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Sugli esami in gravidanza

Privacy genetica


di Carlo Bellieni

Cambiano in Italia le linee-guida per l'esecuzione degli esami genetici in gravidanza:  l'amniocentesi - un esame che analizza i cromosomi del feto prelevando liquido dall'utero materno - sarà gratuita solo nelle donne che presenteranno la positività di un esame, meno pericoloso, che mostri un rischio per il bambino di avere una sindrome Down. È un buon passo avanti, visto il pericolo non indifferente che in seguito all'amniocentesi avvenga la morte del feto.
Ma la diagnosi prenatale genetica, anche quando venga fatta sul sangue materno e senza rischio per il feto, non è eticamente neutra. Se servisse per curare sarebbe altra cosa, ma le possibilità di terapia dei malati di sindrome Down sono praticamente zero; dunque si entra nel segreto più nascosto di una persona, nel suo dna, senza il suo permesso, e verosimilmente non nel suo interesse. Non vorremmo perciò che il parere dell'Istituto Superiore di Sanità facesse sembrare moralmente neutri gli esami genetici fetali non pericolosi, che invece - per chi rispetta la vita e la privacy - solo in pochi casi hanno una giustificazione morale e che rischiano di diventare una routine, cioè uno screening.
La ricerca della sindrome Down del feto non deve essere uno screening, cioè una ricerca a tappeto, perché non è interesse dello Stato andare a individuare i bambini affetti prima della nascita; altri screening sono ottimi e desiderabili:  per esempio, quelli che si fanno per ricercare delle malattie curabili come l'ipotiroidismo. E non è neanche nell'interesse del bimbo.
Di recente, i giornali si sono infervorati per la scoperta cinese di un sistema volto a individuare nel sangue materno il dna fetale, con lo stesso livello di accuratezza dell'amniocentesi, ma senza rischi; ma questo a chi giova? Certamente non al paziente analizzato, cioè al feto, cui la diagnosi potrebbe agevolmente essere fatta dopo la nascita. Oltretutto i programmi di screening fatti per individuare a tappeto i soggetti con una certa malattia incurabile - il cui esito porta quasi sempre alla terminazione della vita dei soggetti stessi - bollano come "indesiderati" quei soggetti, e ovviamente anche quelli già nati con la stessa malattia; e questo non è certo un regalo gradito ai malati - ad esempio i talassemici - e alle loro famiglie, che si sentono come dei fuorilegge genetici.
Ma lo screening della sindrome Down fatto col sangue materno va almeno nell'interesse della donna? La ricerca scientifica sembra propendere per il no, perché l'idea stessa di screening va troppo a braccetto con l'obbligatorietà. Catherine Vassy, dell'Inserm di Parigi, spiega come fu introdotto lo screening genetico in Francia:  "L'espansione dei servizi genetici fu stimolata per iniziativa del Governo, di settori medici e dell'industria. Nelle audizioni del 1996 furono ascoltati i rappresentanti di famiglie di disabili. I loro rappresentanti approvarono limitatamente lo screening per sindrome Down. Entrambe le associazioni si espressero contro la sistematizzazione dello screening biochimico e chiesero di prevedere lo screening su base individuale, a richiesta della donna" ("Social Science and Medicine", ottobre 2006).
Ancora, su "Fetal Diagnosis and Therapy" (marzo 2008) una ricerca conclude dicendo:  "È difficile per le donne nel primo trimestre esercitare la loro autonomia nel riguardo dello screening per sindrome Down. Molte lo credono obbligatorio". Clare Williams, su "Social Science and Medicine" (novembre 2005), spiega che dalla richiesta individuale "si è passati all'effetto screening che a sua volta favorisce l'effetto "retata"". E una recente review mostra come "seppur molte donne ne conoscano gli aspetti tecnici, più raramente conoscono le finalità degli esami genetici. Molte (dal 29 al 65 per cento) non conoscono l'esistenza di falsi negativi e il 30-43 per cento quella di falsi positivi. Solo poche pensano alle scelte riproduttive [cioè alla possibilità di abortire], al momento di partecipare allo screening" ("Acta Obstetrica and Gynecologica" marzo 2006).
Insomma:  far diventare screening la diagnosi genetica prenatale surclassa la scelta individuale della donna; tanto che quando si spiegano bene le finalità e i limiti dei test genetici, come avvenne in Olanda, il numero di quelle che la scelgono crolla dal 90 al 46 per cento ("Prenatal Diagnosis", gennaio 2005). Detto in altre parole, la società occidentale che non offre terapie genetiche alla sindrome Down e neanche fa molto per cercarle, si lava le mani e scarica sulle spalle delle donne la responsabilità di chiudere le porte della nascita ai bambini Down, mentre molte donne, come mostra sempre Vassy, vorrebbero mille modi per abbracciare il loro bimbo anche malato ("Trends in Biotechnology", maggio 2005).
Ci attendiamo allora che con le nuove linee-guida si affermi che l'analisi dei cromosomi del figlio non è un obbligo, ma un'intromissione, a lui non utile, nella sua privacy genetica:  pertanto né da vietare, ma neanche da far diventare routine. E che le stesse linee-guida, dopo avere spiegato come aiutare a evitare le nascite, non omettano la spiegazione di come aiutare le donne a far nascere. Mostrando un percorso clinico virtuoso, in caso di anomalia genetica, che comprenda anche lo specialista della malattia riscontrata, in modo da prospettare in termini approfonditi il quadro clinico e sociale che aspetta il bambino. E indicando le strade per una migliore assistenza economica alle donne e alle famiglie dei bambini malati. Perché nessuna donna debba dire, di fronte a una diagnosi di malattia genetica, di essere stata lasciata sola.