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Il Giubileo viaggio nella storia -  Gli Anni Santi del 1423 e 1450

A cura di Mario Sensi

Il 15 marzo 1410, Alessandro V (1409-1410), eletto dal concilio di Pisa, alla delegazione di cives romani, venuti a rendere omaggio al nuovo pontefice, in cambio dell’accettazione di un trasferimento del papa a Roma, promise oralmente un Giubileo straordinario, per il 1413, seguì una lettera spedita alla città intera due mesi prima di morire. Doveva avere  la durata di un anno, a partire dal Natale 1313; ma fu un Giubileo mancato. Mentre 33 anni dopo il Giubileo del 1390, in assenza di revoca delle norme contenute nella bolla di Urbano VI, venne automaticamente  quello del 1423. Fu questo un Giubileo non bandito e neppure fu pubblicizzato, tanto che alcuni sto­rici dubitano -a torto- se veramente abbia mai avuto luogo. Ma, come scrive il cronista lucchese Giovanni Sercambi,  a proposito del Giubileo del 1400: “sempre si de’ presumere che quando per uno papa è stato conceduto indulgentia e per altri papi non sia tale indulgentia dilevata, che la indulgentia sta ferma” (Sercambi, Croniche, 2, 421). Anche se non rispettò la cadenza cinquantennale,  propria del Giubileo, questo anno santo svolse tuttavia  l’importante ruolo di annunciare il ritorno della Chiesa e della cristianità all’unità e il rientro definitivo del papa a Roma. L’istituzione giubilare acquistava così un nuovo significato simbolico. Di fatto papa Martino V (1417-1431) -Oddone Colonna, nato a Roma ed eletto l'11 novembre 1417, festa di s. Martino di Tours, durante il concilio di Costanza (1414-1418) che pose fine al grande scisma d'Occidente,  con la deposizione degli anti­papi Giovanni XXIII e Benedetto XIII e con la rinuncia di Gregorio XII-  non stabilì norme particolari. Unici due docu­menti certi, recanti la firma del pontefice,  sono la concessione a due stranieri -un lituano e un inglese- di lucrare il Giubileo nelle rispettive patrie. Un cronista di Viterbo, Niccolò della Tuccia,  ricorda la funzione di apertura della porta detta santa o aurea: “papa Martino fe’ poi aprire la porta santa di San Iovanni [in Laterano] e durò il perdono un anno”. Teste Poggio Bracciolini, che si trovava allora al servizio del papa, ven­nero pellegrini d'oltralpe portando con sé fetore, “stercore, spurcitia et pediculis”, per cui molti morirono di peste; tuttavia,  a Giubileo terminato, tutto tornò nella normalità e della peste non vi fu più neanche il sospetto. L'afflusso dei pellegrini sarebbe stato indub­biamente maggiore se l'Italia del nord non fosse stata sconvolta dalla guerra. Insieme alle tradizionali basiliche, cominciarono ad essere meta di pellegrinaggi anche le catacombe per le quali, a Giubileo concluso, fu nominata una commissione di sorveglianza. Le più famose erano quelle sull'Appia antica, nelle quali si entrava dalla chiesa di S. Sebastiano e poi si scendeva per 28 gradini. I pellegrino John Capgrave dice che il percorso era assai lungo, tanto che, "se uno non si ferma nelle cappelle, ma va avanti di­ritto, camminerà per tutto il tempo necessario a dire quattro volte il Miserere mei Deus. Qui erano sepolti 46 papi, e cia­scuno aveva dato allo stesso posto una grande indulgenza". La basilica di San Sebastiano, detta  anche basilica Apostolorum, perché  inizialmente dedicata  agli apostoli Pietro e Paolo, venne costruita nel IV secolo nell'area dove, per qualche tempo erano state custodite le salme dei due Apostoli, quivi trasferite, forse nel 258, durante la persecuzione dell'imperatore Valeriano. Quivi fu deposto anche il corpo di san Sebastiano, l'ufficiale dei pretoriani che subì il martirio delle frecce e il cui culto fece obliterare, intorno al secolo X, la memoria della presenza, sep­pur temporanea, delle tombe dei due Apostoli. Tra i fatti degni di nota accaduti durante la celebrazione di questo Giubileo, sul quale ci sono pervenuti pochi documenti,  va menzionata la celebrazione del “giubileo di s. Tommaso Becket”. Onorio III, nel 1220, aveva  concesso ai pellegrini che si fossero recati a Canterbury per venerare quel santuario, luogo del martirio dell’arcivescovo s. Tommaso Becket,  un’indulgenza per la durata di un anno. Forse già a partire dal 1300 e di certo nel secolo successivo l’arcivescovo  e il capitolo di Canterbury,  a imitazione del papa, avevano  indetto di propria iniziativa un Giubileo, un’indulgenza plenaria che si lucrava ogni in cinquanta anni, visitando detta cattedrale.  Il quinto giubileo, celebrato  con grande pubblicità nel 1420, fu ritenuto un fatto grave, che non poteva pas­sare sotto silenzio, per cui intervenne Martino V che, con bolla ‘Ad hoc potissimum’, del 20  marzo 1423, incaricò i suoi nunzi nel regno di Inghilterra di richiamare al dovere gli autori di questa insubordinazione, in quanto spettava solo al romano pontefice indire giubilei; unico vicario di Cristo in terra, lui solo -e non altri- possedeva la pienezza della potestà di sciogliere e di legare, a lui solo competeva la facoltà di concedere indulgenze straordinarie. Da parte sua Martino V, anche in ossequio alle richieste di limitazione formulate dal Concilio di Costanza in materia di indulgenze, nel 1422, ripetendo un gesto compiuto da Bonifacio IX nel 1402 e poi nel 1403, annullò tutti i ‘giubilei’ locali. Nel gennaio 1449, superata la crisi del papato - dimissioni dell’antipapa Felice V,  espressione del conciliabolo di Basilea e fine del conciliarismo-  Niccolò V (1447-1455) ritenne giunto il momento di bandire il sesto giubileo romano. Lo fece il 19 gen­naio 1449 con bolla ‘Immensa et innumerabilia’. Fa da apertura  a questa bolla - letta in S. Pietro, dopo il solenne pontificale e presente lo stesso Niccolò V- una rifles­sione sui doni della divina misericordia. Il pontefice, dopo aver  riaffermato la potestà che -come successore di Pietro-  egli ha di rimettere o non rimettere  i peccati,  elenca, tra i doni cele­sti,  il mistero dell’anno del giubileo. Abolisce la disposizione, emanata da Urbano VI,  di celebrare il giubileo di 33 anni in 33 anni  e decreta  il ripristino dell’intervallo di 50 anni fra un giubileo e l’altro, concedendo l’indulgenza plenaria a quanti -pentiti e confessati- visitassero le Basiliche degli apostoli Pietro e Paolo e le chiese del Laterano e di S. Maria Maggiore, secondo le modalità stabilite da Clemente VI e da Gregorio XI, dei quali riferisce le relative bolle. Indice quindi il prossimo giubileo che si dovrà  svolgere dal natale del 1449 al natale del 1450. Esorta, infine, alla preparazione e partecipazione. A tal fine vengono nominati predicatori (scelti in maggioranza tra i frati minori);  loro compito era quello di spiegare la distinzione tra sacramento della penitenza, che rimette i peccati e indulgenza che, a de­terminate condizioni, rimette le pene temporali del peccato in parte (parziale) o integralmente (plenaria). Mentre,  per garan­tire la possibilità di far lucrare l’indulgenza plenaria a tutti i fe­deli che, pentiti e confessati avessero visitato le quattro Basiliche maggiori, vengono concessi ai confessori speciali po­teri, di norma riservati al vescovo o al solo sommo pontefice. Il minorita Roberto da Lecce fu incaricato di predicare il Giubileo a Roma; mentre il card. Cusano, legato pontificio in Germania sin dal 1448, per predicare e preparare i fedeli all’acquisto delle indulgenze giubilari, nominò 12 sacerdoti muniti di spe­ciali poteri per dare l’assoluzione dei casi riservari (peccati  gravissimi per la cui assoluzione bisognava ricorrere al vescovo,  o al papa) e dettò anche pesanti condizioni a quanti, impediti a venire a Roma, volevano, alle solite condizioni, ac­quistare il giubileo: digiuno di sette venerdì;  astinenza per sette mer­coledì;  visita di sette chiese per 24 giorni con la recita, in ognuna di esse, di 40 Pater noster (i primi dieci per il papa; la seconda decade per il re romano, l’arcivescovo di Magonza e il principe locale; la terza per tutti i fedeli; la quarta per i peccatori);  inol­tre bisognava versare metà delle spese necessarie per fare il viaggio a Roma. Questo giubileo iniziò con l’apertura della “porta aurea”,  in S. Pietro, Basilica dove già si trovavano cinque porte: l’Argen­tea, la Romana, la Ravenniana, la Guidonia e la Porta della Giustizia; la Porta Santa o Aurea è l’ultima, a destra, la quale rimane chiusa fino a quando, all’inizio dell’Anno Santo, il papa -demolendo il muro con un apposito martello- la apre e, a con­clusione del medesimo, di nuovo la mura. Lo stesso giorno venne officiata analoga cerimonia di apertura dell’Anno Santo dai cardinali delegati nelle altre tre Basiliche maggiori: S. Giovanni in Laterano, S. Maria Maggiore, S. Paolo fuori le Mura. Annota Giovanni Rucellai, a proposito della Porta Porta Santa di S. Giovanni in Laterano -ultima, a destra, delle cinque che si aprono sotto il portico d’ingresso-, che “tanta è la devozione che le persone hanno ne’ mattoni e calcinacci, che subito quando la è smurata,  a furia di popolo sono portati via e gli ol­tramontani se ne portano a casa come reliquie sante”. Il giubileo del 1450, che sant’Antonino di Firenze chiamò l’Anno d’oro e sul quale -a differenza dei precedenti- ci è per­venuta un’ampia documentazione, vide sin dal principio una massa di romei così straordinaria che i preparativi  fatti si di­mostrarono insufficienti. Riferisce, in un appunto, Enea Silvio Piccolomini che, ogni giorno, 40.000 uomini si trascinavano per le chiese della città eterna. Più dettagliato lo scrittore romano Paolo di Benedetto di Cola dello Mastro che, nel suo Memoriale, scrive: “come entrò il mese di Natale [1449], in Roma venne molta gente per il perdono [Giubileo] e le perdonanze [itinerario indulgenziato] erano queste: che avevano a visitare queste quattro chiese cioè San Pietro, San Paolo, San Giovanni e Santa Maria Maggiore, ed i romani dovevano visitarle per un mese, i paesani quindici giorni e gli oltramontani otto. Ed essendo capitata in Roma ad un tratto tanta moltitudine, le mole ed i forni non potevano supplire a tanta gente ed ogni giorno se ne moltiplicava di più. Ondeché il papa diede ordine che fosse mostrato il Volto santo [il sudario della Veronica] ogni domenica [ a San Pietro] e le teste [degli apostoli Pietro e Paolo al Laterano] ogni sabato; e tutte le reliquie delle chiese di Roma stavano di fuori [erano esposte continuamente] e il papa faceva la benedizione ogni domenica nell’ora della benedizione, in S. Pietro”. E poiché, per l’incessante accorrere dei fedeli, diventava  sempre più sensibile la mancanza dei viveri di prima necessità, il pontefice “concedeva ad ogni persona ch’era venuta per l’indulgenza, che si trovava confessa e contrita ed avesse fatti tre dì del perdono, d’avere l’intera remissisone, come se avesse fatto tutto il perdono”. Successivamente lo stesso pontefice emanò una bolla “che qualunque romiero venisse per il perdono e faceva cinque giorni voleva che avesse tutta la perdonanza”. La grande ressa dei pellegrini durò da Natale per tutto il mese di gennaio; indi seguì una diminuzione così notevole che ne rimasero scontenti tutti i locandieri. Ma, a metà della quaresima, ricomparve una massa tanto grande di pellegrini che “per tutte le vigne stavano a dormire perché era il tempo buono. Ed essendo nella settimana santa, avvenne molte volte nella salita del ponte [Sant’Angelo] che tra quelli che rivenivano da San Pietro e quelli che ci andavano era tanta la folla che durava sino a due e tre ore [seconda , terza ora] di notte [essendo questa l’unica strada per entrare e uscire dal Vaticano], sicché bisognava che i fanti [soldati] del Castello [S. Angelo] uscissero fuori con molti di Ponte; ed io Paolo [dello Mastro] mi ritrovai spesse volte insieme cogli altri colli ba­stoni in mano a sfollare la gente, altrimenti sarebbero perite molte persone. E perché la folla era grande e durava assai e la notte lence faceva, rimanevano a dormire per i portici, e per le banchei poveri romieri; e chi aveva perduto  il padre ed i figli e chi i compagni, e così andavano sperduti e chiamando l’uno l’altro, che era un peccato [pena]  vederli. E que­sto durò fino all’ascensione di maggio” (Cronache romane, 16s). Per la sicurezza dei pellegrini papa Niccolò assoldò spe­ciali milizie, mentre per insegnare loro la strada dislocò appo­siti ufficiali in vari luoghi dello Stato Pontificio. Non mancarono tuttavia inconvenienti, come il cattivo funzionamento dei ser­vizi logistici a Roma; o l’esosità di alcuni principi, tale il Marchese d’Este che ordinò ai suoi funzionari di imporre una tassa ai romei di passaggio per il territorio di Modena; fu però costretto a ritirare il decreto poiché nessun viaggiatore passava più per questa sua città. Motivo di grande richiamo per i pellegrini fu anche la ca­nonizzazione di s. Bernardino da Siena, predicatore itinerante dell’osservanza francescana e apostolo degli appestati, canoniz­zazione avvenuta  il 24 maggio, giorno di pentecoste, in con­comitanza al capitolo generale dei frati minori che fu celebrato nel convento dell’Aracoeli. Da tutta Europa giunsero a Roma più di 3.800 (secondo altri, 2.000) frati dell’Ordine -di cui s. Bernardino era stato Vicario-  tre dei quali avrebbero avuto più tardi, l’onore degli altari: Giovanni da Capestrano, eroe della lotta contro il Turco, Giacomo della Marca, grande predicatore -insieme, due delle quattro Colonne dell’Osservanza- e Didaco d’Alcalà, un laico spagnolo che, venuto a Roma, si mise a servizio degli ammalati. Ben altra era stata l’accoglienza fatta a fra Bernardino venuto, nel 1426, a Roma per discolparsi delle accuse relative alla predicazione del culto del nome di Gesù, reputato una superstizione. Proveniva da Viterbo, dove si trovava  a predicare, ed era giunto a Roma con la minaccia del rogo; a di­stanza di appena ventiquattro anni lo stesso veniva proposto alla catto­licità come modello di santità: uomo di penitenza, tutto dedito alla riforma della Chiesa mediante la predicazione; non pochi gli ostacoli frapposti a questa canonizzazione, ma papa Niccolò, che aveva  personalmente conosciuto il santo, troncò ogni esitazione e stabilì di elevarlo agli onori degli altari ad appena sei anni dalla morte (20 maggio 1444). Non mancarono eventi che funestarono il giubileo. In primo luogo la peste che, nei mesi caldi, si riaffacciò anche a Roma. Narra il cronista Paolo dello Mastro che “morì molta gente e molti di questi romieri; e morivano talmente che tutti gli ospedali, chiese, ogni casa era pieno tra malati e morti; e cascavano morti per le strade come cani, tra l’aria che era infetta ed essi che venivano a grande disagio, bruciati dalla calla e dalla polvere. Ce ne morirono tanti che fu un abisso [disastro], e per tutte queste strade e per la Toscana e la Lombardia e da ogni canto non si vedevano se non fosse di morti” (Cronache romane, 20). Per sfuggire il contagio, molti uscirono dalla città,  fra cui Niccolò V che si rifugiò a Fabriano, non prima però di aver canonizzato san Bernardino. Destò scalpore il rapimento, nel Veronese, di una nobildonna tedesca diretta a Roma per il Giubileo: ne fu accusato Sigismondo Malatesta, Signore di Rimini, Fano e Senigallia, ma non si riuscì a far luce sull’acca­duto. Grande risonanza ebbe infine una sciagura avvenuta  sulla via di accesso alla basilica di S. Pietro. Il 19 dicembre 1450, numerosissimi pellegrini erano accorsi a S. Pietro per assistere all’ostensione della Veronica e alla benedizione papale, ma data l’ora tarda -mancava  un’ora all’inizio della notte- si dovette rimandare la cerimonia al giorno seguente. Narra Paolo dello Mastro che proprio quando i fedeli stavano ritornando indietro per ponte S. Angelo, ci fu un inci­dente: sopra questo stretto ponte [pons Adrianus], occupato dalle due parti e alle testate da botteguccie e per il quale non si era prov­veduto al doppio senso, quattro cavalli e una mula -del cardinale di S. Marco, precisano l’Infessura e il Platina- si diedero a calciare fra la calca dei pellegrini procurata da gente che, da capo al ponte, voleva passare; mentre altra folla spingeva dal lato di S. Pietro per tornare dentro Roma. La confusione fu tale che molti pellegrini restarono schiacciati;  altri, per evitare la stessa sorte, si tuffarono nel Tevere dove però in gran numero annegarono. Fortunatamente, per l’intervento dei soldati, che riuscirono a dividere la folla, la ressa scemò. Alla fine si pote­rono contare 172 cadaveri  (Paolo del Mastro) che furono esposti nella chiesa di S. Celso e nel Campo Santo Teutonico, ambedue vicini a S. Pietro, per il riconoscimento da parte dei congiunti; quindi 6 furono portati alla Minerva, gli altri furono seppelliti in S. Celso. Fu una tragedia che addolorò profondamente papa Niccolò il quale provvide subito a ripensare tutta l’urbanistica della zona intorno a Castel S. Angelo. Scrive Vespasiano Bisticci, copiatore di libri e amico di tutti gli umanisti, che, “col Giubileo, venne alla sedia apostolica grandissimo numero di de­nari, per questo cominciò il papa ad edificare in più luoghi”. Già in in vista del giubileo papa Parentucelli, con la consulenza di  Leon Battista Alberti, aveva  dato inizio alla revisione urbanistica di Roma dintorni e i lavori proseguirono anche dopo il giubileo; E’ stato però ripeturo che Nicolò V “cominciò a edificare, ma non poté arrivare a conchiudere”. Oltre le basiliche patriarcali, il rinnovamento edilizio riguardò anche altre chiese, entrate a far parte delle stationes del tragitto giubilare, il palazzo Vaticano, Borgo S. Pietro, dove -stando a una fonte fiorentina- “erano fatte molte casette da quelli poveri che stavano achactare [a chiedere l’elemosina], ove già s’era fatta grandissima congregatione di gaglioffi [furfanti], et facevasi di molto male” I restauri, o il rifacimento, di alcuni monumenti spesso si fecero anche a scapito di quelli antichi, così che, pure il Colosseo, fu spogliato di molti marmi al fine di ottenerne calce o rivestimenti. Ne’ va dimenticato che Niccolò V fu il primo a stravolgere l’impianto della vecchia basilica co­stantiana di S. Pietro, allo scopo di ingrandirla e condurla a per­fezione: per opera del Rossellino, l’ingegnere di palazzo,  venne aggiunto il lungo coro absidato, il caput della tribuna, mentre per la morte del pontefice (+1455) rimase interrotto il progetto di eri­gere una cupola sulla crociera; così, al simbolo della croce, stava per sovrapporsi quella dell’uomo, misura di tutte le cose e riflesso del  macrocosmo. Fu questo pontefice a elevare la Basilica di S. Pietro a Chiesa-madre della cristianità, sostituen­dola a quella di S. Giovanni  in Laterano,  in quanto -come egli ebbe a scrivere in una lettera del 1448- sovrasta tutte le chiese della città e del mondo per essere la chiesa principale, la chiesa-madre e la sede della dignità apostolica. Fu lo stesso Nicolò V ad operare il trasferimento definitivo della sede pontificia dal Laterano al Vaticano; lo stesso commissionò al Beato Angelico la decorazione della cappella privata, fatta costruire accanto al palazzo Vaticano. L’angelico, che si trovava  a Firenze, venendo a Roma  portò con sé Benozzo Gozzoli e, insieme in un solo anno (1448), dipinsero la Cappella Nicolina, uno dei più importanti monumeni della rinascita della pittura a Roma: nella volta a crociera, gli Evangelisti; sugli arconi, otto Dottori della Chiesa, col nome scritto sulla predella; e su tre pareti, in due zone sovrapposte, le Storie dei santi Stefano e Lorenzo, due protomartiri, il primo della Chiesa di Gerusalemme, l’altro di Roma,  ad indicare la continuità fra la prima Chiesa, guidata da Pietro e quella di Roma,  guidata dai papi. Fu infine lo stesso Nicolò V che, grazie alle elemosine del giubileo e al consistente numero di manoscritti da lui raccolti, gettò le premesse per la fondazionedella Biblioteca Apostolica Vaticana, compito portato a termine da Sisto IV della Rovere (1471-84) con bolla ‘Ad decorem militantis ecclesiae’ del 15 giugno 1475 che concepì  la Biblioteca “come istituzione della Chiesa Romana volta a promuovere la ricerca scientifica e la cultura”. Nacque così la prima biblioteca pubblica del mondo. Si era in pieno Umanesimo e a indire il Giubileo era stato un papa umanista, amante dei libri; non va pertanto dimenti­cata la nascita di una piccola letteratura sul giubileo: tale il Trattato di Giovanni d’Anagni, un canonista che affrontò il problema delle indulgenze, un’opera che ebbe l’onore di una seconda edizione; tale il Dialogo di Felice Hemmerlin, prevosto svizzero che, oltre a denunciare l’eccessivo rilassamento del clero, confutò tutti i dubbi circa la validità, o meno, di giubileo ed indulgenze.          

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