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Il Kenya e le altre crisi africane

 

Le radici dell'ingiustizia

 

di Giuseppe Caramazza


Alfred Maina è uno dei tanti sfollati riuscito a rifugiarsi presso la cattedrale cattolica di Eldoret. "Sono stato uno sfollato durante le violenze del 1992 - ha detto al gruppo di giornalisti che hanno visitato i rifugiati la settimana scorsa - e sono riuscito a salvare la casa nel 1997, quando altri hanno perso la vita durante i disordini che hanno preceduto le elezioni. Ora mi ritrovo qui con la mia famiglia, ma ho perso tutto".
Quella di Alfred è la storia di molti kenyani - oltre 350.000 - che hanno dovuto fuggire alle violenze post-elettorali. La maggioranza di questi sfollati interni si è riversata nei cortili di chiese, conventi e scuole religiose. Alcuni di essi si sono rivolti alla polizia, ma la maggioranza diffida dei tutori dell'ordine, che spesso hanno lasciato inermi cittadini alla mercè delle bande armate. Una crisi umanitaria non nuova per il Kenya, ma senz'altro di dimensioni mai viste prima. Molti degli sfollati stanno ora muovendosi con mezzi di fortuna verso le terre ancestrali. Il che vuol dire tornare verso una casa abbandonata da tempo, dove i parenti dovranno farsi carico dei nuovi arrivati erodendo ancor più le magre entrate. Questo mentre il presidente Mwai Kibaki - visitando i campi dei rifugiati durante il fine settimana - ha promesso che lo Stato ricostruirà le case distrutte dalla violenza.

La minaccia della fame

Non è chiaro quanti siano pronti a tornare sui luoghi delle violenze, anche se per molti non si tratterà di una vera scelta. Non avendo altro luogo dove andare, saranno costretti a tornare alla vecchie case e tentare di ricostruire non solo le abitazioni, ma anche un nuovo rapporto con gli altri abitanti delle zone colpite. Ma occorre far presto. Tra qualche settimana inizierà la stagione delle piogge e i campi devono essere dissodati e seminati per tempo. Il rischio, sottolineato da molti, è che il Kenya perda gran parte dei raccolti e che si ritrovi tra qualche mese di fronte ad una grave crisi alimentare. La maggioranza degli sfollati è formata da donne e bambini, molti dei quali non hanno potuto andare a scuola dall'apertura dell'anno scolastico a gennaio. La soluzione del problema ha quindi un carattere di urgenza che, purtroppo, rimarrà tale ancora per lungo tempo. Non si avrà una soluzione al caso umanitario finché il Paese non troverà una soluzione politica alla crisi che lo attanaglia.
Sotto la guida di Kofi Annan, Governo e opposizione sembrano aver trovato un terreno comune su cui lavorare. L'ex segretario generale dell'Onu e Graça Machel, del gruppo che media il dialogo tra le forze politiche, sono stati ricevuti in parlamento dove hanno potuto esporre i traguardi raggiunti e gli obiettivi che rimangono in sospeso. Annan ha chiarito che una soluzione non sarà pronta prima della fine di questa settimana, anche se ha mostrato un cauto ottimismo sul cammino da percorrere. Governo e opposizione sono ancora divisi su come gestire il potere nei prossimi mesi e su quando far tornare gli elettori urne. Fulcro della trattativa è come arrivare al rinnovo delle strutture fondamentali dello Stato e la questione della distribuzione delle risorse.
Uno dei nodi politici irrisolti dal dopo indipendenza è quello della Costituzione. Una nuova legge fondamentale dovrebbe distribuire meglio il controllo del potere. Attualmente chi vince le elezioni presidenziali ha un controllo pressoché totale sul Paese. È chiaro quindi che intorno al presidente si formi presto un gruppo di sostenitori che controlla tutto, soffocando le opposizioni. Le violenze delle scorse settimane possono essere viste come una reazione a questa situazione. Quei gruppi etnici che non hanno mai avuto accesso al potere si sentono emarginati e non hanno altro mezzo per ottenere attenzione se non attraverso azioni estreme.
Il secondo punto da affrontare è quello della distribuzione delle risorse, specialmente della terra. È noto che la maggioranza della terra del Paese sia in mano a poche famiglie, in modo particolare a i Kenyatta, Moi e Kibaki, le famiglie dei tre presidenti che il Kenya ha avuto. È inoltre noto che la distribuzione delle terre è sempre stata un caposaldo per il controllo della vita politica. L'ultimo rapporto della Commissione nazionale dei diritti umani mette in luce come migliaia di ettari di terreni pubblici siano stati dati a pochi beneficiari in cambio di sostegno politico. La questione della giustizia sociale è venuta alla ribalta durante gli scontri delle ultime settimane e, per la prima volta, è stata recepita come importante dal mondo politico e finanziario. I manager delle industrie più grandi del Paese hanno consegnato a Kofi Annan un memorandum dove si invitano i politici ad agire per una società più giusta e dove le industrie si impegnano a contribuire con risorse finanziarie e attività formative per ridurre il divario economico tra le classi sociali.

La cura degli sfollati

Da anni le chiese, e in modo speciale i Comitati di giustizia e pace della chiesa cattolica, hanno denunciato la situazione insostenibile di ingiustizia sociale e operato per assistere i più poveri, sia con iniziative di emergenza che con programmi di sviluppo. Anche oggi, sono le chiese e la croce rossa kenyane a sostenere il peso della cura degli sfollati. Purtroppo, nel percorso verso le elezioni e nei giorni dei primi scontri, molte personalità religiose hanno dato il loro sostegno ad un campo o l'altro basandosi più sulle affiliazioni politiche ed etniche che non al senso della giustizia. Il cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi, nel suo messaggio per la Quaresima ha ricordato come "le distruzioni a cui abbiamo assistito non sono il lavoro di pagani o di stranieri", a voler sottolineare come il bisogno di una conversione profonda della società debba partire dalle comunità cristiane e dai loro leader.
Nella confusione e nell'orrore delle scorse settimane vanno notati alcuni aspetti positivi. Da una parte le comunità cristiane hanno saputo rispondere con generosità ai bisogni immediati delle persone colpite dalle violenze. Dall'altra, non si può tacere la maggiore consapevolezza della società civile. Negli ultimi anni un gruppo sempre più folto di kenyani si impegna per la crescita del senso civico e l'affermazione delle istituzioni democratiche nel Paese. Sebbene non abbiano catturato l'attenzione dei media internazionali, queste persone hanno agito con senso di maturità e con metodi non-violenti sostenendo una soluzione pacifica alla crisi.
La violenza politica e quella a sfondo etnico hanno portato alla ribalta il Kenya in un momento in cui il continente africano è sotto i riflettori dei media internazionali. Va notato come i conflitti africani non siano in crescita, come invece qualcuno sostiene. La situazione in Ciad è peggiorata nelle ultime settimane, ma perdura da anni. Il Darfur è teatro di una sistematica pulizia etnica, ma non si tratta di una tragedia recente. La guerra civile nella Repubblica Democratica del Congo continua sin dal tempo del primo Kabila, padre dell'attuale presidente. La Somalia non ha avuto un momento di vera pace sin dall'uscita di scena del dittatore Siad Barre. La crisi zimbabweana non è di ieri, eppure oggi trova rinnovato spazio nei media europei.

I conflitti nel continente

La situazione africana non è improvvisamente peggiorata. Quello che è cambiato è l'interesse dei media occidentali, e l'importanza strategica dei conflitti. In modo particolare, la tensione in Kenya mette a dura prova anche gli altri Paesi della regione che dipendono dal Kenya per la fornitura di idrocarburi, per le esportazioni di alcuni generi di consumo. Al porto di Mombasa, centinaia di container rimangono stoccati e saranno spediti nei Paesi limitrofi solo quando le strade e la ferrovia saranno più sicure. Ciò ad esempio ha provocato l'aumento del costo della benzina che ormai scarseggia in Rwanda e Uganda.
Nelle passate settimane si è sottolineato come anche il Kenya, Paese da sempre saldo in una regione instabile, sia caduto nella trappola della violenza. Oggi è bene sottolineare che il Kenya ha la possibilità concreta di mettere a nudo le radici dei suoi problemi e trovare soluzioni reali alle tensioni che lo attanagliano. Rintracciare le radici dell'ingiustizia sociale e trovare vie di crescita democratica sarebbero segnali forti anche per i Paesi a sud del Sahara, dove simili tensioni sono presenti e minacciano quotidianamente la stabilità e la pace.

 

(© L'Osservatore Romano 14 febbraio 2008)