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Prospettive politiche della crisi in Vicino Oriente

La pace
più difficile


di Luca M. Possati

Il cammino verso la pace in Terra Santa è ancora lungo e accidentato. L'operazione "Piombo Fuso" a Gaza, le elezioni in Israele e in Libano, la nascita del nuovo Governo Netanyahu, le polemiche sul rapporto Goldstone, gli attriti tra Hamas e Al Fatah, le trattative sullo scambio di prigionieri:  nel 2009 la carta politica del Vicino Oriente ha subito profonde trasformazioni e conosciuto inattese complicazioni. Come ha detto Benedetto XVI, ricordando il pellegrinaggio in Giordania e in Terra Santa, "tutto ciò che si può vedere in quei Paesi invoca riconciliazione, giustizia e pace". Ma quali sono i nodi da sciogliere? Che tipo di problemi minaccia oggi il raggiungimento di questi tre ideali fondamentali? E quali sono invece i segnali che incoraggiano la speranza?
Dopo "Piombo Fuso" il dialogo tra israeliani e palestinesi è caduto in uno stallo difficile da superare. Il numero dei razzi lanciati da Hamas è calato, la situazione nel sud di Israele è più tranquilla, ma sul piano politico non si segnalano progressi sostanziali. Secondo fonti di stampa, l'Amministrazione Obama avrebbe messo a punto un nuovo piano per raggiungere un accordo definitivo su tutti i punti del contenzioso entro due anni. Ma il condizionale è d'obbligo, perché da Washington non è ancora giunta nessuna conferma ufficiale e molto dipenderà dall'esito dell'attuale missione dell'inviato speciale, George Mitchell.
Nel corso di un vertice al Cairo, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato che "i tempi sono ormai maturi per una ripresa del processo di pace". Annuncio, questo, giunto non a caso poche ore dopo l'incontro tra Netanyahu e Tzipi Livni, il leader del centrista Kadima (principale forza dell'opposizione), incontro durante il quale il premier avrebbe offerto a Livni la possibilità di entrare a far parte di un Governo di unità nazionale. Secondo quanto riporta il "Jerusalem Post", Netanyahu avrebbe deciso di offrire al Kadima quattro ministeri, tre dei quali fanno parte del Gabinetto di Sicurezza. Già nove mesi fa, subito dopo le elezioni del 10 febbraio, il premier aveva proposto a Livni di entrare a far parte dell'Esecutivo, ma l'ex ministro degli Esteri si era sempre opposto. Se Livni continuerà a mantenere questa posizione, rischia di creare una spaccatura all'interno del Kadima, dove esponenti di primo piano, tra cui il generale ed ex ministro della Difesa, Saul Mofaz, criticano la sua linea politica e l'accusano di aver indebolito il partito fondato da Sharon.
Un'eventuale entrata del Kadima nella compagine governativa - è questo il parere di molti commentatori - potrebbe avere due effetti:  da una parte, quello di diminuire l'influenza delle forze di estrema destra, in primis lo Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman (terza forza politica israeliana) e i partiti ultraortodossi come lo Shas e lo Jewish Home; dall'altra, quello di sbloccare il dialogo con Washington sulla questione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Finora l'Amministrazione Obama ha esercitato pressioni per un blocco completo degli insediamenti, sia di quelli già costruiti sia di quelli in progettazione. L'Autorità palestinese considera il congelamento una condizione imprescindibile per la ripresa delle trattative. Tuttavia, al termine di lunghi colloqui con Mitchell, Netanyahu ha accettato solo un blocco parziale (solo per le case private) e temporaneo (solo di dieci mesi). Una decisione sulla quale non hanno potuto non pesare le proteste dei rabbini dissidenti e del movimento dei coloni, nonché l'opposizione di molti deputati della Knesset e di alcuni membri del Governo. Lo scorso novembre l'amministrazione municipale di Gerusalemme ha confermato la costruzione di novecento nuovi alloggi a Ghilo, un insediamento ebraico nella parte orientale della città. Alla notizia Washington si è detta "costernata".
Sul fronte palestinese, a dominare la scena sono ancora le tensioni tra Hamas e Al Fatah. Alla fine dello scorso ottobre è saltata la firma di un accordo di riconciliazione tra le due fazioni storicamente rivali. Per il momento la guida dell'Autorità palestinese resta salda nelle mani del moderato Abu Mazen, come ha deciso il comitato esecutivo dell'Olp prorogandogli il mandato. Il leader di Al Fatah ha tuttavia confermato che non si candiderà alle prossime elezioni politiche, inizialmente fissate per il 24 gennaio ma poi rinviate sine die a causa del boicottaggio minacciato da Hamas. Nel frattempo, sale la tensione in Cisgiordania:  a dicembre si sono susseguiti numerosi scontri, particolarmente nella Spianata delle Moschee. Hamas ha subito cavalcato l'ondata delle violenze affermando che la battaglia per la liberazione di Gerusalemme è appena iniziata.
In Libano, dopo le elezioni del 7 giugno che hanno decretato la vittoria del filoccidentale Fronte del 14 Marzo, la coalizione guidata da Saad Hariri, il leader di Al Mustaqbala, si è giunti, attraverso lunghe e complesse trattative, alla formazione di un Governo di unità nazionale. Ma i veri progressi sono quelli realizzati sul piano regionale:  con la sua storica visita a Damasco, Hariri ha segnato "il primo passo per ristabilire un rapporto proficuo tra Libano e Siria dopo le incomprensioni degli anni passati", come ha scritto il "Daily Star".
Ciò nonostante, la tensione resta alta in molte parti del Paese. Lo dimostrano due recenti episodi. Il primo è avvenuto nel sud del Libano:  una pattuglia delle forze Onu dispiegate nell'area (Unifil) ha scoperto un ingente quantitativo di esplosivo vicino alla frontiera con Israele. Il secondo si è verificato a Beirut:  due persone sono state uccise da un'esplosione nel quartiere meridionale di Haret Hreik, una delle roccaforti di Hezbollah. Pare che l'obiettivo fosse una cellula di Hamas. Sull'accaduto, tuttavia, si hanno ancora informazioni confuse e contraddittorie.