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Giubileo tempo di pace e di giustizia

Un incessante richiamo alla solidarietà nella famiglia dei popoli
Bruno Bottai

A fine agosto 1997, nonostante i pesanti impegni delle giornate precedenti, trascorse in un’eccezionale afa parigina e nell’entusiasmo travolgente di un milione di giovani, Giovanni Paolo II, rientrato a Castel Gandolfo, mi fece confermare il suo gradimento a presenziare la sera del 31 ad un eccezionale evento spirituale e artistico. Quale Ambasciatore d’Italia  presso la Santa Sede e a nome della “Dante Alighieri”, di cui sono presidente, avevo proposto di offrirgli una lettura, da parte del dantista Vittorio Sermonti, nel cortile del palazzo papale, dell’ultimo canto del Paradiso: quello che contiene la sublime preghiera alla Madonna e poi le alte e impervie terzine che avvicinano la mente umana alla visione di Dio.

L’ascolto del Papa, che fin da giovane ha letto la Divina Commedia in traduzione polacche, fu attentissimo. Alla conclusione, pronunciò appropriate frasi sul valore cristiano del grande poema e di cortese apprezzamento per la serata. Ma, deposti i fogli, volle riandare con parole commosse a un suo ricordo personale, di cui cadeva precisamente l’anniversario: l’ultima notte di pace del 1939. All’alba del 1° settembre le truppe di Hitler avrebbero infatti abbattuto le barriere confinarie, sottomesso la Polonia e fatto del suo popolo la prima vittima e il tragico simbolo di una guerra mondiale.

L’invocazione della pace è il grido ripetuto senza soste durante il ventennio di questo pontificato. Questo grido è risuonato con accenti particolarmente accorati da quando è iniziata la crisi del Kosovo. Credo che l’appello si spieghi innanzitutto con la durissima esperienza personale che il giovane Karol Wojtyla dovette affrontare dopo l’invasione del suo Paese. Non è compito del Papa indicare le scelte diplomatiche e politiche capaci di far ritrovare un sentiero di uscita dall’attuale affrontamento. La Chiesa può ammonire, ma non è in grado di impedire un ulteriore degrado della situazione, altre distruzioni di povere case, altre violenze, altre vittime. La parola del Papa ricorda però che le crisi si possono prevenire e controllare.

E’ a tal fine indispensabile che ci si proponga innanzitutto di ripristinare sulla scena internazionale un quadro di riferimento di diritto. Anzi di costruirlo con pazienza, mattone per mattone, giacchè non può considerarsi quadro di diritto la logica dei blocchi contrapposti che esisteva  prima. Su quella logica si basavano i precari equilibri di un mondo diviso da muri e fili spinati tirati su da un’ideologia che negava la libertà a decine di milioni di esseri umani e l’indipendenza e la dignità ad antiche nazioni. Quelle mura di Gerico furono scosse e poi abbattute anche dallo squillo di trombe che risuonò con l’elezione al soglio di Pietro dell’Arcivescovo di Cracovia. Divenuto Vescovo di Roma, Giovanni Paolo II continua oggi a richiamare tutti i popoli, ma in modo speciale quelli della vecchia Europa, ai doveri che hanno verso la pace e la solidarietà.

Il Presidente Delors ha recentemente osservato con amarezza che l’Unione Europea è oggi un gigante economico, un nano politico e una larva militare. Occorre che l’Europa si decida a completare la costruzione comune in corso ormai da un cinquantennio, per assumere finalmente di nuovo, accanto agli Stati Uniti, le responsabilità che le derivano da storia e cultura. Ed occorre buona volontà e impegno al fine di ricostruire un sistema internazionale più affidabile, del resto previsto dalla Carta di San Francisco, che è alla base delle Nazioni Unite. Solo a queste condizioni la condanna dei nazionalismi esasperati, delle intolleranze etniche e religiose che da anni tormentano la Jugoslavia, facendo del Kosovo una terra di persecuzioni e tormenti, risuonerà in tutta la sua nettezza e isolerà i responsabili nel giudizio dei popoli. Giovanni Paolo II non predica il pacifismo delle rese, ma risveglia le coscienze dei compiti, anche duri e gravosi, della solidarietà umana.  

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