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Dietro il taglio di Standard&Poor's all'outlook americano

I signori del rating
e i segreti di Washington

di LUCA M. POSSATI

La decisione di Standard&Poor's di tagliare l'outlook americano - la stima sulla direzione potenziale che assumerà la valutazione del debito nel medio periodo - è arrivata come un fulmine a ciel sereno e ha fatto capire a tutti che la crisi non è finita. È stato un atto dal forte valore simbolico. Molto forte, se si pensa che le agenzie di rating sono pagate dai Governi per dare loro quelle valutazioni da cui poi dipendono le quotazioni dei titoli di Stato nei mercati.
Ma i dubbi di Standard&Poor's hanno un fondamento reale? Pechino ci crede e ha lanciato un monito molto chiaro: l'Amministrazione Obama deve "adottare misure responsabili per proteggere gli interessi degli investitori". Dette dal maggior creditore degli Stati Uniti, queste parole assumono un senso preciso: il Congresso deve sbrigarsi a raggiungere un accordo per l'innalzamento del tetto del debito, altrimenti il mondo dovrà fare i conti con il primo default americano.
Gli Stati Uniti sono ancora l'economia più solida del pianeta. I mercati lo sanno bene e hanno già superato lo shock. Ma ci sono due aspetti che - secondo gli analisti - costringono a tenere alta la guardia. In primo luogo, la Fed non potrà non ridimensionare la sua politica di acquisto di titoli di Stato (il quantitative easing, che scade a giugno) e alzare i tassi. Nessuno sa esattamente cosa accadrà dopo, quando la bolla si sgonfierà, e lo stesso "Financial Times" ha dedicato alla questione un lungo articolo dal titolo sottilmente provocatorio: When timing is all("Quando il tempismo è tutto"). In secondo luogo, l'inflazione cinese (al 5,4 per cento a marzo, il livello più alto dal luglio 2008) potrebbe spingere Pechino a ridurre nel lungo termine le proprie riserve di Treasury, attualmente a più di mille miliardi. Se il mercato immobiliare non dovesse raffreddarsi, la fuga da un dollaro sempre meno appetibile - con l'apprezzamento dello yuan - sarebbe l'unica strada percorribile.
In questo scenario, che cosa sta facendo la Casa Bianca? Elevare la soglia del debito e tassare i cittadini - come spiega un editoriale del "Washington Post" - "potrebbe essere una misura economicamente necessaria, ma è politicamente letale" per un presidente in crisi di popolarità e alle soglie dell'anno elettorale. Se il Congresso non troverà un accordo - aggiunge il "Post" - "si innescherà una spirale simile a quella provocata dagli asset tossici di tre anni fa". A Capitol Hill la partita è tesissima: democratici e repubblicani restano divisi praticamente su tutto. Il presidente ha proposto una riduzione alla spesa pubblica pari a 4.000 miliardi da diluire in dodici anni attraverso l'aumento delle tasse e tagli in vari settori. Il piano del deputato repubblicano Paul Ryan prevede interventi più drastici, ma senza alzare troppo le imposte: in tutto, un risparmio di quasi seimila miliardi di dollari in dieci anni. Ryan punta soprattutto sulla privatizzazione della mutua per anziani Medicare, anche se molti esponenti del suo partito hanno espresso un certo scetticismo sulla manovra. In realtà, né democratici né repubblicani hanno proposto riforme strutturali sui nodi chiave. Manca un piano credibile per la riduzione del deficit, anche se Washington si dice certa delle possibilità di ripresa.
A chi credere, dunque, ai Governi o alle agenzie di rating? La decisione di Standard&Poor's ha attaccato quel che prima era considerato inattaccabile. Standard ha denunciato una verità finora rimasta confinata nelle stanze del Tesoro, smentendo le ottimistiche analisi di tanti organismi internazionali. Dopo il declassamento del debito greco, circa un anno fa, i giornali di tutto il mondo attaccarono pesantemente il rating e i Governi colsero l'occasione per screditarne l'operato. Oggi le cose sono molto cambiate ed è forse il momento di riequilibrare quel giudizio.