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L'America e la crisi economica

Le tre partite
di Obama


di Luca M. Possati

Con un deficit pubblico in costante ascesa, il dollaro che perde terreno, l'economia che stenta a ripartire e le tensioni interne al fronte democratico, Barack Obama affronta uno dei momenti più complessi del suo mandato. Il pacchetto di stimoli economici da 787 miliardi di dollari potrebbe non bastare a risanare le ferite dell'America. Politicamente la situazione al Congresso resta bloccata:  anche se manterranno il controllo della Camera dei Rappresentanti  alle  elezioni  di  mid-term, previste  per  novembre,  i  democratici non avranno i voti per varare nuovi incentivi.
Il presidente deve giocare tre partite decisive. Le tasse, anzitutto. Gli americani vogliono sapere se ci sarà o meno un aumento delle imposte. I tagli fiscali varati da George W. Bush nel 2001 e nel 2003 scadono alla fine dell'anno. L'inasprimento della pressione fiscale, nel caso di un mancato rinnovo, potrebbe aiutare l'Amministrazione a far tornare i conti e a sanare il debito pubblico. Soprattutto in un momento critico come questo, nel quale i redditi sono in stallo, tanto che la Fed ipotizza nuove misure di sostegno. I tagli di Bush sono costati alle casse federali tra i 1.400 e i 1.800 miliardi di dollari in dieci anni. Le stime più recenti dicono che un'estensione del provvedimento con la stessa durata comporterebbe perdite per altri 3.100 miliardi di dollari. In campagna elettorale Obama aveva promesso un rinnovo dei tagli, ma solo per il ceto medio, ovvero per i redditi che non superano i 250.000 dollari all'anno. Ora la situazione è cambiata e al Congresso i democratici sono divisi.
La seconda partita che il presidente è chiamato a giocare si chiama riforma del settore immobiliare. I prezzi delle case continuano a salire:  l'indice Case-Schiller, che monitora la situazione in venti città, è aumentato in maggio del 4,6 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. È stato il maggior incremento dall'agosto 2006. Per riequilibrare il mercato Obama ha annunciato che entro gennaio presenterà al Congresso un progetto di riforma per Freddie Mac e Fannie Mae, i due colossi dei mutui sulle case sopravvissuti alla crisi grazie agli aiuti statali. A tal proposito, Timothy Geithner, il segretario al Tesoro, ha convocato una conferenza per il 17 agosto con i rappresentanti del settore, gli esperti e le associazioni dei consumatori. La nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac, spettacolare per tempismo e dimensione, è stata una svolta chiave nella crisi del 2008, un passaggio che ha scongiurato il pericolo di un crollo sistemico. Tuttavia, l'operazione non ha risolto tutti i problemi, lasciando aperti molti squilibri. Anche qui il terreno è scivoloso:  l'opinione pubblica non vede di buon occhio il gigantismo dei fondi pubblici a sostegno di chi la crisi l'ha causata.
La terza partita chiave per Obama si svolge a Wall Street. È l'applicazione della riforma finanziaria. Le 2.319 pagine della legge Dodd-Franck approvata in via definitiva lo scorso 15 luglio sono solo uno scheletro sul quale debbono ancora essere innestati pelle, muscoli e organi vari. La situazione è più complicata del previsto:  sono quaranta gli studi da effettuare per rendere applicabile la legge. Si apre così un lasso di tempo indefinibile nel quale le grandi lobby avranno la possibilità di smussare le regole più rigide e i mercati continueranno a vivere nell'incertezza. La stessa incidenza della manovra potrebbe risentirne.
La riforma di Wall Street è un'architettura molto complicata. Ci sono aspetti positivi:  maggiori garanzie sui mutui, protezioni per i consumatori e più regole sui derivati. Ma - commentano gli analisti - puntando troppo sulla riduzione delle dimensioni delle banche, per evitare il famigerato "too big to fail", sono state tralasciate altre questioni importanti. Per esempio il sistema delle autorità di controllo, il cui numero attualmente supera il centinaio. La crisi ha mostrato a tutto il mondo che negli Stati Uniti ci sono troppi controllori e troppe regole:  un'inflazione che ha alimentato l'inefficacia della sorveglianza. La riforma non considera questo aspetto, muovendosi in tutt'altra direzione:  crea una nuova Autorità per la protezione dei consumatori dentro la Banca centrale e allarga ulteriormente i poteri della Federal Reserve e della Sec, senza intaccare il sistema duale di supervisione statale e federale.
Ma, come sottolineano gli esperti, la vera lacuna della riforma finanziaria è a livello concettuale:  si annuncia trasparenza, ma non si fa trasparenza. Se si rafforzano le autorità di sorveglianza, mancano tuttavia le regole che consentano loro di entrare a conoscenza dei bilanci delle istituzioni finanziarie, fin nei minimi particolari, senza il permesso di queste ultime. Anche la "Volcker Rule" - il punto nodale della manovra, la norma che prevede la separazione delle attività bancarie - è rimasta troppo indefinita e abbandonata alla discrezionalità dei controllori e delle singole banche.
Chi si aspettava dall'approvazione della riforma un nuovo inizio è rimasto deluso, a differenza delle lobby. Il "settembre nero" del 2008 non si è chiuso:  la disoccupazione resta alta, i consumi fanno fatica. E intanto le banche continuano a fallire:  nel 2010 hanno toccato quota 108 gli istituti di credito che sono stati costretti a chiudere i battenti. Istituti di piccole e medie dimensioni, il settore sul quale pesano di più gli ultimi strascichi della recessione.