Millennio adveniente,  37). Mai come in questo secolo tanti credenti hanno donato la loro vita per Cristo. E non solo perché vi sono molti più uomini sulla terra oggi di 2000 anni fa! Dall’Impero Ottomano all’Africa dei Grandi Laghi, dal Messico all’Albania, dalla Spagna alla Russia, dal Salvador alla Cina, la lista è lunga, molto lunga: “le persecuzioni nei riguardi dei credenti - sacerdoti, religiosi e laici – hanno operato una grande semina di martiri in varie parti del mondo” (ibid.). Ma il nostro secolo non sarà ricordato solo come il “secolo dei martiri”  bensì come quello dei “paradossi del martirio“.

Cinque paradossi

Il secolo con il maggior numero di martiri passerà altresì alla storia come quello in cui si sarà cercato, come mai prima d’ora, di non compiere dei martirii visibili. I carnefici nazisti hanno mandato al supplizio dei credenti dopo averli condannati non per la loro resistenza ispirata dalla fede, ma con pretesti politici. Si verificarono spesso le stesse circostanze in epoca marxista; padre Nonov, un cappuccino bulgaro, racconta ancora con indignazione – a quaranta anni dall’accaduto - il processo a conclusione del quale il suo vescovo venne fucilato assieme a numerosi sacerdoti accusati di essere stati “spie e agenti dell’imperialismo”, mentre lo stesso Nonov fu mandato in un campo di concentramento. Non è tanto il martirio dei suoi confratelli a scandalizzarlo (dopo tutto, Cristo ci aveva preannunciato quello a cui i suoi discepoli sarebbero andati incontro) quanto piuttosto certe etichette false e infamanti. “Non abbiamo mai fatto altro che il nostro compito pastorale. Niente politica, niente spionaggio, mai!”

Altro paradosso: questo secolo di martiri sarà stato anche quello in cui la differenza e la gerarchia - che la tradizione cristiana avevano sempre stabilito tra il martire che versa il proprio sangue sino al dono della sua stessa vita e colui che professa apertamente la sua fede, che soffre per la fede senza arrivare a versare il proprio sangue – risultano forse ancora più evidenti. Il perfezionarsi delle tecniche di tortura fisica, psichica e morale sarà anch’esso uno di quei tristi settori per i quali il nostro secolo sarà considerato, senza ombra di dubbio, un secolo di progresso. La durata delle carcerazioni e financo delle torture nei confronti di quanti professarono apertamente la loro fede – dieci, venti, trent’anni e più – danno le vertigini. Un sacerdote sopravvissuto ai lager comunisti attira l’attenzione su questo paradosso: “Se avessi saputo quello che mi aspettava nel campo di concentramento, avrei preferito essere fucilato. E dire che nonostante tutto me ne sono rallegrato. Se fossi stato fucilato come tanti altri preti, sarei divenuto un martire. Oggi, si parla di beatificare questo o quel martire ed io, che ho sofferto assai più a lungo di loro, posso continuare a commettere  sciocchezze su questa terra”. Al di là dello humour, il paradosso…

Terzo paradosso, quello di quei martiri il cui martirio stesso è stato “rubato”: uomini spezzati dalla violenza, dai maltrattamenti, dalle droghe o dai ricatti, e che sono morti nella notte.

E altrettanto paradossale: questo secolo dei martiri sembra essere quello in cui gli stessi martiri sono stati marginalizzati nella coscienza di tanti loro fratelli nella fede. Secolo di martiri, certo, ma anche, troppo spesso, secolo dell’indifferenza ai martiri – o addirittura del loro rifiuto, in nome del “dialogo”, della “coesistenza” o della “tolleranza” , o perché si è creduto di più alla parola dei loro carnefici che ne mascheravano il martirio (vedi più sopra il secondo paradosso).

La croce dell’indifferenza o dell’abbandono da parte dei loro stessi fratelli nella fede fu forse la più pesante da portare.

Ma ecco l’ultimo paradosso. Al tempo dei primi cristiani, il martirio sembrava essere a tal punto un vettore, addirittura il primo vettore, di evangelizzazione che Tertulliano ne aveva composto un adagio: “Sanguis martyrum, semen christianorum”, il sangue dei martiri è semente per i cristiani. Ed ecco che in questo secolo le Chiese cristiane che hanno conosciuto una persecuzione totale ne escono strumentalizzate e asservite ad opera di uno stato ateo: ecco che degli eroici sopravvissuti si logorano su questioni di vocabolario liturgico mentre altri credenti appartenenti a quelle stesse popolazioni liberate, infine, dall’oppressione sembrano aver perduto ogni genere di solidarietà dall’epoca delle persecuzioni e non pensare ad altro che a fare affari. Ciò non risulta, è vero, del tutto nuovo. Dopo l’Editto di Milano alcuni sopravvissuti alla grande persecuzione di Diocleziano si sarebbero battuti per avere i migliori posti al Senato, chi prendendo a pretesto un occhio cavato sotto le torture, chi la sua gamba rotta… E che dire del nostro secolo?  E che dire ancora della persistente mancanza di interesse di tanti cristiani d’Occidente nei confronti dei martiri e dei credenti di questo secolo, sempre pronti a giustificarsi: ieri, non si voleva sapere, perché non si poteva sapere; oggi, non si vuole sapere perché la faccenda è chiusa!

“Bisogna fare in modo che la loro testimonianza non vada perduta”

E tuttavia, Giovanni Paolo II ha voluto che i martiri di questo secolo fossero al contrario al centro delle celebrazioni e dell’approfondimento della fede che la Chiesa propone per il Grande Giubileo dell’Anno 2000: “Nel nostro secolo sono ritornati i martiri, spesso sconosciuti, quasi “militi ignoti” della grande causa di Dio. Per quanto è possibile, non devono andare perdute nella Chiesa le loro testimonianze” (Tertio Millennio adveniente, 37). Le ragioni per le quali bisogna cercare di mantenere viva la loro testimonianza sono numerose. A cominciare dalla risposta allo “scandalo” costituito dai paradossi sopra descritti, e per dovere di giustizia e di verità verso tutti coloro che hanno dato la loro vita per Cristo in questo secolo. Ma l’appello di Giovanni Paolo II può condurci anche su altre piste. I lavori della Commissione per i Nuovi Martiri e quelli di tutti gli uomini di buona volontà ce ne faranno scoprire di nuovi da qui all’anno 2000 e in occasione del Grande Giubileo. E non è questa una realtà che costituisce in qualche modo una sorta di paradosso?

La loro “tenerezza fraterna”

Per prendere coscienza di questo paradosso, partiamo da una constatazione; se qualcuno ci chiede: “Quali immagini evoca in voi la parola martirio?”, è probabile che la maggior parte di noi assocerà questo termine alle immagini dei martiri nelle arene romane, ai leoni e alle figure della grande Chiesa primitiva commemorate nel calendario liturgico romano. Due millenni di storia hanno “patinato” e “dorato” queste figure e, in certo qual modo, le loro aureole le allontanano da noi. Li preghiamo, siamo fieri di queste grandi figure della fede, cerchiamo di seguire l’esempio delle loro virtù. Ma quello che fu in realtà la vita concreta e quotidiana di ciascuno, come lui (o lei) abbiano reagito di fronte alle sfide quotidiane che il mondo contemporaneo pone alla nostra fede di discepoli di Gesù Cristo, è difficile immaginarlo, e dunque è arduo ispirarci alla loro esistenza al fine di creare un legame concreto con la nostra (queste vite non ci sono peraltro generalmente note se non nel contesto degli “Atti dei martiri” che ci forniscono ragguagli solo sulla loro testimonianza finale e sulla loro morte). O, quel che è peggio, noi consideriamo questi martiri dei primi secoli come una specie di eroi o di semidei cristiani di cui andare orgogliosi, poiché siamo fieri di appartenere alla loro stessa Chiesa. E siamo tentati in qualche modo di pavoneggiarci  con le sofferenze e la testimonianza di questi martiri (e di quelli del nostro secolo), come fece notare Urs von Balthasar.

Ma con i martiri di questo secolo non è altrettanto semplice. Non appaiono ancora rappresentati con tanto di aureola sulle vetrate delle nostre cattedrali o sul legno delle icone. Noi non possiamo, se non in mala fede, comportarci come se non sapessimo nulla della loro vita e ridurli a des images d’Epinal. E quando Giovanni Paolo II ci esorta a non perderne la testimonianza, è a tutta la loro vita che si riferisce certo, e non soltanto al loro martirio: “Il più grande omaggio, che tutte le Chiese renderanno a Cristo alla soglia del terzo Millennio, sarà la dimostrazione dell’onnipotente presenza del Redentore mediante i frutti di fede, di speranza e di carità in uomini e donne di tante lingue e razze, che hanno seguito Cristo nelle diverse forme della vocazione cristiana”. (ibid.).

Bisogna prendere sul serio questo programma. Questi frutti non sono stati manifestati al momento del martirio di fronte a procuratori romani, né precedentemente nella vita quotidiana di una metropoli o di un villaggio dell’antichità, ma di fronte a giudici o a commissari politici forse tuttora viventi; e ancor prima in un contesto educativo, familiare e culturale, in un contesto di media, di propaganda o di pubblicità, di pregiudizi o di modi di vivere che sono – malgrado tutte le innegabili differenze - i nostri.

Dunque, un nuovo e più sorprendente paradosso comincia a delinearsi: se la sola conoscenza del loro martirio (talvolta atroce) allontana da noi queste grandi figure della fede nel nostro secolo (la maggior parte di noi non rischia niente di simile, almeno in Occidente), la conoscenza di tutte le fasi della loro esistenza li avvicina a noi, e ci rimanda sempre più alla nostra vita di battezzati. Cominciamo allora – se facciamo uno sforzo – a renderci conto che molti di loro hanno conosciuto le nostre stesse tentazioni, le nostre difficoltà, le nostre debolezze, i nostri smacchi e le nostre cadute, talvolta i nostri dubbi, in un mondo che è il nostro sotto diversi aspetti. Scopriremo che non ci sono due modi di essere cristiani, il “loro” che è stato costantemente di un eroismo quasi sovrumano e il “nostro” molto più banale e senza grossi pericoli. Comprenderemo che se la loro morte per la fede ne ha fatto dei martiri, l’essenza di quanto possono insegnarci è altrove, è in quella testimonianza d’amore e delle altre virtù teologali che essi hanno manifestato, e dovremmo ammettere che quella testimonianza non è riservata ai martiri, che è stata richiesta a noi come a loro.

In breve, noi avremo fatto questa scoperta inquietante: siamo molto più coinvolti di quanto credessimo dalla vita e dalla morte di questi fratelli e sorelle nella fede, nostri contemporanei, così vicini a noi con la loro vita di tutti i giorni, di fronte a quelle stesse sfide - seppure in modo diverso - che questo secolo avrà posto a tutti coloro che professano la fede cristiana. Una scoperta inquietante, in quanto sarebbe più facile credere che se la vocazione al martirio è una grazia (ed è vero) essa riguarderebbe solo coloro che sono chiamati, e che il radicalismo evangelico che essa implica non è richiesto agli altri cristiani. No, non vi è che un solo Vangelo, non vi è che un solo cristianesimo, ovunque esigente, ovunque sotto l’orizzonte della croce.

Ma aggiungiamo subito, ovunque formidabile da vivere. Poiché scopriamo anche  in queste vite l’azione di Cristo che si manifesta nella debolezza degli uomini. Più che dei modelli da imitare (il contesto della loro vita è spesso - sul piano concreto - diverso dal nostro) essi diverranno allora per noi dei segni, delle presenze quasi sacramentali dell’amore di Dio più forte di tutte le potenze del male e della morte. Oggi ogni cristiano (ma fu mai diverso?) conosce l’opposizione, la discriminazione, e perfino forme talvolta molto più sottili ma non meno reali di persecuzione, ogni qualvolta egli mostra di voler vivere la sua fede e testimoniare le esigenze del Vangelo. La testimonianza di fedeltà vittoriosa nelle prove dei martiri e di quanti  hanno professato apertamente la loro fede, e tutto ciò che a loro si deve in relazione al ruolo decisivo dei credenti nella liberazione dei sistemi contro Dio e contro l’uomo che hanno oppresso intere popolazioni, ci ricorda questa verità fondamentale del cristianesimo che ci è stata rammentata da madre Teresa a proposito della sua Chiesa d'Albania, quella che ha conosciuto la persecuzione più radicale in questo secolo: “la nostra fede ci insegna che la vita di Cristo non si conclude il Venerdì santo, ma con la Resurrezione”.

Ma tale paradosso ci può condurre ben più lontano di quel sostegno morale e spirituale che possiamo trarre dall’esempio dei martiri di questo secolo. Deve sfociare nella comunione dei santi dove i rapporti non sono più semplicemente nozionistici, di immagine e di ispirazione, ma personali e reali. Senza voler prescindere dal giudizio della Chiesa (ma coscienti della preoccupazione di Giovanni Paolo II di attualizzare il martirologio della Chiesa e di portare sugli altari numerosi testimoni del nostro secolo), possiamo già invocare l’intercessione di questi fratelli e sorelle nella fede che hanno dato in questo secolo la loro vita per Cristo. E fare nostro ciò che santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, ci insegna e di cui l’ultimo paradosso sui martiri del nostro secolo ci mostra l’importanza: “Credo che i beati provino una grande compassione delle nostre miserie, essi ricordano che essendo stati come noi fragili e mortali, hanno commesso gli stessi errori, sostenuto le stesse battaglie e la loro tenerezza fraterna diviene ancor più grande di quanto non fu sulla terra”.

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