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La solidarietà – Impegno da attualizzare

Affrontare insieme le povertà di fine millennio
Mauro Niero

La storia della povertà nelle culture occidentali si è sempre intrecciata, nel tempo, con la storia della solidarietà per prevenirla o con i tentativi solidali di porvi rimedio. Ciò che si descriverà in questo breve contributo riguarda i rischi di povertà che si prospettano in questa fine millennio a causa del progressivo deterioramento delle solidarietà che consideriamo oggi tradizionali.

Fra questi tipi di solidarietà ne prenderò in considerazione due in particolare: la solidarietà istituzionalizzata fra lavoratori o fra cittadini, che ha dato vita al welfare state e la solidarietà basata sulle relazioni di mutuo aiuto nelle forme elementari della società: la comunità e la famiglia.

Povertà e crisi delle grandi solidarietà di stato: il welfare state

Il XX secolo è stato il secolo nel quale grandi solidarietà (di classe sociale o di cittadinanza) sono state istituzionalizzate e organizzate per fronteggiare il comune pericolo della povertà. Al welfare state, vale a dire il complesso di politiche prodotte da questo tipo di solidarietà, vengono riconosciuti meriti sostanziali nel garantire il sostentamento a chi non fosse in grado di lavorare (anziani, handicappati, inabili …), tutelando la salute attraverso prestazioni sanitarie, fornendo istruzione per un’adeguata partecipazione alla vita comune ecc.

Dall’altra parte sono ampiamente conosciuti anche i motivi per cui è esso entrato in crisi: la sua non-equità, l’inefficienza, la burocraticità, la sua invadenza nel privato dei cittadini, etc. Il motivo principale è tuttavia il costo del welfare state, che assorbe ricchezza impiegabile in altri settori della vita sociale; in particolare c’è il peso che si riversa sui costi del lavoro minando la competitività delle imprese.

Quest’ultimo aspetto diventato ancora più cruciale da quando l’imperativo delle economie occidentali è diventato quello di guadagnare competività nella partecipazione al “mercato globale”.

Per motivi interni e internazionali pare dunque inevitabile la riduzione della protezione che il welfare state, pure se in modo incompleto e per alcuni versi criticabile, ha fornito contro il pericolo della povertà.

Ciò significa che lo stato diverrà meno generoso, ma anche che esso lascerà probabilmente scoperte fasce di bisogni. Fra questi quelli che verranno prodotti dallo stesso meccanismo del mercato globale, che probabilmente farà diventare molto più consistenti  le fasce di disoccupazione o inoccupazione di lunga durata.

Le conseguenze sul sistema della povertà sono diverse. Spariranno le carriere; aumenterà la disoccupazione di persone in età troppo avanzata per essere riconvertite, troppo giovane per accedere al sistema pensionistico; crescerà la disoccupazione di lunga durata e una forte precarietà per quanto riguarda l’occupazione giovanile; la caduta fuori del mercato del lavoro colpirà sempre meno decisamente categorie definite (socialmente o sindacalmente) e sarà sempre più estesa e  dipendente da fattori casuali.

La gravità di nuovi fattori di povertà in una situazione di welfare state in ritiro sarà tanto maggiore quanto più le solidarietà (fra lavoratori o cittadini), che l’hanno generato, non avranno la possibilità di replicarsi. Le distanze che separeranno i lavoratori di luoghi diversi saranno anche distanze che impediranno una improbabile solidarietà planetaria.

Perfino la solidarietà tra le generazioni, che finora ha garantito alcuni meccanismi di protezione, come ad esempio quello pensionistico, correrà dei seri rischi dovuti alle disparità dei meccanismi previsti per le diverse generazioni di lavoratori. Intaccare le pensioni attualmente acquisite, d’altra parte, potrebbe metterci di fronte a quel problema di povertà di massa degli anziani che finora sembra essere stato evitato.

Infine vi sono dei meriti impropri del welfare state che finiranno di esistere creando nuovi rischi di povertà. Categorie come quelle degli insegnanti, degli operatori sociali e sanitari di vari livelli di specializzazione, creati dallo sviluppo del welfare state, risentiranno molto della de-regulation delle politiche sociali. Per certi versi il ritiro dello stato potrà essere controbilanciato dallo sviluppo del “terzo settore”. Tuttavia ciò avverrà in gran parte a costi bassi, col pericolo di un paradosso della solidarietà in cui operatori che operano contro la povertà del prossimo, mal retribuiti e scarsamente garantiti, potrebbero trovarsi a loro volta a rischio di povertà.

Povertà e crisi delle solidarietà comunitarie

Il welfare state italiano è stato costruito fornendo garanzie totali a categorie solidali al loro interno (lavoratori o gruppi di lavoratori) piuttosto che dedicare maggiore attenzione alle forme sociali primarie, la famiglia e la comunità, come sembra avvenire solo di recente, di fronte ad una crisi dei sistemi di sicurezza sociale.

In questo scenario, che potremmo definire micro, trovano posto forme di solidarietà che sono da sempre basate sul mutuo aiuto, tipiche delle forme elementari della società. Défaillances di queste solidarietà sono sempre state alla base di percorsi di povertà (dovuti alla mancanza di una famiglia, di un gruppo di sostegno, etc..). L’attuale depauperamento di questo tessuto primario è tanto più grave se legato alla crisi del welfare state perché non è in grado di produrre gli effetti-salvataggio che la famiglia potrebbe garantire. Tutto questo lascia già trasparire situazioni di povertà che probabilmente tenderanno ad aumentare in futuro.

Il fenomeno della disgregazione delle “reti” familiari ha radici nelle vicende socioeconomiche dei paesi occidentali che hanno fatto da sfondo ad un cambiamento nella struttura familiare, alla crescente emancipazione della donna, ai cambiamenti riguardanti la sfera della procreazione… La caduta della natalità che in tutta Europa l’ha accompagnata a partire dalla metà degli anni ‘60, ha creato parecchi allarmi, che in Italia sono stati accolti tuttavia solo di recente.

Di alcuni dei suoi effetti si è già detto a proposito del conflitto intergenerazionale, e non può sfuggire che esso metterà a serio repentaglio le residue capacità della famiglia di “produrre assistenza”. Purtroppo questo avverrà mentre, oltre ad un forte aumento del numero di anziani, si verificherà anche un aumento della loro sopravvivenza con una qualità di vita sempre più precaria (ad esempio con l’aumento delle demenze e della non-autosufficienza).

L’intreccio e le complementarietà fra denatalità e nuove tipologie familiari ha messo in luce un progressivo aumento dei single. Anche questa è una situazione di rischio di povertà, che viene puntualmente messa in luce dalle statistiche. Questa categoria infatti, al di là del nome, include prevalentemente donne anziane, sulle quali si riversano le storie di lavoro incomplete che danno luogo alla loro insufficiente copertura sul piano pensionistico. I fenomeni di instabilità familiare che sono richiamati anche dal preoccupante aumento dei single sembrano tuttavia manifestarsi con proporzioni diverse da quanto avviene nel Centro e Nord Europa: i tassi di divorzio del nostro paese sono in assoluto i più bassi d’Europa; così pure le nascite fuori dal matrimonio (per citare degli ordini di grandezza: Danimarca 46.5%, Italia 6.6% nel 1991); anche la percentuale delle famiglie monoparentali è molto al di sotto della metà rispetto ai paesi del centro-Europa. Queste cifre, apparentemente tranquillizzanti, nascondono tuttavia aspetti preoccupanti in linea di prospettiva, non solo perché alcune di esse sono in espansione, ma soprattutto perché chi cade in queste situazioni ha fortissime probabilità di entrare in povertà, come testimoniano, oltre alle statistiche, le crescenti richieste di aiuto economico da parte di madri sole con bambini.

Questo in generale, porta a riflettere sulla maggiore drammaticità nei modi in cui traumi di vita quotidiana vengono assorbiti dal tessuto sociale. La morte di un coniuge, una separazione, possono riflettersi con straordinaria velocità sulle condizioni del nucleo; situazioni di vita di "medio benessere" possono perciò trasformarsi rapidamente in percorsi di povertà soprattutto per i componenti più deboli. Ciò accade perché vi sono pezzi del tessuto sociale che non esistono più e l’effetto-famiglia allargata (pure nelle nuove forme in cui non si convive fisicamente) che fino ad alcuni anni fa persisteva efficacemente in alcune parti del paese, sembra perdere via via le proprie capacità di supporto solidale.

Ma vi è anche una povertà “della normalità” che diventa sempre più evidente. Famiglie con un solo reddito, anche con una posizione non marginale di chi lo guadagna, finiscono facilmente al di sotto della linea della povertà se debbono (ad esempio) pagare un affitto e mantenere due figli. Molte di queste famiglie, pur se in stato di bisogno, non possono ricevere assistenza pubblica.

A questo vanno aggiunti fenomeni come quello delle povertà estreme e delle altre forme di indigenza che richiamano puntualmente il problema dei fallimenti relazionali, che hanno origine nello sfilacciamento dei sistemi di solidarietà familiare-comunitario  oltre a quelli legati a particolari condizioni di vita: problemi di inserimento sociale di persone uscite dal carcere, tossicodipendenti, alcolisti, malati di mente, fino a tutti quei casi che vivono in silenzio la propria povertà, si potrebbe dire “in modo dignitoso”, ma ugualmente in stato di profonda deprivazione.

Un esame di coscienza per l’anno giubilare

Quando si esamina l’evoluzione dei bisogni nelle società contemporanee, non è difficile farsi prendere dal pessimismo. Lo stesso termine povertà ha subito un’evoluzione: da singolare è diventato plurale, poiché oggi esistono molte e diverse povertà: materiali e immateriali, assolute e relative, legate alla mancanza di beni, di opportunità, di cultura, di relazioni, di senso, di valori…

L’attenzione cristiana del ecclesiale alle povertà del nostro tempo induce alcune considerazioni: in primo luogo sarebbe fuori luogo interpretare la frase di Gesù “i poveri li avrete sempre con voi” come una sorta di maledizione, un invito a desistere nella lotta contro le povertà; piuttosto ci pare che il senso profondo della frase sia che la collocazione della Chiesa non potrà che essere, con Gesù, dalla parte dei poveri, dei piccoli, degli emarginati.

In secondo luogo, l’impegno per il bene comune - uno dei capisaldi dell’insegnamento sociale della Chiesa - va attualizzato in ogni luogo e tempo; il fatto che società molto avanzate nello sviluppo vedano crescere al loro interno nuove sacche di povertà (e inoltre non sappiano diminuire il divario rispetto ai popoli più poveri) sta a dire che, in materia di organizzazione economico/sociale, non ci si può accontentare di luoghi comuni, di tendenze economiche liberiste dichiarate inarrestabili e inevitabili: sviluppo e progresso è solo ciò che promuove e libera tutta la persona e un sempre maggior numero di persone.

Infine, percepiamo come il Giubileo vada attualizzato: se per Israele significava interrompere per un anno meccanismi di distribuzione della ricchezza che erano fonte di accumulazione per alcuni e impoverimento per altri, le nostre Chiese nel corso dell’anno giubilare possono proporre un serio esame di coscienza sul tipo di rapporti sociali ed economici instauratisi all’interno delle società “progredite”. E ogni credente che gode di condizioni economiche sicure, che possiede qualcosa di più degli altri, non può non interrogarsi su impegni di condivisione da lui praticabili verso chi sta peggio di lui.

Una paio di domande riguardano in particolare chi ha responsabilità politiche ed economiche, ma anche ogni cittadino, soggetto sovrano in uno stato democratico: ha senso preoccuparsi del proprio benessere (come singoli, famiglie, categorie, pezzi di territorio) senza ricercare contemporaneamente quello complessivo della comunità di cui si fa parte? E come possiamo dire Padre Nostro senza pensare ai bisogni dell’intera famiglia umana?

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