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Lavoro: prima viene l’uomo

Card. Roger Etchegaray

Secondo il proprio calendario, civile o religioso, ciascuno ha la sua maniera di celebrare questa data. Ma i veri “praticanti”della festa - dopo la sua istituzione a seguito del sangue versato nelle lotte operaie della fine del XIX secolo - sono i lavoratori, sospinti da un “movimento operaio” nato con l’era industriale e sviluppatosi, spesso, ai margini della Chiesa. Giovanni Paolo II, dopo Leone XIII, ha spiegato nella sua enciclica “Laborem exercens” (1981) il senso di questa “solidarietà dei lavoratori”che reagiva “contro il degrado dell’uomo come soggetto del lavoro e contro l’inaudito sfruttamento che lo accompagna.” (n.8). All’alba del terzo millennio, in tutt’altro contesto culturale, il “primo maggio” è più attuale che mai e il Papa ha voluto dargli un rilievo particolare facendone uno dei grandi eventi dell’Anno giubilare, a Tor Vergata. Oggi, più della condizione dell’uomo al lavoro, è la condizione dell’uomo senza lavoro che è preoccupante, poiché fa di lui un uomo amputato nella sua stessa personalità, e assai numerosi sono questi “feriti” dell’economia moderna. La crisi dell’impiego è diventata un fatto strutturale e non solo congiunturale, ciò che ci obbliga a ripensare il significato del lavoro e il suo rapporto rispetto all’uomo. Si tratta non più di riuscire nella vita ma di realizzare la vita in tutte le sue dimensioni. Troppi esclusi ci sollecitano per poter essere attivi e inventivi, perché ciascuno possa esercitare un lavoro, portatore di fecondità sociale. La società, per essere umana, dovrà essere solidale o continuerà a non rispettare la dignità di tutti. In tal senso, il “primo maggio” con la partecipazione di un Papa, “uscito dalle cave di pietra di Zakrzowek e dalle fornaci di Solvay a Borek Falecki, poi a Nowa Huta... dove imparò di nuovo il Vangelo” (Mogila, 9 giugno 1979), assumerà una dimensione giubilare per la Chiesa e l’umanità tutta: il “cammino di solidarietà e di giustizia” verrà ampliato.
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