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Il Giubileo - Viaggio nella Storia 1300

Il grande pellegrinaggio

A cura di Mario Sensi

Cominciò allora la grande romeria. La folla che accorse a Roma fu grandissima. Si mossero verso la Città Eterna pellegrini da tutte le più lontane regioni d'Europa, dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Spagna, dall'Ungheria, dalla Germania. Tenuto conto della data di emananzione della bolla -22 febbraio 1300- e dei tempi di percorrenza -nel Medioevo da Parigi a Roma s'impiega­vano normalmente almeno cinquanta giorni- ci si chiede come mai le fonti ci attestano che fin dall'inizio dell'anno l'afflusso normale dei pellegrini aumentò notevolmente. Se ciò fosse stato determinato solo dalla diffusione della bolla papale sarebbero occorsi da uno a quattro mesi prima che i pellegrini d'Italia e d'Europa potessero giungere a Roma. Plausibile è l'ipostesi che a spingere tanta gente a mettersi in cammino sia stata l'attesa escatologica diffusasi a seguito della predicazione di Gioacchino da Fiore e dei suoi interpreti. Sin dal 1260 si era andata formando la convinzione che da un momento all'altro la Chiesa sarebbe entrata nelle "terza età" quello dello spirito. Così, giorno dopo giorno, si fece sempre più pressante il bisogno di perdono.  L'attesa  rigenerazione avrebbe ricalcato quella sperimentata dall'imperatore Costantino al momento di immergersi nel fonte battesimale. Nozione questa che sarà ripresa nella bolla di indizione del secondo Giubileo, quello del 1350. Bisognosi di salvezza i pellegrini affluivano a Roma, per avere la sicurezza della salvezza. Una fiumana di persone che giornalmente si spostava dalla basilica di S. Pietro a quella di S. Paolo e viceversa. Ogni venerdì poi e nelle solennità veniva esposta l'immagine della Veronica. Stando al cronista Giovanni Villani, oltre 200.000 al giorno erano i pellegrini non romani che si avvicendavano nella visita alle due basiliche. Vera o falsa l'informazione, indubbiamente dovette grandemente impressionare la fiumana di gente che, diretta a Roma, invase le strade d'Italia. Si legge negli Annales Colmarienses: "fu fatto così gran concorso in Roma che assai spesso in un giorno si ebbe un movimento di trentamila romei entrati e trentamila usciti". Vi erano rappresentanti di tutte le età e di tutte le categorie, lo più erano erano poveri; nessun re tuttavia si mosse per venire a lucrare il Giubileo. In compenso giunsero fedeli non solo dalle città, ma anche da villaggi sperduti, come si evince dai protocolli notarili superstiti, dove non è difficile incontrare testamenti dettati da modesti pellegrini prima di intraprendere la romeria. Altri lasciarono un ricordo del pellegrinaggio facendo immurare sulla propria casa una lapide dove,  per sommi capi,  si narrava  la loro devota impresa; così parrebbe il pellegrinaggio di Ugolino e la moglie -forse una coppia popolana di artigiani proprietaria di un'insula in via Giovanni da Verazzano,  non lontana dalla chiesa di S. Croce in Firenze- i quali, a un singolare testo giubilare in latino fecero aggiungere,  in volgare,  a mo' di firma,  "E andovi Ugolino cho la molgle". Il testo tradotto dice: “A memoria eterna. Sia chiaramente manifesto a tutti coloro che leggeranno questa scrittura che Dio onnipotente, nell’anno di Nostro Signore Gesù Cristo 1300, conferì una grazia speciale ai cristiani: il Santo Sepolcro che era in mano ai saraceni fu ripreso dai Tartari e restituito ai cristiani. E poiché, nello stesso anno, ci fu una solenne remissione di tutti i peccati,  come pure delle colpe e delle pene da parte di papa Bonifacio per tutti coloro che si recano a Roma, molti Tartari stessi vennero a Roma per la detta  indulgenza”. Dopo di che segue, in volgare e a mo’ di firma, la scritta di cui sopra.  Narra il Villani che, nel gennaio 1299, Ghazan, nipote di Hulagu, fratello minore di Qubilai, il grande imperatore mongolo di Marco Polo, vinse i saraceni, ma dovendo tornare nel suo regno invitò a mandare “de signori et gente christiana a ritenere le città et terre di Soria e della Terrasanta ch’elli aveva conquistato” (Historie fiorentine, in R.I.S., 13, Milano 1728, lib. VIII, cap. 35). Ancorché manchi un riscontro documentario sulla presa di Gerusalemme da parte dell’ilkhan di Persia e sulla relativa donazione ai cristiani, di notevole interesse è l’accostamento di  Roma dove si lucra l’indulgenza giubilare con il Santo Sepolcro. Alla stessa maniera  la venuta  a Roma dei Tartari  (identificati, con i biblici madianiti)  fa il paio con l’esclusione dei ribelli alla Chiesa dai benefici dell’indulgenza, decretata dallo stesso Bonifacio VIII. Abbastanza chiara la presa di coscienza, da parte del committente dell’epigrafe,  che Roma è il nuovo centro della cristianità al posto di Gerusalemme,  in mano ai musulmani; per il resto si tratta di  messaggi criptici, di difficile decodifica. Nonostante l'eccezionale  movimento di pellegrini non mancarono,  per le provvidenze del papa, le vettova­glie  e non si lamentarono disordini. Per ovviare  alla ressa dei pellegrini, si aprì una nuova porta e si disciplinò l’attraversamento di Ponte S. Angelo. Le offerte dei pellegrini furono abbondanti e il papa se ne servì per il culto e l'ufficiatura dello basiliche, ordinando che le offerte fossero investite nell’acquisto di casali. Del tutto infondata però la tradizione che una di queste tenute fosse Castel Giubileo, sulla via Salaria,  tenuta  che ancora sulla fine del secolo, quando fu acquistata dalla famiglia Giubilei, manteneva l’emblematico appellativo di Monte S. Angelo. L'anno giubilare terminò il 24 dicembre del 1300, ultimo giorno dell'anno secondo l'usanza della curia romana (stile della natività). Il giorno dopo, inizio del nuovo anno, il pontefice con una "gratia non bullata" concesse ai pellegrini ancora presenti in Roma, o impediti durante il viaggio o morti prima di aver completato le visite alle basiliche, un'ampia indulgenza (Concessione "Ad Honorem Dei"). Fu veramente un anno di grazia. Metà della cristianità occidentale era scesa a Roma per venerare le tombe degli Apostoli. Uno  dei frutti del Giubileo fu la pace che regnò in Italia in quell'anno, un'eccezione per quei tempi travagliati da lotte fratricide; solo a Firenze non si riuscì ad estinguere i focolai delle discordie intestine. Il 25 dicembre 1300 con la lettera graziosa 'Ad honorem Dei', priva tuttavia di bolla e delle consuete formalità, il pontefice, pur essendo il Giubileo terminato il giorno precedente, estese i benefici del centesimo a tutti coloro che erano morti nel recarsi a Roma ed erano morti a Roma prima d'avere compiuto le visite prescritte ed a tutti co­loro che non  avevano ancora fatto le dovute restituzioni purchè le fa­cessero prima della Pasqua. In stretta  relazione con questo Giubileo è il grande mosaico che il cardinal Stefaneschi commissionò in data incerta (per alcuni in occasione del Giubileo;  per altri nel primo decennio del sec. XIV) a Giotto di Bondone, la cosiddetta Navicella degli Apostoli,  posta sulla controfacciata della basilica costantiniana di S. Pietro. Perduto il mosaico, ci è pervenuto un disegno attribuito a Parri Spinelli (ora a New York), da cui si evince  che vi era rappresentato l'episodio accaduto sul lago di Tiberiade, di cui parla l'evangelista Matteo: esattamente  il momento in cui Cristo afferra per la mano Pietro che sta per affogare e, salvandolo, lo rimprovera per aver dubitato di lui, scena probabilmente corredata da scritte messe in bocca a Pietro ("Domine salvum me fac", Mt 14, 30); o a Cristo ("Modice fidei, quare dubitasti", Mt 14, 31). Per il mosaico della Navicella lo Stefaneschi aveva composto un titulo in versi, riferito da diverse fonti che diceva: “Quem liquidos pelagi gredientem sternere fluctus / imperitas fidumque regis trepidumque labantem / Erigis, et celebrem reddis virtutibus almum / hoc iubeas rogitantem deus contigere portum”. Il tema fu più volte replicato a cominciare dal terzo decennio del Trecento;  di notevole interesse la tavola commissionata dalle religiose del monastero aperto di Torre degli Specchi a Roma ed eseguita intorno al 1485 da Antoniazzo Romano, ora ad Avignone. Bonifacio VIII è stato  l'ultimo grande papa del Medio Evo: uomo di ingegno acuto e di notevole capacità amministrativa, dottissimo in diritto, sua massima preoccupazione  fu quella di restituire al papato l'antico splendore. Morì in Vaticano l’11 ottobre 1303; il suo corpo fu sepolto nella cappella che, da vivo,  lo stesso pontefice, dedicò a Bonifacio IV (608-615) e dove si era fatto preparare il monumento da Arnolfo di Cambio, monumento ora nelle Grotte Vaticane.

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