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La crisi nel Caucaso

 

Diritto internazionale
e rapporti di forza

 

di Pierluigi Natalia


Alla base della crisi esplosa in queste settimane nel Caucaso ci sono contrasti militari ed economici, etnici e nazionalistici, geopolitici in senso lato che sembra difficile dirimere in tempi brevi, per non parlare delle implicazioni sul piano del diritto internazionale. Sebbene, le armi abbiano taciuto abbastanza presto, la tensione sembra destinata a protrarsi a lungo non solo tra Russia e Georgia, ma nei rapporti internazionali complessivi.
Tra Stati Uniti e Russia i toni sono i più aspri usati dalla fine della guerra fredda. Bush ha accusato Mosca di "violenza inaccettabile" e Condoleezza Rice di "comportamento da fuorilegge". Putin ha parlato di "cinismo" degli Stati Uniti nell'aver sostenuto l'avventurismo della Georgia in questa vicenda e nell'averle fornito appoggio militare. Sullo sfondo, resta la questione delle risorse energetiche. Mosca considera lesivo dei suoi interessi l'oleodotto costruito in territorio georgiano che porta il greggio del Mar Caspio ai mercati occidentali, scavalcando il suo monopolio.
L'Europa ha mostrato un atteggiamento duplice. Da un lato, in sede Nato, i Paesi europei hanno concordato con Washington nell'affermare che i rapporti con Mosca "non possono restare gli stessi". Dall'altro, l'Unione europea ha mantenuto un'equidistanza diplomatica che ha consentito al suo presidente di turno, il francese Nicolas Sarkozy, di ottenere l'assenso di Mosca e poi di Tbilisi a fermare le armi.
Peraltro, se i primi cinque punti del piano di pace (non ricorso alla forza; cessazione immediata di tutte le ostilità; libero accesso agli aiuti umanitari; ritorno delle forze georgiane nelle loro "postazioni permanenti", cioè nelle caserme; ritiro delle forze russe nelle posizioni precedenti al conflitto) sono stati già abbastanza applicati, nonostante alcuni ritardi, sul sesto la questione resta aperta. Il testo originario, che prevedeva un dibattito internazionale sul futuro status dell'Ossezia del Sud e dell'Abkhazia - l'altra regione russofona secessionista dalla Georgia - è stato modificato nella versione firmata da Tbilisi in un più generico riferimento a discussioni internazionali "sulle modalità di sicurezza e di stabilità".
Comunque, il presidente russo Dmitri Medvedev ha detto che "la risposta spetta a Ossezia del Sud e Abkhazia, tenendo conto della storia e dei recenti avvenimenti". Secondo Medvedev, cioè, esse hanno diritto alla secessione quanto e più del Kosovo, la cui indipendenza dalla Serbia proclamata il 17 febbraio è stata sostenuta dagli occidentali. Questo sia perché si tratta di acquisti relativamente recenti per la Georgia, sia in considerazione dell'attacco di Tbilisi in Ossezia del Sud.
Il successo russo sembra evidente sul piano militare e per Mosca è relativo anche l'insuccesso diplomatico:  è vero che ha rischiato l'isolamento internazionale, ma la crisi con la Nato appare limitata e non irreversibile. In cambio, la Russia ha affermato la sua potenza regionale e i suoi interessi strategici nel Caucaso.
Più in generale, comunque, questa crisi mostra la necessità di trovare strumenti nuovi per regolare i contrasti internazionali. Strumenti, cioè, capaci di privilegiare "il dialogo e la buona volontà comune", come ha indicato Benedetto XVI all'Angelus Domini di domenica 17 agosto. Strumenti senza i quali riesce difficile, in questo come in altri conflitti - come ha detto ancora il Papa - garantire alle minoranze etniche coinvolte "l'incolumità e il rispetto di quei diritti fondamentali che non possono mai essere concultati".

 

(© L'Osservatore Romano 21 agosto 2008)