Una bisaccia da viaggio per il terzo millennio - Card. Roger Etchegaray
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GIUBILEO: TEMI E PROSPETTIVE

UNA BISACCIA DA VIAGGIO PER IL TERZO MILLENNIO

Card. Roger Etchegaray

Sono stati felicemente definiti «Dialoghi in Cattedrale», e sono in realtà incontri di cultura e di spiritualità sui temi della fede e della ricerca di Dio. La sede è la Basilica di San Giovanni in Laterano, i protagonisti generalmente un autorevole esponente del mondo ecclesiale e un rappresentante della cultura contemporanea. L'orizzonte culturale è quello della fine del Millennio, con le attese, le speranze ma anche gli interrogativi e le angosce descritte nella Tertio Millennio Adveniente; il pubblico infine, sempre vasto e attento, è formato da professionisti, intellettuali, uomini e donne di cultura, politici, in genere personalità attente a cogliere, magari da angolazioni culturali diverse, i «segni dei tempi».

Dopo il felice inizio nel 1996, il Cardinale Camillo Ruini, promotore dell'iniziativa nell'ambito della Missione cittadina indetta dal Papa in preparazione al Giubileo, ha convocato per il 20 novembre a San Giovanni il Cardinale Roger Etchegaray, presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace e presidente del Comitato Centrale per la preparazione del Grande Giubileo del 2000, e il professor Giuliano Amato, docente universitario, già presidente del Consiglio dei ministri e attualmente presidente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato. Argomento del loro colloquio, seguito da un pubblico attento e partecipe, «Una bisaccia da viaggio per il terzo millennio». I prossimi incontri in programma prevedono un faccia a faccia tra Don Bruno Forte e il critico Piero Citati su «Quella domanda che è la morte» (27 gennaio 1998), ed una conversazione su «Il mondo, la scienza e Dio», del prof. Ugo Amaldi, del Centro di ricerche nucleari di Ginevra (28 aprile 1998). Sono già iniziati, intanto altri incontri di spiritualità rivolti a specifiche categorie professionali: artisti, operatori economici e sociali, politici, giornalisti.

Pur partendo da convinzioni diverse, il Cardinale Etchegaray e il prof. Amato hanno convenuto sul fatto che comunque la «bisaccia», cioè l'eredità con cui l'uomo di questa fine di secolo si affaccia alla soglia del terzo millennio, non deve essere ingombrante. Il Cardinale Etchegaray, il cui intervento pubblichiamo quasi integralmente, ha posto in primo piano il tema delle Beatitudini; il suo interlocutore, che ha riconosciuto il «ruolo grandissimo» della religione nel salvaguardare in questo passaggio d'epoca le esigenze di ordine morale, ha sottolineato l'attenzione al singolo, spesso attanagliato dalla solitudine; e ha indicato come esempio Giovanni Paolo II, il quale in virtù della fede che lo anima «riesce a parlare a ciascuno di quelli che ascoltano, non alla folla».

Per questo primo incontro «Fede e ricerca di Dio», nel quadro della Grande Missione cittadina, il Cardinal Ruini si è limitato a consegnare al Professor Giuliano Amato e a me una bisaccia da viaggio dicendoci - con una punta di malizia - «riempitela come vi pare e... avanti verso il terzo millennio!».

Da parte mia, come alpinista sono stato abituato a mettere il minimo delle cose nel mio zaino, appena l'essenziale per sostenere la marcia e arrivare in cima con il peso più leggero possibile. Questa sera, da vecchia volpe della missione (ho da poco celebrato i miei cinquant'anni di sacerdozio), cercherò di dirvi quello che mi sembra essere l'essenziale per far varcare al cristiano e alla Chiesa la soglia di un nuovo millennio, mentre alcuni si preoccupano già di prenotare - il colmo della futilità - una tavola per il veglione di quella data così affascinante!

Oggi siamo provocati a ritrovare l'essenziale della fede per tenerlo saldamente. In un periodo di crisi, in una situazione d'urgenza, si mette al sicuro il cibo piuttosto che il vasellame, si protegge il motore dell'automobile piuttosto che la carrozzeria, si salva dalle fiamme il proprio figlio piuttosto che il ritratto della nonna! Qual è dunque l'essenziale della mia fede? Molto semplicemente, è Gesù Cristo. Penso spesso a quanto scriveva Pascal, uno di quei rari testimoni nella cui persona si sono congiunti il genio umano e quello religioso, il sapiente e il mistico. Egli ha affermato: «Non solo conosciamo Dio unicamente tramite Gesù Cristo, ma conosciamo noi stessi unicamente tramite Gesù Cristo».

Gesù Cristo, «vero Dio e vero uomo», è la profondità della mia vita. Più ci penso, più tale evidenza si fa in me concreta scoperta, viva esperienza. Gesù Cristo non è una presenza aggiuntiva, qualcuno da amare più degli altri, a parte dagli altri. Senza di Lui, resto confinato alla superficie degli altri... e di me stesso. Senza di lui, tutto diventerebbe insignificante. Senza di Lui, non potrei raccogliere tutte le sfide di questo mondo. Se dovessi definire la nostra epoca, lo farei proprio con la parola «sfida». Forse è la parola più corrente del linguaggio moderno. Oggi, tutto è diventato o almeno è percepito come una sfida, esprimendo così la precarietà, l'incertezza, perfino l'angoscia di un essere umano che si sente provocato, minacciato, talvolta addirittura aggredito. L'uomo ha sempre avuto la vocazione del futuro, ma oggi ne ha l'ossessione. L'uomo, la cui missione è quella di costruire il futuro, non ha più voglia del futuro. L'uomo moderno ha paura di abitare il futuro, la sua dimora ancestrale. Se il futuro è uno specchio, non si sente più sicuro di riconoscervisi; se è una scena, di esserne il regista; se è un messaggio, di sopportarne il peso. L'accelerazione, la radicalizzazione dei mutamenti lo fanno ripiegare nell'effimero, lo fanno rifugiare nel provvisorio. Lo scoppio dei comuni sistemi di riferimento impoverisce i suoi linguaggi, frantuma i suoi dialoghi, estenua finanche i suoi monologhi.

Investito dall'esterno e dall'interno, l'uomo della fine di questo millennio è presentato da alcuni come quello della «fine della storia». Davanti alla cancellazione dei tratti che caratterizzano l'uomo da diversi millenni, i tempi che arrivano rischiano di prendere una figura millenarista, in cui l'escatologia si sostituisce alla Genesi invece di assumerla, in cui l'uomo si identifica con il cambiamento invece di dominarlo e d'interpretarlo. Ciò che definisce l'uomo non è la sua capacità di bucare il muro del suono, ma la sua certezza di bucare il muro del senso. E' precisamente quello il punto in cui si situa il Cristo di Pascal, che in fondo è il Cristo in cui tutto si «ricapitola», quale San Paolo l'aveva presentato nella sua lettera ai Corinzi (Col 1,15-20) e quale Sant'Ireneo l'aveva successivamente descritto. Non conosco niente di più stimolante per noi che innalzarci al livello stesso in cui si gioca l'avvenire dell'uomo. Non a caso Papa Giovanni Paolo II ha voluto fare del prossimo Giubileo un grande Avvento.

Non so se avete notato che ogni Avvento inizia liturgicamente con il racconto della fine dei tempi. Il cristiano, uomo dell'Avvento, è colui il quale per leggere il gran libro della storia comincia sempre dalla fine. È la ragione per cui il cristiano non ha mai paura del futuro, perché il futuro gli appare magnetizzato dal peso stesso della salvezza già acquisita, calamitato da un tempo già riscattato dal sangue di Cristo. «La Chiesa - diceva il Patriarca Atenagora a Paolo VI - è quella che si ricorda del futuro». Cristo, che essa presenta come il secondo Adamo o meglio come il vero Adamo, ci permette di ricapitolare, d'abbracciare con un solo sguardo e senza battere ciglio tutti i secoli, tutti i millenni passati e futuri. Il nome stesso di Adamo si estende all'uomo e a colui mediante il quale l'uomo si compie: il Salvatore è anteriore al peccatore. Cristo «ricapitola» e condensa a tal punto in sé tutte le cose, di Dio e dell'uomo, che non esiste fuori di lui alcun universo di ricambio: egli ha messo per sempre la storia sotto il segno della Resurrezione.

Il Grande Giubileo verrà semplicemente a testimoniare, davanti a tutta l'umanità, duemila anni di sovrana e gioiosa libertà dei cristiani: sulla soglia di un terzo millennio, questo futuro, questo orizzonte che polarizza e struttura la nostra esistenza, è ancora e sempre Cristo: Christus heri, hodie et semper. Eccomi dunque in marcia verso il terzo millennio con una bisaccia da viaggio. Se tutto il mio essere (anima e corpo) è orientato (si tratta della parola giusta) verso quel sole sorgente che è Cristo, cosa pensate che possa infilare di leggero nella bisaccia per riprendere le forze? Soltanto otto parole, tra le più fortificanti pronunciate da Cristo: le otto beatitudini. Sono come una melopea, o piuttosto un bolero lancinante che non cessa di pungolarvi per otto volte: beati! beati! Una parola che, nel suo primitivo sapore ebraico, è tradotta da André Chouraqui con «in marcia!», «in marcia!». Dopo ogni Beatitudine, la voce ritorna al suo punto di partenza, essa ridice la stessa felicità, essa raddoppia lo stesso slancio per rimbalzare ogni volta grondante di esultanza. Mentre risuona urta i luoghi comuni, rivolta le vecchie evidenze, sposta le montagne e fa scoprire nuovi orizzonti. Le Beatitudini ci chiedono di andare in contropiede a quanto facciamo abitualmente. Cristo mi insegna a guardare il mondo alla rovescia e a trovarvi il lato buono delle cose, il vero della vita.

Ascoltate quello che scandisce il mio cammino:
Beati i poveri! Beati i miti! Beati gli afflitti!
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia!
Beati i misericordiosi!
Beati i puri di cuore! Beati gli operatori di pace! Beati i perseguitati per causa della giustizia!

A forza di martellare le Beatitudini, vedo delinearsi davanti a me molto più che un tipo d'uomo: vedo apparire un certo uomo, un certo viso, il vero volto di Cristo, compagno e non solo meta del mio cammino. Egli non ha parlato per gli altri, ma ha indirizzato a sé stesso quello che ha vissuto, quello che è. Tutto ciò è bello, è trascinante soprattutto quando la strada diventa un sentiero ripido, scosceso. Tuttavia, vi confesso che ho qualche scrupolo ad avanzare così con la mia bisaccia, mentre ci troviamo nella missione cittadina, una missione apostolica. Ho appena riletto, nel Vangelo di Matteo, il celebre discorso della Missione, pronunciato da Gesù quando «andava attorno per tutte le città e i villaggi... predicando il vangelo del regno...» (Mt 9,35).

Chiamando i Dodici per inviarli in missione raccomanda: «Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone...» (Mt 10,9). Francesco d'Assisi, sentendo tali parole, gettò il bastone che aveva a casa: egli seguiva il Vangelo alla lettera, senza glosse. Quanto a me, non dovrei abbandonare la bisaccia? Qui, a mezza strada della mia conferenza, vorrei rivedere più da vicino quello che il Vangelo mi chiede e perciò vorrei fermarmi un istante sulla prima Beatitudine, che riassume tutte le altre, tanto più che il programma evangelico quale Cristo stesso l'ha presentato nella sinagoga di Nazaret, all'inizio della sua missione, è centrato sui poveri (cf. Lc 4,16-21).

Ancor più, al termine della missione affidata a ogni cristiano, nell'ora del Giudizio finale (cf. Mt 25,31-46), il povero nei suoi tratti più realistici, più crudi, sarà la pietra di paragone che separerà i buoni dai cattivi: «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me...». Così, in definitiva, non è il Signore che ci giudicherà, ma il povero, identificato al Signore, che diverrà il silenzioso giudice di ognuno di noi. La presenza in mezzo ai poveri, la solidarietà con i poveri, è la chiave d'oro che schiude la salvezza per tutti.

Ora, non vi parlo però della Chiesa dei poveri: tutta una teologia e tutta una pratica si sono sviluppate in seguito al Concilio Vaticano II. La Chiesa di Roma, con le sue iniziative caritative stimolate da profeti come Don Luigi di Liegro, mostra chiaramente che la Chiesa non sarebbe la stessa senza i poveri. Ciò che mi sembra importante questa sera è vedere perché la relazione con i poveri è ciò che si chiama un «criterio di ecclesialità», ossia il segno distintivo che deriva dalla natura stessa della Chiesa. Insomma, come passare da una Chiesa dei poveri a una Chiesa interamente povera? Si tratta di una questione affrontata raramente, per lo meno di petto, perché è una delle questioni più provocanti e anche più misteriose: infatti, riguarda Dio che si è fatto non solo Uomo, ma anche Povero.

Solo una Chiesa povera diventa una Chiesa missionaria e solo una Chiesa missionaria richiede una Chiesa povera. Chi non conosce il morso della povertà sulla propria carne non può affinare il suo sguardo per avvistare i poveri nei recessi dove si nascondono o per riconoscerli nelle nuove situazioni che oggi li nascondono. Il paradosso della nostra epoca è che il mondo è sensibile al dramma dei poveri con una mentalità di ricco, mentre la Chiesa vi si accosta con un cuore di povero. Donde il gigantesco equivoco esistente tra la povertà economica e quella evangelica. Come spiegare che si può conciliare una povertà da combattere con una povertà da abbracciare? Come far comprendere la ricerca spirituale di ciò che è senza prezzo in un'economia sottoposta alla legge dei costi? Come fare posto alla gratuità di un atto in una civiltà di mercanti? Nella società dei consumi, la Beatitudine della povertà appare come un lusso o come un oggetto di derisione.

Nondimeno, il Vangelo riassume la vita cristiana nella scelta radicale tra due padroni: «Non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24), dove mammona è la parola con cui Cristo arriva a personificare il danaro, quasi una sorta di anti-Dio. È più difficile identificare mammona che Dio, perché si presenta sotto abiti cangianti, intessuti di finzioni. Bisogna apparire per avere, ecco perché domina la menzogna; e bisogna avere per apparire, ecco perché regna il danaro. Un circolo vizioso nel duplice significato della parola, aggravato oggi dalla corruzione, questa peste dei tempi moderni.

Cristo proclama: Beati i Poveri; tale Beatitudine ci è pervenuta in due versioni: una più realista («Beati voi poveri», secondo Luca), l'altra più spiritualista («Beati i poveri in spirito», secondo Matteo). Non bisogna però preoccuparsi troppo delle sfumature prima di aver compreso il pensiero di Cristo nella sua tranquilla pienezza e nella sua terribile nudità, soprattutto in un campo in cui l'illusione della buona fede è da temersi più che altrove. Va tutto bene finché non si tocca la nostra comodità e bastano così poche cose per essere ricchi! Basta un chiodo per appendere lo spirito della proprietà!

Non c'è un solo tipo di povertà, uno stile definitivo di povertà. Non si è poveri in un modo determinato, non si è poveri una volta per tutte, ma ci vuole una disposizione dell'animo che ci rende liberi nei confronti di tutto, anche della povertà. È più difficile rimanere poveri che diventare poveri. Quando ero a Marsiglia, avevo invitato Madre Teresa a fondarvi una casa delle sue Suore della Carità. Alla partenza, ella mi lasciò un biglietto manoscritto (che conservo preziosamente) con poche semplici parole: «Non le chiedo che una cosa per le mie consorelle: abbia cura della loro crescita nella santità e protegga la loro povertà».

Certo, la povertà non si deve canonizzare, come nemmeno la sofferenza; essa non è un valore in sé. Mi piace ricordare le parole che Charles de Foucauld rivolge a Cristo: «Hai lasciato la povertà in eredità a tutti coloro i quali vogliono essere tuoi discepoli». San Paolo, l'aveva già detto chiaramente nella seconda lettera ai Corinzi: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). Il mistero di Cristo povero ci svela qualcosa della povertà stessa di Dio, il cui girotondo trinitario è uno spoglio eterno in un eterno dono, un esproprio totale in una totale comunicazione di sé. Dio non ha nulla e per questo è tutto.

È impossibile scoprire Dio altrimenti che nella luce dello spoglio trinitario, ma è impossibile anche comprendere l'uomo altrimenti che nella linea di tale spoglio. La vita trinitaria diventa il fondamento, l'esegesi e la finalità di tutto il mistero dell'uomo. Essa fonda la vita dell'amore come un dono di sé, senza pieghe. Essa fonda la libertà come una perfetta povertà, cioè come una liberazione da tutto e da sé stessi. Così si conferma che l'uomo corrisponde al dono. Se l'uomo vuole realizzarsi pienamente, è necessario che legga e liberi il suo destino alla luce della Trinità che è povertà e alla luce di Cristo che ne è la visibile icona.

Siamo saliti molto in alto, con o senza bisaccia, ed è così che possiamo meglio scorgere la Missione cittadina, la missione della Chiesa, a Roma e ovunque nel mondo. La Chiesa di domani? È talmente pesante il fardello delle cose che non sono sue, che quando la Chiesa se ne spoglia alcuni pensano, basandosi sulle mere apparenze, che essa sta per morire. Di fatto, è allora che essa raggiunge la pienezza del suo essere. Una Chiesa che non sia il doppione religioso del potere politico ed economico. Una Chiesa che non si stanchi di conformarsi al suo Signore, affinché lo Spirito la trasfiguri in quello che non dovrebbe mai cessare di essere: il sacramento di Dio fattosi Povero. Pascal, in uno dei suoi Pensieri, esclama: «Bella la vita della Chiesa quando è sostenuta soltanto da Dio» (n. 861).

La Chiesa è segno di salvezza solo se gli uomini la vedono sempre rinascere per pura grazia, in situazioni che umanamente non le lasciano alcuna possibilità, alcun avvenire. Lo spessore della sua istituzione non può essere più grosso del piccolo dito di Giovanni Battista che mostra l'Agnello di Dio e dice: «bisogna che Lui cresca e che io diminuisca». La storia si è incaricata di provarci che la Chiesa, appena s'installa nella potenza o nella comodità terrena, perde la sua audacia apostolica. La Chiesa e il Vangelo si curvano o restano in piedi sempre insieme: ma devono camminare, progredire insieme verso l'Anno 2000.

Con o senza bisaccia. Non importa. Quello che conta è la nostra fedeltà al Cristo delle Beatitudini. Comunque, più della nostra fedeltà è sicura quella, assoluta, che Cristo manifesta per la sua Chiesa. È per questo che la nostra Chiesa, malgrado la sua povertà, dentro la sua povertà, è sempre gonfia di speranza, sempre tesa verso una linea dell'orizzonte che supera l'Anno 2000, attingendo il suo slancio all'attesa eucaristica del ritorno di Cristo. Un poeta franco-uruguayano, Jules Supervielle, considerando l'asino che portava allegramente Maria verso Betlemme, ha una riflessione gustosa: «Ella pesava poco, essendo occupata solo dall'avvenire che portava in grembo». È ancora meglio della bisaccia più leggera, verso la Betlemme dell'Anno 2000. Con l'aiuto della Vergine Maria, mi auguro che sia lo stesso per la Chiesa e per ognuno di noi.

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