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I poveri, ricchezza del Giubileo

Mario Marazziti

E’ stato definito “il segno più significativo della carità del Papa”. Altri lo chiamano già il Giubileo dei barboni. In un linguaggio più “politically correct” sarà il Giubileo dei senza dimora, dei senza-niente. Al centro sarà un pranzo - così carico di significati nella tradizione cristiana, evocativo come è del banchetto celeste e dell’eucaristia - con Giovanni Paolo II di duecento bag-ladies, donne-sacchetto e abitanti delle strade. La Comunità di Sant’Egidio, in piena sintonia con mons. Crescenzio Sepe che ne ha recentemente dato l’annuncio in occasione del Giubileo degli artigiani, è già impegnata nella preparazione di questo intimo, non di massa, eppure evento centrale nel Grande Giubileo del 2000. Nella Tertio Millennio Adveniente Giovan-ni Paolo stesso ha indicato la centralità dell’“opzione preferenziale della Chiesa per i poveri e gli emarginati”, invitando i cristiani a farsi voce di tutti i poveri del mondo. E’ così che tra maggio e giugno prenderà sempre più spazio l’appello a “una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale che pesa sul destino di molte nazionei” (TMA, 51) e a eliminare quell’estrema povertà che è “sorgente di violenze, di rancori e di scandali” (cfr. la Bolla Incarnationis Mysterium). I poveri al centro, per davvero e non solo per un giorno. E’ questa la strada che Giovanni Paolo II indica in maniera asciutta, inequivocabile, sedendosi a tavola con persone che vengono abitualmente scartate e tenute in disparte nelle nostre società dell’affluenza. Duecento persone, con i loro nomi e cognomi, con le loro storie dolenti e di amicizia con i volontari della Comunità che li accompagnano da anni nei loro difficili pellegrinaggi urbani. Duecento persone che rappresenteranno in maniera scarna ed evidente il dolore e le speranze delle migliaia di Lazzaro che popolano città come Roma, Milano, le centinaia di migliaia e i milioni di esseri umani che formano il popolo senza voce che affolla le strade del Sud povero del mondo e le grandi metropoli del pianeta, da New York a Mosca, da Londra a  Calcutta e Città del Messico. La Chiesa si mostra così, ancora una volta, come amava descriverla Giovanni XXIII, come “Chiesa di tutti e particolarmente dei poveri”. E non è senza significato che questo accada sulla soglia del nuovo Millennio, mentre la globalizzazione economica e la cosiddetta “new economy” sembrano avere trovato qualche via per moltiplicare la ricchezza ma non quella per utilizzarla a vantaggio di chi è più debole. E’ un “segno di contraddizione”, come accade tutte le volte che i cristiani vivono in maniera più diretta, chiara, in maniera più aderente al Vangelo. E non può che essere così, in un cristianesimo che non è religione della maggioranza e del senso comune, ma che nasce attorno al mistero della croce e della resurrezione di Gesù, intorno al Crocifisso, dove non un giusto ma un condannato a morte come il ladro “teologo” (secondo la tradizione orientale) è il primo compagno di Gesù in Paradiso. Nel cuore del Giubileo la Chiesa, per volontà del Papa, fa posto a tavola per i suoi “fratelli più piccoli”, come vengono chiamati i senza niente, prigionieri, senza vestiti, affamati, nel Vangelo di Matteo al capitolo 25, nella parabola del Re e del Giudizio finale. Nello stesso Vangelo  i poveri vengono chiamati come i discepoli “fratelli”. I poveri, cioè, sono parte integrante  e non solo “oggetto” di attenzioni esterne da parte della Chiesa.  Questo “segno giubilare” viene a interpellare ogni cristiano e ogni persona di buona volontà, chiedendo di fare più spazio nella propria vita. E’ la proposta a uscire dall’indifferenza, a ridurre l’isolamento, ad uscire dalla neutralità, a creare vicinanza là dove oggi c’è distanza o abissi di lontananza. Non solo gente con la stessa patria, ma persone della stessa famiglia e con un destino comune. E’ la civiltà dell’amore, che è un’offerta aperta a tutti per costruire un mondo e una vita quotidiana più umani.

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