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A confronto le strategie di Europa, Stati Uniti e Cina

A Toronto le diverse facce del g20


di Luca M. Possati

Rischia di essere un g20 diviso e sterile quello che si apre venerdì 25 a Toronto. Con un'Amministrazione americana impantanata nei fanghi petroliferi della Louisiana, dove Barack Obama sta giocando un duro braccio di ferro con la Bp, e un'Europa stretta nella morsa del debito pubblico, l'appuntamento canadese potrebbe diventare una passerella senza significato, tesa soltanto a nascondere tensioni ben più profonde.
Ognuno alla fine farà i propri interessi, e questo è normale. Com'è normale che la Cina abbia deciso la scorsa settimana di rendere flessibile il tasso di riferimento dello yuan, ai valori massimi degli ultimi cinque anni. È stata una boccata d'ossigeno per gli Stati Uniti, che da mesi chiedevano a Pechino maggiore flessibilità della valuta minacciando, senza un serio impegno del Governo della Repubblica popolare in questa direzione, persino dazi speciali sui prodotti cinesi. Ma è stata anche una mossa calcolata di Pechino che vuole, da una parte, evitare critiche e mostrare trasparenza ai partner del g20, dall'altra innescare un cambio di passo nel proprio sistema economico. Con le esportazioni dei prodotti lavorati sempre più costose, se vorrà continuare a crescere a ritmi vertiginosi, la Cina dovrà per forza iniziare a produrre qualcos'altro e quindi - come hanno sottolineato molti analisti - passare da un'economia centrata sul settore manifatturiero a un'economia dei servizi più matura e competitiva. In tale difficile ma necessaria trasformazione molto dipenderà non solo dagli equilibri sociali interni, ma anche dal rapporto con l'euro. L'Ue è infatti il primo partner commerciale di Pechino (25 per cento circa delle esportazioni):  se l'euro dovesse mostrare altri cedimenti - e il made in China risentirne - lo yuan sarà costretto a frenare la sua corsa.
Tim Geithner sa bene che la mossa cinese potrebbe essere soltanto simbolica. Certo, il Dragone non è interessato a indebolire uno zio Sam già stremato perché vuole mantenere alto il valore dei suoi 859,2 miliardi di buoni del Tesoro a stelle e strisce. Ma alla lunga il deficit potrebbe anche rivelarsi un'arma politica sottile e molto importante per la Cina, grazie alla quale ottenere azioni - od omissioni - su alcuni delicati fronti internazionali, ad esempio i diritti umani o il Tibet. Senza contare che Washington ha un bisogno vitale del partner asiatico per finanziare un deficit abissale ed evitare il coinvolgimento nella crisi del debito sovrano europeo. Stretto tra una Cina troppo forte e un'Europa troppo debole, Obama teme una Cindia padrona assoluta dell'euro contro cui sarebbe inutile competere.
Per questo il tema della tassazione sulla banche sarà il punto decisivo del vertice di Toronto. Da mesi Francia, Germania e Gran Bretagna hanno deciso di fare fronte comune nel sostenere la misura e nel proporla a livello globale. Canada, Australia, Russia, Brasile, India e Giappone si oppongono:  a casa loro - sostengono - la crisi ha solo sfiorato il sistema finanziario e non si vede il perché di una misura sostanzialmente punitiva con ricadute disastrose sull'accesso al credito. E nemmeno in Europa, a dire il vero, il consenso è unanime:  Italia e Repubblica Ceca hanno già espresso più di una perplessità. Roma non capisce il presupposto della tassa, che in linea di massima potrebbe anche andare bene ma solo se fosse applicata agli istituti salvati con denaro pubblico, e non a tutti.
Ad affrontarsi in realtà - come sottolinea anche il "Wall Street Journal" - sono due linee strategiche molto diverse:  da un lato c'è chi sostiene che l'emergenza vera sia il debito e che quindi occorra agire subito con un aggiustamento strutturale dei conti all'insegna del rigore; dall'altro chi nutre il timore che un'eccessiva austerità possa stroncare un timido rimbalzo e pensa che gli interventi debbano essere contenuti, accompagnando i tagli con gli incentivi fiscali. La Banca centrale europea ha scelto la prima linea, con la decisione annunciata da Trichet martedì scorso di sanzioni automatiche per i Paesi meno virtuosi e di una riforma del patto di stabilità compiuta puntando sul rafforzamento dei controlli. C'è poi la proposta del "semestre europeo":  in un determinato lasso di tempo ogni Finanziaria, prima di ricevere il via libera dal Parlamento nazionale, dovrà essere sottoposta all'esame dei censori di Bruxelles. Il problema - dicono gli analisti - è che in mancanza di un serio sostegno alla ripresa, la zona euro sarebbe prossima al tracollo e finirebbe nelle mani di qualcun altro.
In questo panorama, Washington non si sbilancia. Lo scorso 14 gennaio Obama aveva tuonato contro Wall Street:  "Adesso vogliamo i nostri soldi indietro". Ma con l'avanzare della riforma al Congresso e con l'inasprirsi dell'opposizione politico-lobbistica il presidente si è reso conto che le cose non sono così facili e ha dovuto moderare le pretese. Il piano americano non prevede affatto - a differenza della proposta europea - un prelievo fiscale obbligatorio per tutte le banche. La tassa riguarderà solo le banche più grandi, quelle con asset superiori ai 50 miliardi di dollari, al fine di ridurre le dimensioni degli istituti ed evitare il "too big to fail", e - ha precisato la Casa Bianca - non sarà una misura punitiva. Il punto su cui insistono gli emendamenti proposti dall'opposizione è un altro:  la "Volcker Rule" vieterebbe alle banche di usare denaro proprio per investimenti in hedge funds e private equity, attività altamente speculative su cui molte puntano per ottenere profitti. Obama sta cercando di parare le critiche e di ricompattare il fronte dei democratici. Interviste sul "Rolling Stone" permettendo.