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Dietro le sbarre, oltre la speranza

Massimo Aquili

Il Grande Giubileo fa tappa nelle carceri. E il Vento dello Spirito, che pure soffia dove vuole, sembra passare più agevolmente tra porte e cancelli, tra celle e inferriate, tinteggiati di fresco nel carcere romano di “Regina Coeli”. E’ qui che il Papa ha scelto di celebrare la Messa giubilare il 9 luglio, abbracciando idealmente tutti i fratelli e sorelle detenuti sparsi nelle prigioni di tutto il mondo. Il Giubileo nelle carceri ha assunto così il volto commosso, incuriosito, impacciato dei settanta detenuti ammessi alla celebrazione tra i mille “ospiti” dell’antico carcere romano; delle dieci donne giunte apposta da Rebibbia, l’altro penitenziario di Roma; di un cappellano-capo con 41 anni di esperienza anzi “di galera” sulle spalle, don Giorgio, e del più giovane titolare a Regina Coeli, don Vittorio, degli agenti composti e seri e dei volontari. Il Giubileo mischia le carte in spirito di riconciliazione. Si prega, si canta e si serve Messa insieme, agenti e detenuti, con i cardinali Roger Etchegaray e Camillo Ruini, a tu per tu con il Guardasigilli italiano Piero Fassino e il capo del Dap Giancarlo Caselli. Il Papa ha voluto così. La rotonda di Regina Coeli è gremita e i cancelli dei quattro bracci che vi confluiscono sono aperti, per una volta non si richiudono alle spalle di chi li attraversa. Nove detenuti servono Messa. Li chiamano “chierichetti” come a sottolineare la contraddizione tra la vita quotidiana e la giornata, straordinaria, del Giubileo. Uno di loro muore pochi giorni dopo la celebrazione. Droga probabilmente. In mondovisione, tutti lo hanno visto reggere il pastorale del Papa. Se la speranza è come spazzata via dalla realtà, resta il segno profetico delle parole e del gesto del Papa. Il 9 luglio Giovanni Paolo II chiede tre volte clemenza per tutti i detenuti, con una riduzione della pena, all’inizio e alla fine della celebrazione a Regina Coeli poi all’Angelus in Piazza San Pietro. La chiede perché convinto che serva un segno “capace di incoraggiare l’impegno del pentimento e di sollecitare il personale ravvedimento”. Il carcere serve  infatti ad offrire all’uomo un’occasione di “cambiare vita”, altrimenti si configura come una sorta di “vendetta istituzionalizzata”, spiega all’omelia. A nome di tutti i detenuti parla Roberto. E’ visibilmente emozionato quando comincia a parlare al microfono, davanti al Papa, ne chiede scusa e riprende fiato, ma la voce si frantuma e la mano con il testo da leggere trema sempre di più. Ringrazia il Papa di aver “illuminato questa rotonda e i suoi bracci”, di aver portato “la possibilità di vivere come essere umani” e “la  speranza di una vita diversa e migliore”. Il Papa lo saluta con un abbraccio fraterno. Dalla visione del carcere come luogo di redenzione, come il Papa ha scritto nel Messaggio per la giornata giubilare nelle carceri pubblicato dieci giorni prima della celebrazione, discende la più toccante delle intenzioni alla preghiera dei fedeli: un giovane extracomunitario invita a pregare per “quelli che vivono in situazioni peggiori delle nostre o attendono nel braccio della morte la fine della loro esistenza”. E’ Gesù che ci ricorda “Nessuno può uccidere il fratello”. E ciò che resta nei cuori di tanti detenuti è l’essere stati chiamati fratelli e sorelle dal Santo Padre. Nei pensieri si imprime invece l’immagine di Cristo realmente carcerato rievocata dal Papa all’omelia. Commentando la seconda lettura, dal Vangelo di Matteo, il Santo Padre ricorda  che Cristo, il detenuto, chiede solidarietà per gli ultimi, “ero... carcerato e siete venuti a trovarmi”, ma anche che il Cristo legislatore cerca la conversione profonda dell’uomo, “la liberazione del cuore”. Conversione-liberazione possono nascere anche da un gesto fraterno come un saluto, due mani che si stringono a sancire un patto. E il Papa prima di lasciare il carcere saluta i detenuti uno ad uno, perché a Regina Coeli vale la pena infrangere il cerimoniale.

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