Il verbo incarnato: un mistero trafitto di amore
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IL VERBO INCARNATO: UN MISTERO TRAFITTO DI AMORE

Abbé Pierre

Debbo confessare che la richiesta, ricevuta ieri, di rispondere in una o due pagine alla domanda «per Lei chi è Gesù Cristo?», mi ha procurato un vero tormento. Per liberarmene, rispondo immediatamente. Porre una simile domanda, forse è chiedere di dire l'indicibile. Comunque voglio provarci. Bisogna partire dall'inizio; tenere presente cioè, che sono nato in una famiglia cattolica in cui ciascuno si sforzava di vivere, molto sinceramente, la fede, la speranza, la carità.

Fin dall'adolescenza, dunque, la mia relazione con Gesù, se è possibile esprimersi così, è stata di una estrema semplicità, di adorazione affettuosa, senza timori e con le ingenuità dell'infanzia. Questo rapporto si è in seguito trasformato ed ha cominciato a divenire mio, personale, dapprima attraverso un periodo in cui ogni stato d'animo religioso era marcato in me da una sorta di attrazione panteista.

È stato allora, verso i sedici anni, che è sopraggiunto uno "choc" estremamente duro, nel senso che sfuggiva ad ogni discussione. E' stato l'incontro con «Io sono» del roveto ardente. «Va dal Faraone e digli -Io sono- mi manda a dirvi...». Mi sento incapace di comunicare a chiunque, pienamente, come l'intera mia vita sia stata marcata, senza alcuna interruzione, dall'esigenza di questo «Io sono». Più tardi, in occasione di un pellegrinaggio di studenti, mi capitò non solamente di conoscere Assisi e di sentire parlare di San Francesco, ma soprattutto durante quelle ore trascorse alle "Carceri", avvertii due intuizioni che non mi avrebbero più abbandonato: da un lato l'evidenza che, nell'adorazione, si raggiunge la comunione universale assoluta, e dall'altro, la certezza che, nell'adorazione, può nascere un'azione della più grande portata, come accadde nella vita di San Francesco, forse, a sua insaputa.

Ed è, dunque, con questo duplice bagaglio: l'«Io sono» e le due intuizioni di Assisi che, a diciannove anni, divenni Cappuccino. Sessantasei anni fa. A quell'epoca, gli anni di formazione nell'ordine dei cappuccini (noviziato, filosofia, teologia), si trascorrevano in condizioni di stretta clausura: ogni giorno (cosa che ai nostri giorni sarebbe probabilmente considerata impossibile o stravagante), oltre al tempo della recitazione dei salmi nel coro, tre quarti d'ora di adorazione, prima di cena, nell'oscurità totale, senza potersi avvalere di libri. Durante la notte, ci si svegliava tra mezzanotte e le tre del mattino, e, dopo la recitazione del "Mattutino" e delle "Lodi", di nuovo, un'ora intera nella stessa "oscurità".

Oggi, a più di ottant'anni, mi rendo conto, con sempre maggiore certezza, che i quasi sette anni vissuti con quella "dose" di adorazione, sono stati la grazia più grande della mia vita (mi guarderei bene tuttavia, dal consigliare a qualcuno di imitare tale programma di formazione per una vita dedicata a Dio, non nella vita contemplativa, ma "nell'azione"). Un particolare, ma più eloquente di tante frasi: dopo l'anno di noviziato, si era soliti seguire un'abitudine un po' puerile. Stavo per dire "eravamo", ma sarebbe un modo improprio di esprimere la realtà, poiché ero il solo novizio durante il secondo semestre del noviziato (con un Padre Maestro, ex ufficiale di Marina, depresso, che trovavo spesso in lacrime). Sul finire del noviziato eravamo invitati a scegliere un'immagine e a scrivervi sul dorso ciò che evocava per noi quel primo anno di monastero. Scrissi semplicemente, senza pensarci troppo: «O Ens etiam Esto». Credo di non sbagliarmi affermando, a 84 anni, che il significato di quelle parole quando avevo vent'anni è rimasto il tessuto costante di tutta la mia vita interiore: merito (se ve ne è), e peccati (ce ne sono).

Negli anni successivi si sviluppò in me, più attraverso la lettura dei Vangeli che per gli studi purtroppo superficiali, un'altra dimensione del «Io sono» per mezzo dell'unica parola che possa essergli aggiunta: "Amore". Era l'iniziazione alla fede nella realtà della Trinità in Dio: se l'Eterno è Amore, poiché l'Amore è ciò che ci fa essere di più fuori da se stessi, l'Eterno non può non esprimere pienamente Se stesso se non "manifestandosi" in modo assoluto. E' quello che il linguaggio umano tenterà di indicare con le parole "Verbo", "Figlio", espressione, generazione di Lui, unico perché totale.

Afferravo, allora, il concetto della Trinità, in un modo estremamente semplice e chiaro: dal Padre e dal Figlio che si amano, "procede" inevitabilmente quel "Soffio d'Amore divino" che chiamiamo Spirito Santo. Penso sia più chiaro ora, ciò che dicevo all'inizio, quando parlavo di indicibile. Esprimere così quello che si è vissuto è difficile e può lasciare pieni di confusione. La persona del Verbo Incarnato cominciò, solo allora, ad essere per me pienamente oggetto di studio, di adorazione e di amore. Ormai era, dunque, non il Gesù Cristo della mia infanzia e neppure il Verbo, inconcepibile, ma l'enorme e meraviglioso enigma di "Dio fatto uomo", vero Dio e vero uomo che mi accompagnava.

L'essenza dell'insegnamento cristiano ci presenta tre misteri: la Trinità, la Redenzione e l'Incarnazione. Non voglio dilungarmi, ma il concetto della Redenzione mi si è presentato in più tappe. Ne ho sempre rifiutato due:

- Pensare che, poiché l'uomo a causa del peccato è divenuto ostaggio di Satana, il Redentore venisse a "darsi al diavolo" come riscatto per liberare gli ostaggi.

- La seconda (e so che questa in molte predicazioni non è del tutto superata): Sant'Anselmo suggerì il tentativo di spiegazione detto della "soddisfazione". Il Redentore avrebbe vissuto la Passione per placare la collera del Padre Divino. Non si comprende assolutamente più come potrebbe accordarsi con questa dottrina la parabola del figliol prodigo e di suo padre. No, non è accettabile pensare che Gesù domandi sotto i supplizi: «Padre, ti basta questo ?».

Solo recentemente, la Redenzione è, per me, più comprensibile. E' accaduto vedendo i nostri drogati di oggi, diventati i carnefici e le vittime di se stessi. Ho capito che il Redentore veniva ad offrirsi come riscatto non al diavolo, né alla collera del padre, ma alla folle pretesa dell'uomo, perennemente afflitto per aver creduto di potere essere padrone di se stesso. Il Redentore dice a questo "ladro": «Liberati di te stesso restituendoti a te stesso. E quale prezzo di questa restituzione, io, Dio fatto uomo, mi dono a te».

Dire chi è Gesù per me, è tentare di interrogarmi sul Mistero dell'Incarnazione. L'Incarnazione continua a pormi davanti a due problemi incomprensibili. In che modo possano esistere in una stessa persona, unica, due ordini di realtà: da un lato la "realtà" del "vero uomo" che deve imparare dalla sua mamma a camminare, parlare, pregare .... e contemporaneamente questa stessa e unica persona non cessa di essere quell'indicibile chiamato la "Visione Beatifica", ciò che mi ha permesso un giorno di scrivere (con il timore di essere biasimato) in basso ad una immagine raffigurante San Francesco di Assisi: «Lode a Te, Signore, per mio fratello arcobaleno che ci hai dato quale garanzia dell'alleanza di Te, l'Altissimo, con noi, miseri! Lode a Te, Signore, per lo squarcio della nube, per il Tuo sorriso attraverso le lacrime, per la Tua gioia sotto la croce!».

Che dire di più? Se teologi o mistici potessero illuminarmi su questa duplice consapevolezza di un'unica Persona, non saprei mai ringraziarli abbastanza. Ma dubito che, finché siamo nelle ombre del tempo, possiamo vederci più chiaro.

Il secondo punto per cui il mistero dell'Incarnazione continua ad interpellarmi costantemente sotto lo sguardo di Dio, è costituito dal fatto che se si considerano i millenni trascorsi dalla comparsa del primo uomo libero e responsabile, nonché la vastità del pianeta terra, non si può non dire: "Ma Signore, perché così tardi ? E perché con mezzi così minuscoli mentre, avendo aspettato tanto, -si sarebbe tentati di dire-, perché non apparire oggi, quando la parola di Gesù potrebbe essere diffusa dalle antenne paraboliche in tutta la terra rendendo la Rivelazione alla portata di tutti ?"

Ho conservato a lungo un pezzo di carta su cui erano scritte queste parole: «Tu, e noi tutti a Te». Come mai, almeno apparentemente, ne siamo lontani ? In me è incessante questa interrogazione gridata a Gesù: «E gli altri ?».

Gesù Cristo è presente in me, non come ce lo fanno conoscere i Vangeli, giorno per giorno, ma presente Risuscitato, con il corpo nuovo della Resurrezione, materia gloriosa, "terra nuova e cieli nuovi". Non bisogna forse pensare la stessa realtà per Sua madre, la Vergine Maria, dal momento che crediamo alla sua Assunzione ? Non è forse, anche Maria, già "terra nuova e cieli nuovi", come Lei stessa si manifesta in tante apparizioni ?

Nella Sua realtà di Corpo glorioso, non ho alcuna difficoltà a pensare Gesù Onnipresente, come l'aria che respiriamo ovunque. Infine, è nel mistero (che può apparire insolente a molti onesti credenti), proprio nel mistero della presenza di Gesù Corpo Glorioso, nella minuscola materia dell'Ostia Consacrata, che posso avvicinarLo di più. I momenti in cui mi è possibile sia di celebrare la Messa, sia di rimanere, in realtà per non dire niente, alla presenza del tabernacolo, sono per me, povero prete spossato, i brevi momenti di un essere che depone i suoi fardelli dicendo ad un Altro, a Gesù: «Alleggeriscimi, è troppo pesante».

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