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Anche nella finale di Coppa Italia una metafora della vita cristiana

Un derby stellare

di José G. Funes
Direttore della Specola vaticana

Devo subito avvertire il lettore e invocare la sua benevolenza: scrivo queste righe nella mia veste "giallorossa" di tifoso della Roma. Molti argentini hanno ereditato il dna dei loro antenati italiani. Ed è forse per questo fattore genetico che argentini e italiani condividono molte cose, fra cui la passione per il calcio. Un giorno gli scienziati scopriranno il gene che ci fa soffrire e gioire con i colori della nostra squadra del cuore.
Spero di essere più bravo come astronomo che come calciatore. Fin da piccolo ho avuto la passione per le stelle e per il calcio. Ma non ho mai tirato bene col pallone rispetto agli standard a cui siamo abituati noi argentini. Ho giocato nel cortile delle Escuelas Pías dei padri scolopi, che frequentavo a Córdoba, poi nel seminario di San Miguel con i confratelli gesuiti e a Padova durante il periodo del dottorato in astronomia. Negli ultimi anni a Castel Gandolfo ho giocato qualche partita con gli studenti della scuola di astrofisica e con i dipendenti delle Ville Pontificie. Arrivato ormai a cinquant'anni, dovrei essere vicino a smettere. Ma non riesco a smettere di tifare.
La mia squadra è il River Plate, l'undici argentino finito in serie b nel 2011 e tornato in serie a proprio in quest'ultima stagione. Come ogni grande squadra, dopo essere caduto il River si è subito rialzato. Ricordo che nel 1992, appena arrivato a Roma per studiare teologia alla Gregoriana, capii che dovevo professare una "fede" calcistica per potermi "inculturare" pienamente nel mio nuovo ambiente romano. All'epoca c'erano Gabriel Batistuta che giocava con la Fiorentina e Abel Balbo con la Roma. Scelsi la Roma. E non me ne sono pentito, nonostante la sofferenza di questi ultimi anni.
Era l'epoca in cui tutte le partite si giocavano contemporaneamente la domenica pomeriggio. E la sera si guardava in televisione "Novantesimo minuto" per poter vedere i gol della giornata. I miei amici laziali mi dicono che, considerando i colori biancocelesti della mia nazione, avrei dovuto tifare Lazio. Con i laziali si dialoga, ma non si negozia l'identità!
Per romanisti e laziali questa stagione è stata deludente e pensiamo di rifarci vincendo la Coppa Italia. Ma ricordiamoci che è una finale, non è la fine... Lunedì la vita continua. E come tutti i lunedì dopo un derby, romanisti e laziali si ritroveranno in ogni angolo della città per scambiare battute e pagare qualche piccola scommessa. Non è bene prendere la vita troppo sul serio, tantomeno il calcio. Noi tifosi ci aspettiamo che i nostri beniamini si allenino con serietà e che in campo diano il massimo con lealtà sportiva. Non si tratta di una battaglia all'ultimo sangue. In una società in cui dilagano aggressività e violenza, occorre saper fermare la palla e con lungimiranza fare l'assist filtrante. Abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza del calcio, gioco di squadra che esalta al tempo stesso anche le qualità individuali.
Forse oggi persino san Paolo avrebbe utilizzato la metafora di una partita di pallone piuttosto che della corsa o del pugilato - come fa nel nono capitolo della prima Lettera ai Corinzi - per spronarci a conquistare quella corona "che dura per sempre". Con lo Spirito Santo in veste di allenatore, che ci fa affrontare l'avversario - il nemico della natura umana, come lo chiamava sant'Ignazio di Loyola - con un 3-5-2, un 4-3-3 o un 4-4-2, incoraggiandoci e dandoci lucidità nell'ardore della partita. E con Gesù in veste di capitano: "Un capitano, c'è solo un capitano!".
Alla fine, se si vince, vince tutta la squadra. E se si perde, perde tutta la squadra, anche se qualcuno ha giocato una partita stellare. Una buona squadra è quella in cui tutti difendono e tutti attaccano. Perché nel calcio moderno per fare squadra bisogna anzitutto saper essere solidali. Speriamo che domenica la finale di Coppa Italia sia una festa. E vinca il migliore (anche se noi già sappiamo chi è)!