I giovani: Gesù, uno di loro
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I GIOVANI
Gesù, uno di loro

Sergio Zavoli

Ci inoltriamo verso la fine del millennio e si affacciano le ombre di un antico smarrimento. L'età dei lumi, in quasi duecento anni, non è riuscita a rischiarare con la sola ragione il mondo della "dipendenza dal mistero", come Alvin Toffler chiama la religiosità. Perdura qualcosa di irrisolto nel rapporto dell'uomo con la religione, con la fede, con Dio. Penso ai giovani, soprattutto, perché salta agli occhi il riaffacciarsi, tra loro, proprio del sentimento religioso. Tornando a rovistare nell'anima scoprono che fuori non c'era ciò che cercavano. Al di là delle infatuazioni, delle ingenuità, di talune forme persino morbose, quello che colpisce della loro ricerca è che non procede, astrattamente, sulle piste di Dio; temendo altre delusioni, si sono rifatti vivi con Gesù che considerano, per dir così, uno di loro. E che è qui, dicono i ragazzi, non foss'altro perché qui c'è già stato. Essi ci dicono che hanno bisogno di "ricostruire" l'immagine ad essi più vicina, quella del Figlio, cioè di Cristo. E' un tentativo un po' ingenuo, ma non banale, di riconoscersi in un Dio pronto a chiarire la sua identità, mentre quella del Padre - divina, troppo divina - non di rado sovrasta la loro erratica, spaesata, generosa ricerca. La domanda Chi è Gesù Cristo, oggi? non sta forse a fondamento di quel complesso dilemma che è credere o non credere, sembrano domandare a loro volta i giovani? Si tratta, in sostanza, della stessa domanda che Gesù, nel Vangelo di Matteo, rivolge ai suoi discepoli, i quali ne discussero fino alla Resurrezione: "Ma voi, chi dite che io sia? Migliaia di libri hanno cercato di dare quella risposta. E nessuna ha potuto sgominare ogni dubbio. Perciò non deve sorprendere, e non è affatto scandaloso che gli incessanti interrogativi sui quali i teologi si sono impegnati per venti secoli siano diventati perfino "teologia pop". Ricordate? Gesù Cristo Superstar, sei quello che dicono che tu sia?" Si è guardato con diffidenza, e persino riprovazione, a questo tentativo di riportare Cristo nel mondo per avere in Lui le risposte che il mondo non ha saputo darsi. Ma proprio questa esigenza di "realtà", per ingenua che appaia, potrebbe racchiudere la speranza di incontrare, attraverso il Cristo, un Dio sentito come confinato nei cieli, e quindi latitante nella nostra storia.

I giovani hanno il "vizio" di voler sapere quali spazi e quali fondamenti restano alla religione di fronte alla violenza dei singoli e dei regimi, a quell'uso della tecnologia che in nome del benessere accetta violenza, alienazione e inquinamento, a larghe porzioni di umanità senza garanzia di sopravvivenza, a vite stampate nel circuito chiuso lavoro-denaro-consumo? Per la prima volta, nella storia dell'animo umano, hanno la meglio i metodi della ragione: sospendere le proprie certezze - oppure, più alla svelta le proprie credulità - interrogarsi, mobilitare le forze alla ricerca del Dio remoto, inaccessibile. Emblema di questa fede non è più la roccia, propongono i giovani , ma la canna che si china al passare della piena per rialzarsi subito dopo. L'ondata investe per primi i comodi bastioni che hanno reso facile la fede, cioè le sicurezze ereditate, quasi sempre un rinvio, almeno psicologico, a un'estrema, provvidenziale, salvifica chiave del Paradiso. Non di rado compromessi in questa comoda fede, e da essa non appagati, i giovani vogliono sapere come potranno salvarsi; sanno che c'è una taglia rischiosa su Dio perché chi lo cerca compromette la sua libertà, chi lo accetta modifica la sua vita, chi lo rifiuta mette in gioco la sua salvezza. Sanno di non avere altra risorsa che le proprie scelte, e che il problema è sapere se questa risorsa ha un limite. Ma mentre verso la libertà sono disposti naturalmente, e ad essa aspirano, sembrano spesso disorientati di fronte alla responsabilità di cui proprio la libertà li carica; sentono, infatti, di dover tutto gestire come se tutto dipendesse esclusivamente dalla propria, personale responsabilità. Perciò ogni delega e ogni ambiguità - nella scienza, nella filosofia, nella religione stessa - è come una fuga da se stessi. D'altronde, fino a quando l'uomo non saprà trovare dentro di sè il centro e il significato dell'esistenza, ogni confronto con Dio sarà inutile o in perdita; e vana ogni ipotesi, o progetto, di libertà. Ma ha senso una taglia su Dio? Esiste un luogo dove incontrarlo, vedere finalmente se c'è e com'è? E poi, quale Dio è latitante? Un Dio a sé, solitario, chiuso in una categoria di pensiero che pensa solo se stesso, immerso a meraviglia nella sua beatitudine, buono fino all'inerzia, e all'occasione permaloso, eccitabile e vendicativo? Davvero si cerca un Dio così lontano, che è sempre all'erta sul nostro destino, che diventa un'avventurosa scommessa su tutto? Un Dio così distante e al sicuro non interessa i giovani d'oggi neppure come antagonista; un Dio nascosto nel suo mistero non li attrae nemmeno come avventura. Una fede così non li seduce; e per conquistare quella autentica non sono disposti ad affrontare le nostre vecchie prove, che rifiutano a priori. Sanno che noi abbiamo dovuto spesso confrontarci con sistemi dottrinali abilitati a garantire la "verità" e a sancire il "diritto-dovere" di classificare il bene e il male in base a principi costruiti più su umane prudenze che su deleghe divine, a codici e canoni che sancivano gli infiniti casi di peccabilità previsti nei testi di morale, alle insufficienze nella scelta e nell'applicazione delle regole per testimoniare la propria fede: dalla semantica del soprannaturale all'inquietante oratoria sul peccato, dalle speculazioni sulla grazia all'invettiva sulle passioni impure. Una cascata di norme che ha alimentato il senso di colpa dell'uomo e la fragilità delle sue scelte, turbandolo fin dall'infanzia: il peccato mortale in agguato, il corpo cattivo, il pianto dell'angelo custode, le lingue di fuoco dei dannati, le soffici nuvole per chi si salva, la falce della morte, la coda e le corna del diavolo. Un dibattito a porte chiuse, con l'anima e con la storia, in bilico tra origine e destino, mito e ricerca, fede e credulità, corpo e spirito; e poi, la conclusione di tutto nella paura della fine e del dopo. In questo processo di emarginazione psicologica e morale pagava la libertà dell'uomo, sottoposta a impossibili confronti. I giovani non sembrano disposti a muoversi tra quelle tagliole. Il ricorso alla fede, per evitarle, era ed è certamente possibile, ma quale fede può attingere Dio attraverso codificazioni così spesso estranee, se non addirittura contrarie, alla nostra capacità di capire? "Lo spazio tra Dio e l'uomo" , hanno scritto su un grande lenzuolo i giovani di Taizé, " o si riduce o restiamo soli". Come dire: chi ha avuto l'idea di scavare un abisso così grande tra la sua intoccabilità e le nostra contaminazioni? Se Dio è inaccessibile, può chiederci di essere amato? Ho sentito uno studente domandare:"La Chiesa è chiamata a stabilire soprattutto i peccati dell'uomo, e a dirgli continuamente "alzati e cammina" , o a camminare con lui?" Dietro queste domande, per trarre partito dalle mancate risposte, è sempre pronta una religiosità radicale, bigotta, incomunicabile, che basta solo a se stessa, prodotta da una luce che, anziché illuminare, stordisce. Ma poi, chi può affermare di essere più vicino a questa luce? Non è più umano riconoscere, come Rilke faceva dire addirittura a un angelo, di esserne tutti lontani? Non a caso ha trovato spazio persino la richiesta a Dio - una ribalda, ma direi religiosa richiesta - di darci la fede esentandoci dalla religione.

I giovani sanno che possono riappropriarsi delle ragioni per vivere, e di un progetto di salvezza, solo ritrovando il senso profondo della speranza. Una speranza che dovrà divenire qualcosa di provocante, tornando a essere scandalosa come la morte di Gesù sulla croce, sconfitta dalla resurrezione. Ecco perché così spesso, per questi giovani, Dio sta nel volto e nelle parole di Gesù, nel credito che il Padre si è guadagnato mandando il Figlio a dirci che per mezzo di Lui la morte era vinta. Sperare, così, non ha più un senso consolatorio e gratificante, non è più darsi senza volontà e senza peso a qualcosa che non costa e dovrà accadere comunque: è impegnarsi a correggere la storia inarcando da sponda a sponda, come ponti, amore e ragione, per saldare realtà e utopia, vita e morte, contingente e assoluto; è costruire, intanto, la propria sorte terrena, è fidarsi dell'uomo a dispetto dello spettacolo in cui, non di rado, trasformiamo la vita. Sperare, oggi significa sapere che non prevarrà la lezione del calcolo opportunistico e della trasgressione vincente, né il sospetto che non ci sia più nulla da immaginare e da volere perché tutto, ormai, si risolve nel compromesso, e quindi nella resa di ogni giorno. Pur riconoscendo il valore individuale della speranza, i giovani si interpellano sulla necessità che essa sappia essere anche collettiva: cioè personale e insieme storica. "Non verremo alla meta a uno a uno, ma a due a due", scrive il poeta francese Pal Eluard con l'anima, si direbbe, toccata dall'invito di Gesù. I giovani sanno che sperare, oggi, vuol dire farsi ottimisti anche socialmente, non accettando la vita come un silenzioso contenitore di fatti, ma sapendo ascoltare ciò che essa chiede impegnandoci a correggerla; non portare il peso delle cose così come stanno, e procedere con passo rassegnato, ma sentersi ogni giorno inaugurati e giustificati dal futuro, avendo come obiettivo la solidarietà, cioè l'amore per i poveri, gli umili, i deboli, gli emarginati, le minoranze soggette ai pregiudizi culturali, alle intolleranze ideologiche, alle violenze etniche. Forte è la richiesta dei giovani perché cadano i discrimini tra noi e la diversità. Questa richiesta si può cogliere anche nel gruppetto di ragazzi di varie razze e religioni che a Loreto si è "consorziata" per dire a Dio che la scelta di volerlo è comune; ed è buon segno che comincino a cadere gli steccati alzati dalle religioni, ciascuna intorno al suo Dio. Oppure nell'impegno espresso dal volontariato, che coltiva e rilancia lo spirito di una carità solidale, concreta, efficace. Tra le innumerevoli comunità di laici che hanno deciso di vivere il Vangelo secondo la pratica di ogni giorno penso a quella di Sant'Egidio, nata nel '68 in un liceo romano, il "Virgilio". L'immaginazione di quei giovani, per riandare a uno slogan del tempo, non era andata al potere, ma qualcosa di più serio e durevole aveva segnato il loro animo. Questa comunità, tutta profondamente cattolica, ispira il suo modello di vita a una religiosità totale; eppure nessuno, che io sappia, in tutti questi anni ha scelto di farsi prete o suora. "Oggi la fede ti mette addosso i panni del Vangelo", azzarda con gioia un ragazzo di Taizé, enfatizzando la profetica nudità di una tunica. Gesù, dicono, non aveva l'abito dei poveri e dei rifiutati?

Ecco perché capiscono meglio il Figlio, che dice cose divinamente umane. Ma se si vuole assimilare Gesù alla nostra condizione, riducendolo alla nostra misura con la sociologia, o la psicologia, sono ancora i giovani ad affermare che il grande passo della Chiesa è profetico, e che il suo linguaggio dovrà comprendere quello dell'annuncio e della promessa. Citano Abraham Heschel: "Non c'è nascita, e quindi speranza, in cui l'uomo e Dio non siano coinvolti insieme. Per realizzare il suo sogno, Dio deve entrare nei sogni dell'uomo e l'uomo deve poter sognare i sogni di Dio". Come dire che tutto è partecipe della nostra storia, che ogni evento prende il volto delle nostre azioni, che carne e spirito, desiderio e progetto sono una cosa sola in qualunque momento e luogo; che niente e nessuno, dunque, può separarci dalla nostra attualità. Sapendo che Gesù ci ha impegnato a spendere qui - in questa dolce, amara, santa vita - i nostri talenti. Qui dove ci giochiamo tutto. Per chi crede anche, e soprattutto, il dopo.

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