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Nella «Tempesta» di Shakespeare

La rivoluzione del perdono


di GIUSEPPE FIORENTINO

Caldo torrido a Roma in questa estate 2011. Un po’ di refrigerio naturale è auspicato dai molti che quotidianamente sono alle prese con le crudeli zaffate di aria condizionata, le quali, nella loro gelida indifferenza, non risparmiano gole e narici. Una pioggerellina sottile sarebbe l’ideale, magari un fugace temporale. Una tempesta sarebbe certamente eccessiva, anche se in certe ore del giorno l’afa la rende addirittura desiderabile. Ma in questi giorni nella capitale c’è una Tempesta che dona sollievo allo spirito oppresso dalla calura, senza peraltro causare i danni tipici dei fenomeni atmosferici più estremi. Al Globe Theatre — struttura lignea che ricalca alla perfezione l’originale londinese di epoca elisabettiana e che per giunta si trova nell’impareggiabile contesto di Villa Borghese — è infatti in scena, fino al 17, l’ultimo dramma di Shakespeare. Una summa teatrale, in cui il bardo, ormai vicino alla fine, rende disponibile al pubblico, in una sorta di testamento culturale, la sua geniale idea dell’arte drammatica.
Anche per questo La tempesta è sicuramente una delle opere di Shakespeare più difficili da rappresentare. Essa ha subito mille interpretazioni, che non poche volte ne hanno distorto — se non stravolto — il contenuto. Ciò non accade nella messa in scena della compagnia guidata da Giorgio Albertazzi, che, per esperienza e per età è molto vicino allo Shakespeare de La tempesta e a Prospero, suo alter ego nel testo. Testo che in questa occasione può inoltre contare sulla traduzione di Agostino Lombardo, grande e compianto studioso shakespeariano, che si è avvicinato all’opera con umiltà e rispetto filologico.
La tempesta del Globe ha così regalato, alle poche decine di spettatori presenti, emozioni ormai inusuali nei teatri italiani, impoveriti dalla mancanza di risorse e dalla scarsità di idee. Quando invece basta rimanere fedeli al testo, perché se lo si tratta con amore esso contraccambia, si apre come uno scrigno per donare la sua infinita ricchezza. La semplicità è quindi la chiave, e quale migliore scenario se non un trasandato palco di legno — arricchito da poche azzeccatissime luci e pochissimi accorgimenti scenografici — per permettere all’opera di Shakespeare di dispiegare tutto il suo potenziale?
Nulla di più è necessario, perché la parola, nell’opera del drammaturgo inglese, crea tutto: spazio e tempo, proiettando attori e spettatori in angoli remotissimi del globo (il riferimento al nome del teatro di Shakespeare è, come si suol dire, tutt’altro che casuale) nel brevissimo volgere di una battuta. Ne La tempesta, questa qualità è espressa all’ennesima potenza: la parola di Prospero — duca spodestato di Milano dedito alle arti magiche — è in grado di scuotere gli elementi, di dominare la volontà degli altri personaggi, di intessere trame oscure a tutti se non a se stesso. Non è difficile intravvedere in questi tratti le caratteristiche tipiche del regista che comanda a bacchetta, proprio come un mago, i suoi attori. I quali, a cominciare da Ariel, spiritello della natura, aderiscono più o meno consapevolmente alla trama ordita dal loro signore.
Tutto è magico, l’atmosfera è quasi onirica e avvolge attori e spettatori che — come sempre dovrebbe accadere in teatro — partecipano alla stessa esperienza. Certo, se si volesse sottilizzare, anche in questa messa in scena non mancano le debolezze, dovute principalmente all’uso del microfono che penalizza la recitazione (già in altre occasioni è capitato di vedere, o meglio di ascoltare, ansimanti cadaveri di Giulio Cesare), ad alcuni cedimenti al macchiettistico, e a facili scelte interpretative che a volte assimilano taluni personaggi — leggi Calibano — a mostriciattoli simil-hobbit recentemente sfornati da Hollywood. Ma si tratta di particolari che non inficiano la resa complessiva e che soprattutto non distolgono l’attenzione dello spettatore dal cammino attraverso il quale Shakespeare fa precipitare l’azione drammatica. E qui Albertazzi dimostra tutta la sua abilità, sottolineando con la giusta enfasi la rinuncia di Prospero, il quale, alla fine del dramma, abiura le sue arti magiche, preferendo il perdono, con cui ripaga i suoi nemici dei torti subiti.
È questa la vera rivoluzione shakespeariana; una rivoluzione giunta quasi al termine della vita dello scrittore e che costituisce il suo più sorprendente lascito. Prospero che scopre l’immenso potere del perdono — capace più della magia di trasformare le persone — non è altri che lo stesso Shakespeare il quale, dopo la conversione alla fede cattolica, compie lo stesso percorso. Solo che la sua magia è il teatro: egli sceglie quindi di abbandonare la sua arte, rinunciando anche alle affilatissime armi di critica e di denuncia.
Shakespeare semplicemente spegne le luci del palco e lascia la scena. Ma questa non deve suonare come una rinuncia o una scelta consolatoria. Anzi, come aveva intuito Thomas Stearns Eliot, si tratta del frutto di un duro percorso, di un itinerario di purificazione, che, passando per castelli infestati da fantasmi, per brughiere sferzate dal vento e per crudeli tempeste, conduce alla saggezza del silenzio. E, alla fine, fa conquistare la pace.