Creare e alimentare i segni di un nuovo dialogo - Rino Fisichella
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"RADICI DELL'ANTIGIUDAISMO IN AMBIENTE CRISTIANO"

CREARE E ALIMENTARE I SEGNI DI UN NUOVO DIALOGO

Rino Fisichella

L'aggettivo "intraecclesiale" che accompagna e qualifica il Simposio sulle "Radici dell'antigiudaismo in ambiente cristiano" non è una scelta casuale. Esso, al contrario, intende specificare la natura della riflessione che viene compiuta e le finalità a cui tende. Ogni ricerca scientifica parte necessariamente da alcune premesse che orientano lo studio e impongono una metodologia che possa raggiungere dati concreti con gli obiettivi prefissati. La stessa cosa si verifica per questo Simposio che pone alla base lo studio sulle radici dell'antigiudaismo a partire dalla peculiare riflessione teologica.

La teologia nel momento in cui si pone nell'orizzonte della scienza fa emergere in maniera chiara la sua peculiarità. Essa, infatti, procede attraverso una metodologia scientifica, sapendo tuttavia che la fede sta all'origine delle sue affermazioni. Ogni ricerca teologica che voglia essere scientifica, pertanto, deve partire dai contenuti della rivelazione e favorire un'intelligenza più chiara e più profonda della fede e della vita personale. Questa premessa non è ovvia nel momento in cui si vuole valutare la peculiarità del Simposio sulle radici dell'antigiudaismo e il suo obiettivo di fondo. L'aggettivo intraecclesiale, pertanto, dice che la componente che si riconosce in questa riflessione ha una matrice comune determinata primariamente dalla fede in Cristo. Ciò che sarà oggetto di studio e di dibattito mira a chiarificare il contenuto della fede, perché essa possa incidere meglio nella vita dei credenti. Altre argomentazioni, connesse con il tema in questione e che farebbero felici alcuni osservatori, non sono, quindi, l'oggetto né diretto né primario di queste giornate di studio. Rincorrere questi sentieri porterebbe, inevitabilmente, a deludere le aspettative di quanti attendono da questo Simposio risultati che esulano dalla sua competenza.

La rivelazione di Dio all'umanità è stata fatta in tempi diversi e con modalità differenti, ma un punto decisivo e fondamentale è costituito dalla scelta di Israele come popolo dell'Alleanza. L'elezione di Israele come «popolo che Dio si è scelto» permane come il punto di non ritorno della sua rivelazione nella nostra storia. Non considerare questa realtà equivale a tradire il piano di salvezza e a non comprendere la storia della rivelazione. La teologia ha un compito non facile nel momento in cui deve salvaguardare i dati della rivelazione spiegandoli nei diversi contesti, e capire come storicamente essi sono stati compresi e interpretati. I cristiani, come tutti, sono figli del loro tempo. Ciò che essi hanno compreso ed espresso dei contenuti della loro fede è stato compiuto alla luce del comune maturare dell'intelligenza dell'uomo.; ciò che essi hanno frainteso non compromette, in ogni caso, la verità dei contenuti rivelati.

C'è, dunque, un punto di partenza essenziale in questa problematica che trova la sua espressione più qualificante nelle parole del Concilio Vaticano II: «La Chiesa di Cristo riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei Patriarchi, Mosè e i Profeti. Essa afferma che tutti i fedeli in Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo Patriarca e che la salvezza della Chiesa è misteriosamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo la Chiesa non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'Antica Alleanza e che si nutre dalla radice dell'ulivo selvaggio che sono i Gentili» (Nostra Aetate, 4). Teologicamente, come si nota, si dovrà verificare la continuità e la novità nel rapporto tra i due Testamenti e i due popoli, senza possibilità alcuna di poter giungere a forme di contrapposizione. La fede non può giustificare alcuna forma di antigiudaismo né le radici di questo possono essere trovate nella parola del Signore trasmessa dalla sua Chiesa. La teologia che permette alla fede di raggiungere un'intelligenza più profonda dei suoi contenuti e con la forza dell'argomentazione ne permette la comunicazione coerente presso i contemporanei diventa, a questo punto, una seria provocazione per la cultura.

Questo Simposio intraecclesiale porta con sé una forza oggettiva che può favorire un'autentica promozione culturale. La cultura, come ben si sa, si estende su diversi livelli. È cultura il progresso scientifico che permette di raggiungere gradi del sapere sempre più profondi e manifestazioni della verità sempre più genuini. Sono altrettanto cultura il linguaggio e i comportamenti del popolo che esprimono il diverso grado di civiltà raggiunto. I risultati di questo Simposio tendono a muoversi su ambedue questi livelli pur nella peculiarità del soggetto che li propone. La Chiesa nel corso dei suoi duemila anni di storia non ha mai ostacolato il vero progresso della cultura, anzi, ne è stata spesso all'origine. Ci sono, tuttavia, due grandi nemici che attentano sempre al progresso della cultura: l'ignoranza e la reticenza. L'ignoranza purtroppo non ha confini e spazia dovunque; essa si esprime spesso nel ricalcare luoghi comuni o nel dare sfogo alla propria superbia con tesi preconcette e unilaterali. Ne deriva, il più delle volte, la rinuncia a dover pensare, per la presunzione di sapere già ogni cosa, la caduta nell'ovvietà è il destino più facile per chi persegue questa strada. La reticenza, invece, alberga presso una cerchia più ristretta di persone. Essa si fa forte del potere e pretende il possesso della verità. L'arroganza e la menzogna le sono spesso compagne di viaggio e, insieme, tramano per non consentire che la verità sia patrimonio di tutti.

Anche un Simposio come il nostro può aiutare a ferire mortalmente questi due nemici e a creare le condizioni perché ognuno sia responsabile nel permettere che la strada verso la verità sia percorsa per intero. In un periodo come quello presente che ha sempre più sete di sapere e che, all'opposto e contraddittoriamente, presenta modelli di esistenza effimeri, si pone in maniera urgente l'esigenza di perseguire la strada della promozione culturale. Il Simposio punta il dito sulle "radici" dell'antigiudaismo proprio perché il male venga estirpato alla base, senza accontentarsi di operazioni estetiche che nascondono senza risolvere.

Sarà in grado di produrre qualche effetto? Questo dipende da molti fattori. In primo luogo, dalla capacità di saper cogliere i suoi risultati con animo libero. Partecipano a queste giornate di dibattito i più grandi specialisti cristiani della materia; ciò che li raccoglie è il desiderio di condividere l'un l'altro i dati della propria ricerca alla luce di un dialogo scientifico in cui ognuno sa farsi carico del risultato dell'altro senza per questo pensare che sia alternativo al proprio. La comunicazione corretta non emarginata in poche righe, ma con il rilievo dovuto a una informazione che tende a promuovere cultura e non essere semplice notizia, può aiutare molto in questa fase. In secondo luogo, si dovrà valutare il coraggio per aver sollevato la questione. Nulla può essere preteso da nessuno se non l'amore per la verità. Questo Simposio, e in parte ancora più rilevante il prossimo sulle Inquisizioni, mostra che appartiene al centro della fede il vivere per la verità nella carità. Non si deve avere timore della verità; è l'unica strada per essere autenticamente liberi. Senza una verità storica sui fatti che coinvolgono tutti non è possibile progredire nel cammino verso forme di unità che sono alla base del vivere civile. Studiando le radici dell'antigiudaismo si potrà contribuire a superare i malintesi che possono avere diviso nel passato; si aiuterà a scoprire le peculiarità proprie alle due fedi e si spingerà a guardare al futuro con maggior serenità senza rinchiudersi in steccati che non hanno mai avuto ragione d'esistere.

Questo Simposio, infine, è stato pensato per corrispondere al vivo desiderio di Giovanni Paolo II quando ha scritto nella Tertio Millennio Adveniente «La Chiesa non può varcare la soglia del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a purificarsi, nel pentimento, da errori e infedeltà, incoerenze e ritardi. Riconoscere i cedimenti di ieri è atto di lealtà e di coraggio che ci aiuta a rafforzare la nostra fede» (TMA n.33). Non è possibile al momento sapere quali risultati il Simposio raggiungerà e non è giusto dare per acquisito ciò che ancora deve essere dimostrato. In ogni caso, già l'aver preso coscienza di questo fatto è fondamentale per ribadire una cultura del perdono che in questi anni sta subendo un autentico attentato. La Chiesa che si fa carico di chiedere perdono per le colpe dei suoi figli dà segno di estrema efficacia nei confronti di una cultura che tende a nascondere le responsabilità e a preferire la vendetta e l'odio al perdono. Questi sentimenti, d'altronde, non appartengono alla nostra cultura sorta, invece, all'orizzonte dell'amore universale che sa farsi carico anche della colpa distrutta nella morte dell'innocente. Saper chiedere perdono non è un atto di debolezza; al contrario, esprime una grande libertà, per questo è segno di autentico progresso.

La sfida, dunque, si pone nella capacità di sapere creare nuove espressioni culturali con nuovi linguaggi e comportamenti che siano in grado di aiutare soprattutto le nuove generazioni a guardare verso ogni persona e popolo per la ricchezza che possiede e non per i limiti che vengono arbitrariamente stabiliti. Se il Simposio potrà contribuire a questo cammino anche solo aiutando a discernere le necessarie e dovute distinzioni che una così complessa problematica comporta, allora avrà raggiunto un risultato non certo trascurabile.

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