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A una settimana dalle presidenziali negli Stati Uniti

Nella corsa alla Casa Bianca possibili sorprese
Molto poco sorprendenti


di Giuseppe Fiorentino

Se  potesse  tornare  indietro  John McCain cancellerebbe certamente una frase tra le tante pronunciate in questa interminabile campagna elettorale. Si tratta di quelle poche parole con cui il candidato repubblicano ha ammesso di non essere un esperto in materia economica. Parole che potrebbero rivelarsi fatali per le sue ambizioni presidenziali. Quella che si appresta al voto per scegliere il successore di George W. Bush alla Casa Bianca è infatti un'America costretta a interrogarsi sul futuro della sua economia e del suo stesso ruolo nello scacchiere internazionale.
Le ultime settimane di campagna elettorale sono state dominate dalla crisi finanziaria - e dalla conseguente minaccia di recessione - innescata negli Stati Uniti dai mutui subprime e poi estesasi ai mercati di tutto il mondo. Un tema come quello economico non usuale nelle campagne elettorali  statunitensi  -  tant'è  che McCain ha candidamente ammesso di non essere ferrato in materia - è divenuto quindi centrale nella corsa alla Casa Bianca. E, nella percezione generale, Barack Obama è sembrato più a suo agio quando si è trattato di toccarlo. È per questo, con ogni probabilità, che il senatore afroamericano dell'Illinois appare in vantaggio in tutti i sondaggi, anche negli swinging States - gli Stati indecisi - fondamentali per conquistare la Casa Bianca.
Non è bastato alla campagna repubblicana l'aiuto inconsapevolmente offertogli dall'ormai celebre Joe, l'idraulico che con modi bruschi ha affrontato Obama chiedendogli conto del suo programma di tassazione delle imprese. L'opinione pubblica ha ormai indissolubilmente legato - anche se in modo superficiale - l'attuale crisi finanziaria all'amministrazione repubblicana  sotto  la  quale  ha avuto luogo.  Ne  è  consapevole  anche McCain che nell'ultimo mese di campagna elettorale ha fatto di tutto per far passare l'idea della sua totale estraneità dalle scelte della presidenza Bush. Quello del cambiamento rispetto agli otto anni che si apprestano a concludersi è divenuto all'improvviso il cavallo di battaglia di entrambe le campagne.
Per McCain, però, è paradossalmente più essenziale dimostrarsi alieno dalle decisioni economiche di Bush di quanto non lo sia per Obama. L'elettorato repubblicano infatti è stato molto più restio di quello democratico ad accettare il piano di salvataggio della sistema finanziario lanciato da Bush e dal suo segretario al Tesoro, Henry Paulson, che negli ultimi tempi è forse stato l'uomo più popolare degli Stati Uniti. Il paracadute offerto a Wall Street - in un primo momento bocciato al Congresso dal voto di una fronda repubblicana - è stato visto non solo come un'indebita ingerenza dello Stato nel mercato, ma, soprattutto, come l'immeritato aiuto a un settore colpevole di aver progettato e prodotto mutui tossici capaci di ridurre sul lastrico migliaia e migliaia di famiglie. Eppure McCain ha dovuto, con responsabile senso dello Stato, accettare il piano Paulson. Ha dovuto sottoscriverlo, seppur con una certa riottosità, e ciò ne ha ulteriormente eroso il consenso in quell'elettorato più conservatore - e quindi contrario all'intervento del Governo - già contrariato da alcune prese di posizione non proprio ortodosse di McCain su temi quali l'immigrazione, l'ambiente e le unioni omosessuali.
L'anziano eroe del Vietnam - che della sua storia personale aveva fatto una bandiera, promettendo affidabilità e sicurezza rispetto alla retorica inesperienza di Obama - si è quindi trovato spiazzato ed è stato costretto a ridefinire la strategia quando era già in vista del traguardo. Anche la scelta di Sarah Palin come candidata alla vicepresidenza si è rivelata - secondo alcuni analisti - controproducente, dopo il clamore suscitato in un primo momento. La giovane governatrice dell'Alaska sembrava in effetti la persona giusta per pescare voti nell'elettorato femminile rimasto orfano di Hillary Clinton. Ma ora la hockey mum, come lei stessa si definisce, viene giudicata troppo aggressiva, troppo attenta ad attaccare gli avversari piuttosto che a proporre soluzioni per uscire da questa drammatica congiuntura. Più affidabile, a questo punto, pare l'avversario, il pacato ed esperto Joe Biden, capace di fare breccia in quella middle-class più esposta al rischio di rovesci economici.
Sembrano lontanissimi i tempi delle campagne dominate dalla lotta al terrorismo, dalla caccia a Osama bin Laden. E anche la minaccia iraniana che nelle prime battute della corsa alla Casa Bianca si era affacciata alla ribalta è passata in secondo piano. Tutte queste tematiche, funzionali ai repubblicani e su cui George W. Bush aveva costruito il consenso quasi plebiscitario al suo secondo mandato, sbiadiscono di fronte all'urgenza di una risposta alla crisi.
Tutto già deciso quindi? A giudicare dai sondaggi parrebbe di sì. Eppure non pochi analisti continuano a segnalare un'incognita. Una variante definita da alcuni fattore R e che attiene all'origine afroamericana di Barack Obama. Lo stesso candidato democratico si è più volte dimostrato consapevole di quanto la questione razziale possa essere decisiva, soprattutto in alcuni Stati dell'Unione. La maggioranza degli analisti ritiene che il fattore R non riuscirà a sovvertire l'esito previsto dai sondaggi di opinione, anche dopo l'endorsement offerto a Obama dai principali giornali statunitensi. Ma secondo alcuni McCain potrebbe ancora vincere. E questa sarebbe una sorpresa. Ma molto poco sorprendente.

 

(© L'Osservatore Romano 27-28 ottobre 2008)