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Le presidenziali in Afghanistan e l'offensiva talebana

Un voto
a sovranità limitata


di Gabriele Nicolò

Èdifficile credere che le presidenziali afghane possano imprimere una svolta al Paese. Ogni ipotesi di assetto istituzionale è infatti ostaggio della violenza dei talebani che, anche alla vigilia del voto, hanno pesantemente minacciato i potenziali elettori. Che si tratti di un voto a sovranità limitata si evince dal fatto che - per timore di violenze - resteranno chiusi seggi elettorali nelle province di Kandahar, Ghazni, Helmand, Zabul e Maidan Wardak. In alcuni distretti gli estremisti islamici hanno perfino sequestrato i certificati elettorali.
Pare quindi difficile prevedere che le presidenziali possano segnare un sostanziale progresso verso la stabilità di un Paese il cui assetto è divenuto centrale nello scenario politico regionale e internazionale. Un Afghanistan pacifico e governato in base alle regole del diritto non è certo nell'interesse dei talebani, che martedì 18 - due giorni prima del voto - hanno attaccato con dei razzi il palazzo presidenziale e il quartier generale della polizia nel cuore di Kabul.
Qualche giorno prima era stata la Nato a essere bersaglio di un attentato. E non si è certo trattato di un gesto casuale. L'Alleanza Atlantica, tramite il nuovo segretario generale, Anders Fogh Rasmussen, ha infatti ribadito - riecheggiando i concetti espressi alcuni mesi fa dal presidente Obama - che la crisi afghana rappresenta una priorità nell'agenda internazionale e dunque richiede da parte degli alleati un'attenzione privilegiata. Nell'escludere ogni ipotesi di disimpegno precipitoso, Rasmussen ha dichiarato che le forze Nato rimarranno nel Paese fino a quando la situazione non si sarà stabilizzata.
Ma quando sarà raggiunto questo obiettivo? Non c'è, al riguardo, grande fiducia. Né i candidati alla presidenza - fra i quali l'attuale capo di Stato Hamid Karzai - hanno mai offerto indicazioni precise e, nell'esporre i programmi, non sono andati oltre i soliti, generici propositi:  lotta al terrorismo,  alla  povertà,  alla  corruzione.
Contro un nuovo mandato di Karzai concorre l'ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah - rappresentante dell'etnia tagika - il quale spera di sconfiggere l'attuale presidente nel secondo turno di ottobre soprattutto contando sull'appoggio dei non appartenenti al gruppo pashtun. Gli altri candidati sono Ramazan Barshadost, già ministro della Pianificazione, e Ashraf Ghani, che è stato titolare del ministero delle Finanze. La frammentazione del quadro politico interno potrebbe risultare l'elemento chiave per l'esito del voto. Karzai è comunque il candidato che meglio è riuscito a creare una rete di alleanze. Per questo motivo, nonostante il vistoso calo di popolarità, egli rimane il favorito per la vittoria finale.
La posizione degli altri candidati è indebolita dalla mancanza di alleanze trasversali e numericamente consistenti, diretta conseguenza di una concezione personalistica della candidatura e dell'effettiva inconsistenza del sistema dei partiti nel Paese. Le tradizionali rivalità fra i diversi capi tribali - mai veramente superate - non aiutano inoltre a formare un contesto adatto al tanto auspicato processo di riconciliazione. Chi si recherà alle urne - sono diciassette milioni gli afghani chiamati a eleggere il presidente e 420 consiglieri provinciali - non avrà quindi davanti un panorama chiaro e ben articolato. E ciò senza contare la minaccia talebana.
Karzai appare quindi come favorito, ma a un altro traguardo - oltre alla conferma alla presidenza - ambisce l'attuale capo dello Stato. Scopo primario della sua azione politica è infatti il necessario riavvicinamento agli Stati Uniti, visto che Washington da tempo non fa più mistero di gradire una gestione decentralizzata del potere da affidare - come indicano fonti diplomatiche - a soggetti alternativi a Karzai. Questi, durante un comizio a Kabul, ha dichiarato:  "I nemici dell'Afghanistan cercheranno di provocare confusione, ma non c'è da preoccuparsi".
Ma c'è invece chi si preoccupa, come il generale Stanley McChrystal, comandante delle forze statunitensi e della Nato in Afghanistan, il quale - di fronte all'estendersi della controffensiva talebana - ha chiesto più volte alle forze alleate di non abbassare la soglia di attenzione. Del resto il generale sta sollecitando l'invio di nuove truppe per far fronte alla situazione:  a breve McChrystal potrebbe chiedere al presidente Barack Obama un ulteriore contingente di diecimila soldati di rinforzo. E lo stesso segretario alla Difesa, Robert Gates, si è dichiarato favorevole a questa prospettiva.
Le forze alleate hanno adottato due distinte strategie nelle settimane che hanno preceduto le presidenziali. La prima è stata di carattere militare. Sono state intensificate le operazioni, soprattutto nel sud, dove più attivi sono gli estremisti. La seconda, diplomatica, mirante a avviare un dialogo con i talebani moderati e a tracciare un sentiero di uscita da una crisi senza fine.
Dal ministro degli Esteri britannico, David Miliband, al segretario di Stato americano, Hillary Clinton, fino al capo della diplomazia francese, Bernard Kouchner, sono stati molti a caldeggiare l'avvio di un negoziato con quei miliziani disposti a deporre le armi e a rispettare la Costituzione. Anche la Nato ha dichiarato di appoggiare questa linea. Sul futuro scenario afghano la scelta negoziale sarebbe destinata, in teoria, a incidere positivamente, visto che sottrarrebbe agli estremisti sponde strategiche. E potrebbe ancora una volta rivelare come l'opzione militare non sia da sola sufficiente a garantire il successo di una strategia politica.

 

(© L'Osservatore Romano 19 agosto 2009)