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Le radici di un conflitto, le ragioni di una leadership

Chi rappresenta i palestinesi


di Luca M. Possati

Chi rappresenta i palestinesi? A cinquant'anni di distanza dalla nascita di Al Fatah in Kuwait - da un gruppo di studenti in esilio tra cui spiccavano il leader storico Yasser Arafat e l'attuale presidente Abu Mazen - questa domanda resta senza risposta. Come ha dimostrato il sesto congresso del partito tenutosi a Betlemme, la realtà palestinese ancora oggi è quella di un popolo scisso geograficamente e politicamente. Ma quali sono le radici di questa scissione? Perché la leadership palestinese non riesce a imboccare la strada del rinnovamento - Al Fatah non è mai stato guidato da una generazione diversa da quella dei suoi fondatori - e della riconciliazione? Dove porterà questo congresso?
È pressocché impossibile rispondere a tali interrogativi senza rivolgere uno sguardo alla storia recente del movimento palestinese. Quando, il 28 settembre 2000, l'allora capo del Likud, Ariel Sharon, decise di recarsi sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme - rivendicando simbolicamente la sovranità israeliana del luogo - sapeva bene a cosa andava incontro. Il giorno successivo, la mobilitazione di decine di migliaia di palestinesi segnava l'inizio della seconda Intifada. Ma la nuova ribellione aveva anche radici diverse dal gesto di Sharon, motivazioni profonde legate alla percezione delle masse palestinesi di uno svuotamento della causa nazionale e della mancata realizzazione degli accordi di Oslo del 1993. Da tempo la leadership di Al Fatah e il ruolo dell'Autorità palestinese avevano perso autorevolezza, non solo per la mancanza di un'autonoma progettualità politica, ma anche a causa di una certa volontà dei Governi israeliani d'indebolire la controparte.
Malgrado il vertice di Camp David (luglio 2000) e le proposte del Piano Clinton (dicembre 2000), i problemi veri - gli insediamenti, lo status di Gerusalemme, il "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi e la fondazione di uno Stato autonomo e sovrano - restavano ancora aperti. Si acuiva così l'attrito tra la vecchia classe dirigente dell'Olp promotrice di Oslo - fino a pochi anni prima in esilio a Tunisi - e le nuove generazioni cresciute sotto l'occupazione israeliana. Spaccatura che aveva come conseguenza un'ulteriore atomizzazione del potere tra gruppi politici armati (Jihad islamica, Hamas, Brigate di Al Aqsa, Fronte Popolare, Brigate Al Qassam), capi tribali, fazioni interne all'Olp.
La costruzione della barriera di separazione in Cisgiordania e il ritiro unilaterale da Gaza (agosto 2005) voluti da Ariel Sharon - che intanto abbandonava il Likud per creare il centrista Kadima - hanno cambiato radicalmente questo scenario, mettendo le basi dei successivi sviluppi. Hamas vinceva le elezioni per il rinnovo del Consiglio legislativo dell'Autorità palestinese nel gennaio 2006 e, con il sanguinoso colpo di mano dell'anno successivo, assumeva il controllo di Gaza estromettendo molti dirigenti di Al Fatah e creando la spaccatura amministrativa dei Territori.
E tuttavia, a differenza di quanto può sembrare, l'ascesa al potere degli uomini di Kaled Meshaal - promossa inizialmente anche dagli israeliani - non è stata né improvvisa né casuale. È stata, più in profondità, il frutto di un confronto tra due idee diverse della Palestina e dei palestinesi stessi:  il paradigma proposto da Al Fatah, che si riallaccia alla tradizione nazionalista laica di Arafat, e il modello di islamizzazione nazionale di cui Hamas si fa portatore.
Ora, dal congresso di Betlemme ci si attende una nuova linea politica per Al Fatah che sappia promuovere la riconciliazione e l'unità. Il documento finale prevede, accanto all'impegno in favore della soluzione dei due Stati, il ricorso al "diritto alla resistenza" nel caso in cui Israele non rispetti gli impegni. Insomma, nessun dialogo con il Governo Netanyahu se questi continuerà a pretendere dai palestinesi il riconoscimento del carattere ebraico di Israele e a non congelare tutti gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, come chiesto più volte anche dall'Amministrazione Obama. Di certo, il "diritto alla resistenza" non significa aprire alla lotta armata:  "Non siamo terroristi - ha garantito Abu Mazen - ma abbiamo il diritto di resistere all'occupazione". Restano aperte pesanti incognite:  il futuro dell'Olp - di cui diversi gruppi hanno chiesto un rinnovamento - le polemiche sui bilanci e la regolarizzazione delle forze di sicurezza.
Come hanno sottolineato numerosi analisti, nel momento in cui Israele fa un passo indietro in Cisgiordania, l'Autorità palestinese è in grado di governare. E di mettere le basi per una possibile prosperità economica. La metamorfosi di Nablus ne è l'esempio:  in poco tempo sono stati costruiti centri commerciali, ristoranti, piscine, palestre, libertà di movimento. C'è anche un Nablus Shopping Festival:  concerti la sera, cinema, negozi aperti fino a mezzanotte, turisti che affollano le strade. Una "Nuova Palestina", dove la disoccupazione resta elevata (venti per cento) e la tensione c'è ancora, ma dove si respira anche aria di creatività, di cambiamento. Qui la crisi economica non sembra arrivata. Anche il Fondo monetario internazionale se n'è accorto:  in un recente rapporto l'istituto di Washington ha reso noto che la crescita del prodotto interno lordo in Cisgiordania nel 2009 dovrebbe aggirarsi sul sette per cento. Impensabile fino a due anni fa, quando le forze di Hamas ingaggiavano scontri durissimi con quelle di Al Fatah.