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Proteggere la libertà di tutti

 

In difesa
della dignità umana

 

di Laura Palazzani


Sul quindicinale "The New Republic" del 28 maggio, Steven Pinker - che insegna psicologia nell'università di Harvard ed è esperto in scienze cognitive - critica il rapporto Human dignity and bioethics pubblicato nello scorso marzo dal President's Council on Bioethic, organo consultivo di George W. Bush per le questioni bioetiche.
Oggetto della critica è il concetto di "dignità", che nel volume è proposto come fondamento della bioetica. Un concetto ritenuto dall'autore "astratto" e "inutile", che costituisce il "terreno naturale sul quale costruire una bioetica ostruzionista", cioè conservatrice e reazionaria. Questa è identificata con la bioetica cattolica o teocon, accusata di imporre valori religiosi in politica (soprattutto in biomedicina). Il concetto di "dignità" sarebbe usato in bioetica solo per frenare la scienza e la tecnologia, sempre e comunque, anche quando le nuove scoperte possono allungare la vita, migliorare la salute, diminuire la sofferenza. Questo concetto sarebbe poi relativo, "sostituibile" e pericoloso - in quanto "fenomeno della percezione umana", cioè modificabile a seconda del soggetto che lo percepisce - ma anche "scivoloso", caotico, ambiguo:  insomma, una nozione "sciocca" che sarebbe meglio eliminare dal vocabolario bioetico, sostituendola con "autonomia", intesa come capacità di un soggetto consapevole di decidere e autodeterminarsi, esprimendo un consenso o dissenso rispetto ai trattamenti offerti dalla biomedicina. È il soggetto che deve decidere se vuole vivere o morire, guarire o migliorare, soffrire o non soffrire.
La critica di Pinker non è condivisibile, per una serie di ragioni filosofiche. Il concetto di dignità non è un concetto solo religioso. Il fatto che esso sia al centro della dottrina giudaico-cristiana - citato "più di cento volte", sottolinea Pinker, nel Catechismo della Chiesa cattolica - non significa che sia un patrimonio esclusivo della sfera religiosa. Lungo sarebbe l'elenco di autori non cattolici e non religiosi che hanno usato e usano il concetto di "dignità":  non si può non citare almeno Immanuel Kant con l'affermazione di trattare sempre l'altro come fine e mai come semplice mezzo, oggetto di riflessione specifica nel volume. E lo stesso Pinker riconosce che "alcuni capitoli del volume non si richiamano direttamente alla dottrina cattolica":  in effetti è sufficiente dare uno sguardo all'indice per cogliere la varietà interdisciplinare e pluralista di voci che discutono filosoficamente il concetto di dignità nell'ambito del rapporto tra natura e tecnologia (basta citare Daniel C. Dennett e Martha Nussbaum).
Il concetto di dignità non è astratto:  si riferisce all'uomo in carne e ossa, all'individuo concreto che merita rispetto. E non è nemmeno un concetto variabile, nella misura in cui si riferisce alla natura umana (invariabile in sé):  semmai è variabile nella determinazione concreta di quali azioni siano rispettose della dignità del soggetto. Non è poi un concetto ambiguo, se non lo si considera solo in senso formale:  non è un involucro vuoto riempibile di qualsiasi contenuto, ma un contenitore che contiene il riconoscimento del valore dell'uomo in quanto uomo.
E non è un concetto pericoloso:  al contrario è pericolosa la sua negazione. La dignità umana è infatti il fondamento irrinunciabile per la bioetica. Per una ragione principale:  perché l'eliminazione del concetto di dignità fondato sulla natura umana significa l'eliminazione della prospettiva universalistica. La dignità umana è l'unico riferimento oggettivo (e non soggettivo) che la bioetica può riconoscere, sul piano razionale, per affermare che ogni essere umano ha dignità, senza distinzioni o discriminazioni sulla base di condizioni diverse di esistenza (fase di sviluppo o età, salute o malattia, abilità o disabilità). Affermare che tutti gli esseri umani hanno intrinsecamente dignità significa negare la pretesa di distinguere estrinsecamente tra "degni" e "indegni".
Ciò che è pericoloso, semmai, è sostituire "dignità" con "autonomia" (riducendo il primo termine al secondo), nel senso proposto da Pinker:  se la bioetica dovesse avere come unico riferimento il valore dell'autonomia inteso come "diritto di una persona sul proprio corpo, diritto a fare quello che vuole", ne deriverebbe infatti la prevaricazione di chi è autonomo su chi non è autonomo (non ancora o non più autonomo). Si affermerebbe la logica escludente dell'individualismo (che esclude chi non può decidere) sulla logica includente dell'universalismo (che include ogni essere solo perché è umano, a prescindere da quello che fa).
La bioetica che riconosce la dignità intrinseca dell'essere umano non è "illiberale":  chi afferma la dignità non si contrappone all'autonomia (si pensi a Kant, ove l'autonomia assume una valenza universale); semmai si oppone all'autonomia come autodeterminazione. Chi afferma la dignità non nega la libertà, ma la limita. Nella convinzione che non si possa proteggere tutta la libertà - se non al prezzo di sacrificare la libertà di alcuni, in genere proprio i più deboli che non sono in grado di fare sentire la propria voce - ma che si debba proteggere la libertà di tutti (sia di chi la esercita sia di chi non è in grado di esercitarla). La bioetica che riconosce ogni uomo come avente dignità non è oscurantista:  non proibisce sempre a priori incondizionatamente, ma si sforza di ricercare in modo critico, di volta in volta, regole di comportamento (proibitive o permissive) compatibili con il rispetto dell'uomo. Non frena il progresso, ma lo orienta nella direzione della giustizia, che non può non basarsi sull'uguaglianza tra tutti gli esseri umani.
L'appello alla dignità non è uno slogan di chi ha argomenti poco convincenti, ma il nodo cruciale che esige proprio in bioetica una rigorosa tematizzazione filosofica. E il volume del consiglio presidenziale statunitense offre un importante contributo in tal senso.

 

(© L'Osservatore Romano 28 maggio 2008)