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L'esperienza degli hospice

 

Anche alla fine
la vita è preziosa

 

di Ferdinando Cancelli
Medico, esperto in cure palliative


In Italia, la vicenda di Eluana Englaro, in stato vegetativo persistente dal 18 gennaio 1992 in seguito a un incidente stradale, ha avuto un risvolto forse meno evidente ma non per questo meno rilevante. In seguito al decreto della Corte d'Appello di Milano del 9 luglio scorso che autorizzerebbe la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione determinando la morte della ragazza, più volte è stata riferita da giornali e televisioni la volontà del padre di Eluana di trovare un hospice disponibile ad attuare fisicamente quanto prospettato dai giudici di Milano. Al di là del ricorso in Cassazione deciso dalla Procura Generale di Milano contro il sopra menzionato decreto della Corte d'Appello, merita soffermarsi proprio sul luogo che qualcuno avrebbe visto come il più adatto per porre fine alla vita della paziente:  un hospice.
Il particolare non è affatto trascurabile se si pensa che spesso proprio l'hospice rappresenta, per chi professionalmente si occupa di cure palliative ma soprattutto per i tanti pazienti affetti da patologie inguaribili e per i loro familiari, la struttura cardine dell'assistenza, il luogo che, nei casi di impossibilità di attuare l'assistenza a domicilio, spesso è l'ultima dimora di questi malati. E ciò a tal punto che la medicina palliativa ne ha fatto un simbolo identificandosi spesso ancor oggi con quel "movimento hospice" sorto negli anni Sessanta del secolo scorso in Gran Bretagna sulla scia dell'attività di Cicely Saunders, fondatrice della prima struttura identificata con questo nome, il Saint Christopher Hospice di Londra. "La morte può non essere facile, ma può essere fatta sacra:  è questo più di qualsiasi altra cosa il segreto di un hospice" scriveva sister Paula nel 1979 sul "Nursing Times". Lungi dall'essere un luogo di morte, magari provocata, l'hospice è un luogo di vita.
È difficile trovare una realtà che meglio possa far comprendere l'essenza dell'attività quotidiana di un centro residenziale di cure palliative più del Nirmal Hriday ("cuore puro"), creato nel 1954 a Calcutta da madre Teresa (1910-1997), la religiosa nota in tutto il mondo che nel 1979 fu insignita del premio Nobel per la pace e che è stata proclamata beata da Giovanni Paolo ii nel 2003. Di fronte ai miserabili che morivano per strada, a madre Teresa fu concesso l'uso di un dormitorio per pellegrini accanto al tempio della dea Kali a Kalighat e lei, vedendolo subito come "il posto più opportuno per la nostra gente per riposarsi prima di andare in cielo", lo trasformò di fatto in un hospice. In condizioni per noi difficili anche solo da immaginare, nel più puro spirito della medicina palliativa, madre Teresa e poche consorelle iniziarono a prendersi cura dei morenti, delle loro ferite  fisiche  e  ancor  più  delle  tante ferite alla loro dignità di persone umane.
Nutrire, dissetare, lenire il dolore e gli altri sintomi che tormentano nelle fasi terminali di molte malattie, offrire l'assistenza spirituale nel pieno rispetto della fede di ognuno, assicurare un luogo di tranquillità e riparo sono ancora oggi gli elementi che caratterizzano un hospice e che allora facevano dire alla fondatrice delle Missionarie della Carità che "una morte meravigliosa è poter morire come angeli, amati e desiderati". Troppo spesso si dimentica che madre Teresa di Calcutta fu pionieristica nel campo dell'assistenza ai malati terminali, quasi una fondatrice di quella medicina low tech, high touch ("bassa tecnologia, cura elevata") che prenderà, più di dieci anni dopo la nascita del Nirmal Hriday, il nome di "palliativa" e di "movimento hospice".
Ha scritto Kathrin Spink, nella sua biografia di madre Teresa, che presto la religiosa si accorse anche che la struttura da lei aperta era "un luogo che aveva la capacità di trasformare. Erano pochi quelli che andavano alla casa del morente a pulire a quelle donne e a quegli uomini le ferite, a liberarli dagli escrementi, a tagliare loro i capelli, a cercare di imboccarli, anche solo a strofinare i pavimenti e le verande (...) e non ne uscivano in qualche modo cambiati". Quasi commuove scoprire che questa esperienza è freschissima anche oggi:  accompagnare il morente, senza né affrettarne né ritardarne il decesso, può risultare decisivo per la propria conversione, per la riscoperta non solo dell'altrui ma anche della propria dignità.
Proprio alla luce di quanto affermato ci pare di poter dire che un hospice non sarà mai un luogo adatto per negare le cure ordinarie a nessuno, specialmente a chi, trovandosi in uno stato di disabilità grave, di tali cure ha particolare bisogno. Ciò consisterebbe nello stravolgerne completamente la funzione, nel negarne apertamente la finalità ultima che è solo e soltanto il servizio alla vita. Una paziente un giorno con la poca voce che le restava ci confidò:  "Mi piace questo posto perché la morte quando arriva ci trova vivi".

 

(© L'Ossrvatore Romano 4-5 agosto 2008)