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Se armi e diplomazia fallissero

Notturno afghano


di Gabriele Nicolò

Rischia di incupirsi lo scenario afghano se l'obiettivo dell'offensiva della coalizione internazionale nel sud del Paese non verrà raggiunto:  piegare definitivamente la resistenza talebana per poi avviare nel territorio il processo di pacificazione. Se armi e diplomazia insieme non permetteranno di uscire dalla crisi, per il Paese l'orizzonte diventerebbe ancor più buio di quanto non sia già.
Mentre l'avanzata delle forze della coalizione procede a ritmo alterno nella provincia di Helmand, roccaforte dei miliziani, si cerca di avviare trattative con i talebani moderati per integrarli nel processo politico. Il presidente Hamid Karzai si è spinto oltre, invitando al tavolo dei negoziati anche gli estremisti. Al momento l'esortazione al dialogo è stato respinta al mittente:  anzi, i guerriglieri hanno risposto con sanguinose rappresaglie - l'ultima nel cuore di Kabul - all'offensiva della coalizione. E nel frattempo, tra il fuoco delle forze Nato e quello talebano si consuma il dramma dei civili, vittime innocenti di un conflitto senza fine.
La pressione della comunità internazionale per convincere i talebani moderati ad accettare il dialogo resta alta, nella consapevolezza che l'uso delle armi non sarà sufficiente a garantire al Paese una base solida sulla quale avviare il processo di ricostruzione. Ma è all'interno della comunità internazionale stessa che si registrano divergenze. Il mancato accordo sul prolungamento della missione in Afghanistan ha causato, nei giorni scorsi, la fine del Governo olandese. Per il 2011 è previsto il ritiro del contingente canadese e sembra che Ottawa non abbia alcuna intenzione di lasciare un giorno di più i propri soldati nel territorio afghano. Si teme che la decisione dell'Olanda possa provocare un effetto domino tra i Paese dell'Alleanza atlantica. Il segretario generale Rasmussen l'ha escluso, ribadendo l'unità degli alleati. E proprio in queste ore, comunque, il Parlamento tedesco ha detto sì alla proposta del Governo di rafforzare il contingente nel Paese:  una decisione salutata con sollievo dall'Amministrazione Obama, che vede nell'Afghanistan (e nel Pakistan) il fronte principale della lotta al terrorismo. Prova ne è il recente invio di trentamila rinforzi deciso dal presidente statunitense, convinto che investire nell'Afghanistan significa, alla lunga, vincere la guerra contro i terroristi e contribuire alla stabilità dell'intera regione mediorientale. Non a caso Washington da tempo caldeggiava la ripresa dei negoziati tra India e Pakistan, avvenuta giovedì a New Delhi a livello di sottosegretari:  anche attraverso il riavvicinamento tra i due Paesi - sostiene infatti l'Amministrazione Obama - passa la soluzione alla crisi afghana e il rafforzamento dei delicati equilibri nella regione, sempre sotto pressione a causa delle violenze. New Delhi e Islamabad, dopo quattordici mesi di silenzio (rotto semmai da polemiche e schermaglie in riferimento agli attentati di Mumbai nel novembre del 2008), sembrano avviati verso il disgelo:  si sono impegnati a mantenersi in contatto, in vista di nuovi negoziati. Una prospettiva che dunque può risultare utile anche alla causa di Kabul.
Il rischio, tuttavia, è di concentrarsi troppo su ciò che può accadere fuori dai confini afghani, perdendo di vista l'importanza che può avere - per la soluzione della crisi - un fronte politico interno solido e affidabile. E su questo punto la situazione è critica. Dopo le contestate elezioni presidenziali dell'agosto scorso, il Paese non ha ancora un Governo. Karzai, riconfermato tra le polemiche seguite all'accusa di brogli, ha sottoposto al Parlamento la lista dei ministri:  non tutti hanno passato l'esame. Qualche giorno fa il presidente, con un decreto, si è attribuito il controllo della regolarità delle elezioni:  sarà lui a nominare i cinque componenti della commissione elettorale per i ricorsi. Una mossa che non è piaciuta, perché troppo autoritaria, ai britannici, ai canadesi e ai francesi. Ma che invece è stata salutata con favore dagli Stati Uniti. "Sosteniamo l'iniziativa del Governo afghano che punta ad assumersi la responsabilità del proprio processo elettorale" ha dichiarato il portavoce del dipartimento di Stato, Philip Crowley.
Una reazione, quella di Washington, che in parte sorprende, visto che proprio di recente i rapporti fra la Casa Bianca e Karzai si erano fatti molto meno idilliaci:  tanto che gli Stati Uniti avrebbero pensato di favorire un assetto istituzionale più decentralizzato per arginare l'influenza del capo dello Stato. Al momento, però, non sembrano esservi alternative a Karzai:  e gli Stati Uniti, sebbene con riserva, continuano a puntare su di lui.