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A proposito delle reliquie
di san Gregorio Nazianzeno e di san Giovanni Crisostomo

 

           La recente consegna di reliquie dei santi Gregorio Nazianzeno e Giovanni Crisostomo da parte del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II al Patriarca costantinopolitano Bartolomeo I è stata da taluni erroneamente definita una restituzione da lungo tempo dovuta, nonché la riparazione di una ingiustizia commessa all'epoca della quarta crociata (1204). Valutate alla luce delle attuali cognizioni della ricerca storica in materia, queste affermazioni sono prive di fondamento.

           Innanzitutto è doveroso premettere che nessuna fonte a nostra disposizione può dimostrare che le suddette reliquie siano giunte a Roma in conseguenza della quarta crociata. Occorre poi tenere presenti alcuni fattori basilari da prendere in considerazione quando ci si trova di fronte a reliquie. Va osservato che in passato, come del resto anche oggi, era largamente diffusa la pratica della suddivisione di reliquie: queste venivano divise e poi conservate in luoghi diversi nella misura in cui si diffondeva il culto di un santo. Esisteva, inoltre, la consuetudine delle cosiddette reliquie "per contatto": si usava cioè toccare le reliquie autentiche con un oggetto, che in seguito veniva considerato anch'esso reliquia di quel santo. Non desta dunque meraviglia il fatto che più chiese o monasteri affermassero, per esempio, di possedere il cranio o un braccio di uno stesso santo. La divisione e diffusione delle reliquie esprimono inoltre l'universalità della Chiesa, al cui patrimonio spirituale appartengono anche i santi. Bisogna infine tenere conto della possibilità di attribuzioni erronee di reliquie a un certo santo ed è anacronistico pensare che nel medioevo fossero in uso gli stessi criteri di oggi per stabilire l'autenticità delle reliquie. E’ importante tenere presente quanto sopra anche quando parliamo delle reliquie dei due santi presuli costantinopolitani, cioè Gregorio Nazianzeno e Giovanni Crisostomo.

           A proposito della presenza di reliquie gregoriane a Roma, possiamo riferirci a una tradizione attestata solo dal XVII secolo, secondo la quale queste reliquie sarebbero state trasportate da monache bizantine rifugiatesi nella Città Eterna per sfuggire alle persecuzioni iconoclaste del VII – VIII secolo. Esse avrebbero deposto le reliquie nel monastero di Santa Maria in Campo Marzio a loro donato dal Papa Zaccaria (741-752), monastero che poi assunse il nome di Santa Maria e San Gregorio. Ci si può chiedere se questa tradizione sia troppo recente per essere presa seriamente in considerazione, ma bisogna osservare che già nell'806 viene menzionato un oratorio di San Gregorio in Campo Marzio, che nel 937 è documentata la doppia denominazione del monastero e che nel 986 il monastero viene esplicitamente chiamato Monasterium sanctae Dei genitricis Mariae et sancti Gregorii Nazianzeni. Tutti questi elementi offrono insomma una conferma della tradizione seicentesca, rafforzata tra l'altro da altri due fatti: la rilevanza della presenza bizantina nella Roma dell'epoca e l'origine greca dello stesso Papa Zaccaria. Infine, non va dimenticato che la dedicazione di una chiesa a un santo presupponeva normalmente l'esistenza in loco di sue reliquie. Se quindi si ha notizia di una chiesa di San Gregorio Nazianzeno a Roma nei secoli IX e X, è più che probabile che lì fossero presenti sue reliquie già in quel tempo, in un’epoca quindi anteriore di tre o quattro secoli al sacco di Costantinopoli del 1204.

           Sarebbe però errato credere che, in questo caso, si tratti del corpus integrum del santo; i pellegrini Stefano di Novgorod (1350) e Ignazio di Smolensk (tra il 1389 e il 1405) testimoniano di avere visto e venerato nella chiesa costantinopolitana degli Apostoli le reliquie di san Gregorio Nazianzeno, conservate in un'urna di pietra. A questi due pellegrini si associano uno scrivano di nome Alessandro e un diacono Zosimo (ambedue nel 1420 circa), che trovarono nella stessa chiesa degli Apostoli in Costantinopoli anche le reliquie crisostomiane. Nella cattedrale di Santa Sofia, invece, era conservato il pastorale di san Giovanni Crisostomo e nell'adiacente monastero Periblepte il suo cranio. Lo stesso fatto viene confermato addirittura dal figlio di Mehmet il conquistatore, cioè il sultano Bajazet II che offrì nel 1488 a Carlo VIII re di Francia "lo corpo integro de San Joanne Crisostomo e la mano di San Joanne Crisostomo che fa grandi miraculi". Con ciò avrebbe voluto ricompensare il sovrano occidentale che teneva lontano dalla Turchia il fratello Djem, figlio anch'egli di Mehmet e quindi pretendente al trono. Mehmet conservava gelosamente le reliquie conquistate nel 1453, senza dubbio perché le riteneva autentiche, secondo quanto afferma il bizantinista Franz Babinger. Ma il piano del Sultano Bajazet II non riuscì. Esistevano, inoltre, delle reliquie crisostomiane anche sul monte Athos, a Mosca, Kiev, Messina e Venezia (entrambe in stretti rapporti con Bisanzio), Clairvaux, Parigi, Bruges, Magonza e Ragusa (l'attuale Dubrovnik). Non è però possibile accertare in quale momento le reliquie crisostomiane siano state portate a Roma e che ciò sia avvenuto all'epoca dell'impero latino d'Oriente (1204-1261) è un'ipotesi destituita di ogni fondamento, come risulta anche dalle documentate ricerche del Prof. George Majeska, dell’Università di Maryland (cfr. Dumbarton Oaks Papers, No. 56). Nonostante la diffusione di alcune loro reliquie, si può dire che i due santi presuli non hanno lasciato la loro sede episcopale, nonostante la caduta della città sotto il dominio turco, nel 1453.

           Quindi, non è storicamente corretto, come è stato affermato, parlare di restituzione e di riparazione di anomalie e ingiustizie commesse ottocento anni fa. Del tutto improprio poi sarebbe voler trasferire sul piano ecclesiastico il dibattito svoltosi negli ultimi anni circa la restituzione di beni culturali trafugati nel corso della seconda guerra mondiale e in altre circostanze del passato, tanto più in una circostanza come quella in oggetto, che Giovanni Paolo II ha giustamente definito, nella lettera al Patriarca Bartolomeo I del 27 novembre scorso, "un'occasione benedetta per purificare le nostre memorie ferite, per rinsaldare il nostro cammino di riconciliazione, per confermare che la fede di questi nostri Santi Dottori è la fede delle Chiese d'Oriente e d'Occidente".

 

Walter Brandmüller

   

              

       

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