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La Terra Santa, il Giubileo, il Papa

Una grande storia di fede nell’anno 2000

“Gerusalemme, ogni popolo ha qui la sua patria”

Card. Roger Etchegaray

Anche se il pellegrinaggio di Papa Giovanni Paolo II in Terra Santa forma un tutt’uno compatto da cui nessuna tappa può essere distaccata, è evidente che Gerusalemme ne rimane la sommità o piuttosto dà all’insieme il suo vero significato. Ma quale contrasto tra la sua vocazione spirituale di pace e la sua realtà materiale piena di lacerazioni e di ferite secolari! Domenica, l’ultimo giorno del pellegrinaggio,  passando dalla spianata della Moschea al Muro del Pianto, poi alla  basilica del Santo Sepolcro, avevo l’impressione di cambiare ogni volta di continente, quasi di pianeta. Occorre che comprendiamo meglio il senso dell’appartenenza a Gerusalemme delle tre famiglie discendenti da Abramo: ciascuna vi si ritrova a  titoli diversi ma egualmente inscindibili. L’ebreo si sente in casa sua geograficamente ed anche storicamente,  è all’interno della sua storia biblica dalla fondazione della città,  e vi è  nel più profondo del suo cuore e tutta la sua vita ne è impregnata. “Che la mia destra si secchi se ti dimentico Gerusalemme!”  (Salmo 137): quando il popolo ebraico, esiliato e disperso, lanciava da “seder” a “seder”  il grido: “l’anno prossimo a Gerusalemme”, la sua identità si sviluppava in un tono tanto spirituale che temporale ed è al Muro del Pianto che si ritrova la tragica bellezza della fede ebraica. Per il cristiano,  Gerusalemme è la città in cui la sua fede è nata sulle tracce di Gesù che insegnava al Tempio il Vangelo dell’Amore, che spezzò al Cenacolo il pane di una Nuova Alleanza, che diede la propria vita sul Golgota, che salì al cielo e inviò lo Spirito della Pentecoste sulla Chiesa degli Apostoli. Per il musulmano, Gerusalemme è il luogo santo (Al Qods) in cui Maometto, cavalcando dalla Mecca la giumenta alata, fece l’esperienza mistica  e l’ascensione notturna, conversando con Abramo, Mosè e Gesù. È anche il rifugio degli ultimi credenti che saranno convocati, alla suprema egira, sulla spianata della Moschea Al Aqs. D’altronde, per le tre religioni, è a Gerusalemme che la tromba dei morti  risuonerà e richiamerà alla vita gli ebrei, i cristiani e i musulmani. Da qui, si capisce che tutti reclamino Gerusalemme, ma nessuno può rivendicarla escludendo gli altri. Gerusalemme non è un luogo che si possiede ma un luogo che ci possiede, un luogo in cui ciascuno deve svestirsi delle proprie cittadinanze  umane per essere completamente della sola cittadinanza che conta, quella di Dio. Per parlare bene di Gerusalemme non si può utilizzare che il linguaggio della profezia, è il solo che non tradisca il piano di Dio su ciò.  Niente di meno utopistico di una visione profetica, niente anche di più esigente poichè impegna a vivere già in anticipo qualcosa di questo avvenire di pace e di beatitudine. Il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II ha fatto intravedere a molti questa tensione feconda tra il “non ancora” e il “già lì” che costituisce il fondamento di ogni vita e nutre la vera speranza.
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