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L'assistenza sanitaria al tempo della crisi

Salute e cittadinanza


di ADRIANO PESSINA

Come si concilia l'idea di cittadinanza con la colpevolizzazione della malattia letta in termini di costi per la collettività? Questa domanda diventa sempre più rilevante in un momento di crisi economica dove la voce "salute" viene presentata soltanto all'insegna del problema economico e si perde totalmente di vista il valore dell'assistenza pubblica come segno di civiltà e di una cultura che si faccia carico, in modo non astratto dei diritti dell'uomo e della centralità della persona che rischia di diventare uno slogan puramente evocativo. Sono molti gli indicatori di un processo regressivo che porta a reintrodurre lo stigma sociale della malattia; basti pensare alla campagna danese a favore delle diagnosi prenatali in funzione dell'aborto di neonati affetti da sindrome di Down, o all'insistenza sul peso sociale della disabilità, della vecchiaia, della non-autosufficienza. La costruzione di un sistema sanitario improntato al riconoscimento del bisogno come movente per una solidarietà senza condizionamenti sociali ed economici, sta diventando, a fronte anche di sprechi e di cattive amministrazioni del bene pubblico, fonte di campagne irrazionale che pretendono che ci si debba "meritare" di venire al mondo e di essere assistiti.
Di fatto si sta incrementando un'equazione pericolosa tra cittadino e contribuente, dimenticando che nessun cittadino si identifica sempre con il contribuente, perché non lo è finché non lavora, non lo può essere quando a causa di una patologia non può lavorare, non lo sarà quando perderà o non troverà il lavoro e resterà imprigionato nelle maglie della povertà e dell'emarginazione. I nuovi burocrati della salute hanno preso troppo sul serio la nozione di azienda sanitaria e stanno dimenticando che le loro stesse politiche sono un costo per la collettività, e che i prezzi per gli interventi, le operazioni, le degenze non sono scritti sulle tavole della legge dell'economia, ma sono di fatto decisi secondo prospettive di mercato in cui la razionalizzazione delle spese va sempre più nella direzione di garantire utili per gli investitori, senza ricadute equivalenti sull'assistenza ai cittadini.
Sì, bisogna mettere mano ai sistemi sanitari, razionalizzare le spese, rivedere i costi, ma tutto ciò deve essere fatto discutendo le priorità, rivedendo e ridiscutendo le forme di investimento, che non mancano, nel settore sanitario. Non basta indicare nella cartella clinica del paziente il costo di un intervento se non si dice anche quanto guadagna l'intero settore, dal personale tecnico amministrativo alle ditte farmaceutiche. Le uscite sono infatti anche delle entrate, e forse la questione che dovremo affrontare è anche la voce delle entrate nelle tasche di una parte della società. Se non vogliamo nuove e sottili barbarie dobbiamo avere il coraggio di pensare all'economia come a un mezzo decisivo per la vita della società e non viceversa.