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"RADICI DELL'ANTIGIUDAISMO IN AMBIENTE CRISTIANO"

Dal discorso pronunciato il 13 aprile 1986 da Giovanni Paolo II nel corso della visita alla Sinagoga di Roma.

«Questo incontro conclude, in certo modo, dopo il Pontificato di Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, un lungo periodo sul quale occorre non stancarsi di riflettere per trarne gli opportuni insegnamenti. Certo non si può, né si deve, dimenticare che le circostanze storiche del passato furono ben diverse da quelle che sono venute faticosamente maturando nei secoli; alla comune accettazione di una legittima pluralità sul piano sociale, civile e religioso si è pervenuti con grandi difficoltà. La considerazione dei secolari condizionamenti culturali non potrebbe tuttavia impedire di riconoscere che gli atti di discriminazione, di ingiustificata limitazione della libertà religiosa, di oppressione anche sul piano della libertà civile, nei confronti degli Ebrei, sono stati oggettivamente manifestazioni gravemente deplorevoli. Sì, ancora una volta, per mezzo mio, la Chiesa, con le parole del ben noto Decreto "Nostra aetate" (n. 4), "deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo da chiunque"; ripeto: "da chiunque".

Una parola di esecrazione vorrei una volta ancora esprimere per il genocidio decretato durante l'ultima guerra contro il popolo ebreo e che ha portato all'olocausto di milioni di vittime innocenti. Visitando il 7 giugno 1979 il lager di Auschwitz e raccogliendomi in preghiera per le tante vittime di diverse nazioni, mi sono soffermato in particolare davanti alla lapide con l'iscrizione in lingua ebraica, manifestando così i sentimenti del mio animo: "Questa iscrizione suscita il ricordo del Popolo, i cui figli e figlie erano destinati allo sterminio totale. Questo Popolo ha la sua origine da Abramo, che è padre della nostra fede, come si è espresso Paolo di Tarso. Proprio questo Popolo, che ha ricevuto da Dio il comandamento "non uccidere", ha provato su se stesso in misura particolare che cosa significa l'uccidere. Davanti a questa lapide non è lecito a nessuno di passare oltre con indifferenza" (Insegnamenti 1979, p. 1484).

Anche la Comunità ebraica di Roma pagò un alto prezzo di sangue. Ed è stato certamente un gesto significativo che, negli anni bui della persecuzione razziale, le porte dei nostri conventi, delle nostre chiese, del Seminario Romano, di edifici della Santa Sede e della stessa Città del Vaticano si siano spalancate per offrire rifugio e salvezza a tanti Ebrei di Roma, braccati dai persecutori.

A nessuno sfugge che la divergenza fondamentale fin dalle origini è l'adesione di noi Cristiani alla persona e all'insegnamento di Gesù di Nazareth, figlio del vostro popolo, dal quale sono nati anche Maria Vergine, gli Apostoli, "fondamento e colonne della Chiesa", e la maggioranza dei membri della prima comunità cristiana. Ma questa adesione si pone nell'ordine della fede, cioè nell'assenso libero dell'intelligenza e del cuore guidati dallo Spirito, e non può mai essere oggetto di una pressione esteriore, in un senso o nell'altro; è questo il motivo per il quale noi siamo disposti ad approfondire il dialogo in lealtà e in amicizia, nel rispetto delle intime convinzioni degli uni e degli altri, prendendo come base fondamentale gli elementi della Rivelazione che abbiamo in comune, come "grande patrimonio spirituale" (cfr. Nostra Aetate, n. 4).

Siamo tutti consapevoli che, tra le molte ricchezze di questo numero 4 della "Nostra Aetate", tre punti sono specialmente rilevanti. Vorrei sottolinearli qui, davanti a voi, in questa circostanza veramente unica. Il primo è che la Chiesa di Cristo scopre il suo "legame" con l'Ebraismo "scrutando il suo proprio mistero" (cfr. Nostra Aetate, ib.). La religione ebraica non ci è "estrinseca", ma in un certo qual modo, è "intrinseca" alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun'altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori.

Il secondo punto rilevato dal Concilio è che agli Ebrei, come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò "che è stato fatto nella passione di Gesù" (cfr. Nostra Aetate, ib.). Non indistintamente agli Ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. È quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno "secondo le proprie opere", gli Ebrei come i Cristiani (cfr. Rm 2,6).

Il terzo punto che vorrei sottolineare nella Dichiarazione conciliare è la conseguenza del secondo; non è lecito a dire, nonostante la coscienza che la Chiesa ha della propria identità, che gli Ebrei sono "reprobi o maledetti", come se ciò fosse insegnato, o potesse venire dedotto dalle Sacre Scritture (cfr. Nostra Aetate, ib.), dell'Antico come del Nuovo Testamento. Anzi, aveva detto prima il Concilio, in questo stesso brano della "Nostra Aetate", ma anche nella Costituzione dogmatica "Lumen Gentium" (n. 6), citando San Paolo nella lettera ai Romani (11, 28 s), che gli Ebrei "rimangono carissimi a Dio", che li ha chiamati con una "vocazione irrevocabile"».

Dal discorso del Santo Padre in occasione della visita in Vaticano del Rabbino Capo di Roma Elio Toaff a 10 anni dall'incontro di Giovanni Paolo II con la Comunità ebraica di Roma.

«Il nuovo spirito di amicizia e di sollecitudine reciproca, che caratterizza le relazioni cattoliche-ebraiche, può costituire il simbolo più importante che ebrei e cattolici hanno da offrire ad un mondo inquieto, che non sa risolversi a riconoscere il primato dell'amore sull'odio. Le domande dell'Altissimo nel Libro della Genesi: "Dove sei?", "Dov'è tuo fratello" (Gen 3, 9; 4, 9), continuano a risuonare anche nel nostro mondo sollecitando gli uomini di oggi ad incontrarsi, a conoscersi tra loro, ad imparare gli uni dagli altri. Esse impongono loro di rispondere insieme alle comuni sfide della storia, per elaborare soluzioni soddisfacenti ai problemi incombenti».

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